Propaganda e censura

Censura su comando: come Telegram sfida il monopolio della silenziatura di Israele

Nell’arena digitale, Telegram si è rivelato il bastione meno incline a cedere alle pressioni, sfidando lo status quo imposto da alleati più compliant come Google e Meta. Mentre quest’ultimi hanno prontamente risposto a decine di migliaia di richieste israeliane di censura, Telegram ha osato resistere, provocando così l’ira di Israele. A seguito dell’hacking alla Knesset, il capo di Telegram è stato arrestato in circostanze sospette, e la narrazione costruita intorno all’accaduto suona riciclata e stantia. Da un lato, abbiamo i giganti della tech come Zuckerberg, sotto il fuoco incrociato per la gestione scadente della sicurezza dei minori, ma misteriosamente immuni da conseguenze legali serie. Dall’altro, la “libera” Telegram che viene punita per non piegarsi. I cosiddetti liberali ci predicano la sacralità delle regole del gioco, ma solo quando fa comodo. Ecco la vera faccia della censura e dei doppi standard: un teatro di ipocrisia politica dove la libertà di parola è moneta di scambio, e il vero crimine sembra essere non tanto violare la privacy, ma rifiutarsi di conformarsi. * * * di Giuseppe Salamone Andreotti diceva che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. In ogni caso è abbastanza indicativo il dibattito apertosi in Israele dopo che alcuni hacker hanno pubblicato migliaia di documenti classificati dello stato terrorista di Israele su Telegram. Haaretz in un articolo del 21 agosto scorso titolava così: “Telegram si è dimostrato una sfida enorme per Israele dall’inizio della guerra. Mentre molte aziende tecnologiche hanno semplificato i meccanismi attraverso cui gli stati possono contattarle, Telegram è considerata la meno cooperativa di tutte.” Qualche giorno fa dopo l’hacking ai server della Knesset (parlamento israeliano), i server della Knesset hanno inviato dei messaggi che recitavano testualmente: “Arriverà una risposta e verrà presa una decisione, forse stasera, forse domani”. Da qui, sarà un caso per carità, ma qualche giorno dopo verrà arrestato il capo di Telegram. Ora ovviamente caleranno una narrazione ad hoc per questo messaggio, magari dicendo che lo hanno inviato direttamente gli hacker. Un film già visto e rivisto, soprattutto con Israele… Inoltre è bene sottolineare che a Durov vengono contestate alcune cose che potrebbero essere contestate tranquillamente anche a Zuckerberg. Ad esempio a gennaio 2024 The Guardian scriveva così: “I Meta-documenti mostrano che 100.000 bambini vengono molestati sessualmente ogni giorno sulle sue piattaforme”. Altra cosa rilevante sta nel fatto che il giornale riportava nel sottotitolo la preoccupazione per una risposta “trascurabile” da parte di Meta. A maggio 2024 invece la CBNC titolava: “Meta colpita da un’indagine sulla sicurezza dei minori ai sensi della legge tecnologica dell’UE”. Perché non emettere quindi un mandato di cattura anche per Zuckerberg? È abbastanza facile rispondere a questa domanda, ma la risposta la possiamo trovare sempre nell’articolo sopra citato di Haaretz: “Fonti israeliane spiegano che Google o Meta rimuoveranno una pagina… Su Telegram, i contenuti non possono essere rimossi con tali argomenti… Il Ministero della Giustizia israeliano ha inviato a Facebook oltre 40.000 richieste di rimozione di “contenuti illegali” con esito positivo… si tratta di contenuti illegali secondo gli standard occidentali. Anche TikTok ha rimosso oltre 20.000 post segnalati da Israele. Su Telegram, quel numero è di poco superiore a 1.300.” Nel 2018, quando Telegram venne bloccato da una sentenza di un tribunale russo a seguito dell’entrata in vigore di una legge che imponeva la conservazione delle corrispondenze per sei mesi e la consegna delle chiavi per decrittografarle, ci furono decine di organizzazioni occidentali per i diritti umani a gridare allo scandalo. Tutti i giornali della propaganda portarono avanti la classica narrazione della libertà di stampa fatta a pezzi, della giustizia a servizio del potere politico e fatto appelli all’ONU, al Consiglio d’Europa, all’OSCE eccetera eccetera. Dove sono oggi visto che sta succedendo molto di peggio nel “buono e democratico occidente”? Dove sono quei sottosviluppati che si fanno chiamare “liberali” solo perché “siamo degli ipocriti intolleranti suprematisti censori pieni di doppi standard” era troppo lungo? Gli stessi liberali che quando a censurare è Meta ci dicono essere delle piattaforme private e quindi se non ci piace di abbandonarle. Mentre quando arrestano il capo di una piattaforma privata che ti consente di parlare ed esprimerti liberamente senza censura e sbugiardare la propaganda nazista israeliana e occidentale, ti dicono che anche se è una piattaforma privata deve sottostare a delle regole. Esattamente quali regole? Quelle della censura e dei doppi standard? SIETE PERICOLOSI. MOLTO PERICOLOSI!

Bellicisti a reti unificate e censura per il dissenso

di Elena Basile Giacomo Gabellini, ricercatore e stimato autore di numerosi libri di geopolitica, ha intervistato l’ex colonnello dell’intelligence svizzera Jacques Baud sul suo canale Youtube ed è stato censurato. Baud è un politologo e scrittore che da anni pubblica saggi di successo sui conflitti in corso alla frontiera orientale dell’Europa e in Medio Oriente. Appare raramente sui media più ascoltati e letti dal largo pubblico in quanto porta avanti una critica documentata della politica statunitense e Nato. Smaschera con prove raramente attaccabili le menzogne della propaganda. Se il libero pensiero scompare anche dai social l’obiettivo della disinformazione totale dei cittadini occidentali sarà interamente raggiunto. Nelle società cosiddette autocratiche si ha contezza che i media e la stampa siano uno strumento del potere. Un russo, un cinese, un turco leggono con beneficio di inventario la stampa nazionale. L’operazione riuscita in Occidente, che fa comprendere come il sogno distopico di Orwell si realizzi con velocità sorprendente, è data dalla fiducia inculcata nella maggioranza della società civile di vivere in Paesi liberi, governati dallo Stato di diritto, in uno spazio mediatico che rispecchia la libera espressione. Vorrei riassumere gli argomenti oggettivi che da tempo illustro per confutare questa falsa sicurezza nostrana. L’ex rappresentante della Politica estera dell’Ue, Borrell, ha stabilito che in Europa non vi sia libero accesso ai media russi. La censura è stata giustificata con l’intento di voler proteggere i cittadini europei dalla disinformazione del nemico. Sappiamo bene che questo è stato ed è l’alibi delle dittature. A esso le nostre più alte cariche istituzionali si sono adeguate, biasimando in numerose occasioni la società civile italiana di farsi plagiare dai cosiddetti filo putiniani. L’epiteto è stato riservato a tutti gli analisti che nell’esame del conflitto russo-ucraino hanno illustrato le dinamiche risalenti agli anni Novanta in grado di provare l’espansionismo strategico e offensivo della Nato nei confronti di Mosca. La maggior parte di questi analisti non ha avuto accesso alle testate e reti che hanno gli indici di ascolto più elevati. Alcuni sono stati diffamati, querelati e linciati pubblicamente con menzogne evidenti. Su Corriere e Repubblica la sottoscritta è stata definita “pseudo ex ambasciatrice”. Basta una semplice ricerca in Internet per verificare come questo insulto diffamante sia una oggettiva menzogna. Con riferimento al conflitto israelo-palestinese si è fatto di peggio. Gli analisti non inclini a giustificare l’occupazione e lo sterminio di innocenti a Gaza quale operazione della civiltà contro la barbarie e come conseguenza del diritto di Israele a difendersi sono stati considerati antisemiti, in alcuni casi querelati per istigazione all’odio. È vero, negli spettacoli televisivi (non li chiamerò programmi come qualcuno vorrebbe) dedicati alla politica vengono ammessi in netta minoranza due, tre, quattro voci del dissenso, molto caratterizzate che servono soltanto a infondere negli spettatori (non sono ascoltatori) l’illusione che tutte le opinioni siano rappresentate. Naturalmente il dissenso ammesso è implicitamente denigrato, deriso. Passa il messaggio subliminale in molti casi che gli analisti fuori dal coro siano cabarettisti, incompetenti, non degni di attenzione da parte dei cittadini perbene e moderati. Le quattro agenzie di stampa internazionali copiano molte volte le veline diffuse dai servizi occidentali e i giornali con copia e incolla diffondono il verbo utilizzando le stesse espressioni. Se confrontate Corriere o Repubblica con La Libre Belgique, Le Monde e persino The Guardian, vedete assonanze inquietanti. Lo stesso accade con poche eccezioni in radio e tv, Rai News, La7 recitano il catechismo caro ai media europei. I pochi consapevoli dello stato abietto dell’informazione occidentale sono costretti a ricercare le notizie in Rete, tv indipendenti, youtuber competenti che intervistano personaggi scomodi da Mearsheimer a Chomsky, a Ilan Pappé, a Moni Ovadia, a Jeffrey Sachs, a Baud, al colonnello Mc Gregor, a ex diplomatici britannici e statunitensi ignoti alle audience dei conduttori di grido europei. Si tratta di una minoranza di autori e utenti consapevoli che non cedono al linguaggio stereotipato e semplificato, alla retorica in base alla quale Biden è un illustre e puro statista mentre Putin o Xi terribili dittatori assetati di sangue, l’Ucraina una democrazia che difende la libertà occidentale e altri luoghi comuni venduti senza vergogna anche da persone colte, istruite, editorialisti stimabili all’opinione pubblica. Ecco perché la notizia della censura a Gabellini mi ha colpito. L’ossigeno si assottiglia.

Le censure sulla censura

di Marco Travaglio La libertà d’informazione è affare troppo serio per lasciarla ai politici e ai giornalisti italiani. Che infatti la usano per tutt’altri scopi – difendere o attaccare il governo Meloni – tirandosi addosso tre diversi report sul tema senza distinguerli e scordandosi il punto di partenza, che precede di parecchio l’avvento dei Melones: l’informazione fa schifo da decenni. E lo faceva ancor di più ai tempi di Draghi e di Renzi (B. è fuori concorso), quando l’intera Rai e tutti i giornaloni erano turbogovernativi, le conferenze stampa dei premier erano messe cantate modello Corea del Nord che si concludevano con le standing ovation e ciononostante nessuno protestava: anzi, proprio per questo. La premier dice che la Relazione annuale della Commissione europea sullo Stato di diritto è stata travisata e strumentalizzata. Vero: critica alcune schiforme della giustizia del suo governo, ma sul premierato e la libertà d’informazione si limita ad affiancare alle posizioni governative quelle di “portatori di interessi” contrari (associazioni di categoria, osservatori, ong). Raccomanda l’indipendenza della Rai dai partiti, impedita dalla legge Renzi, e una riforma anti-querele temerarie, non certo nate con questo governo. Piuttosto minimalista e deludente, il report è pure viziato da sospetti di ricatto: doveva uscire il 3 luglio, ma fu rinviato perché Ursula stava trattando i voti FdI con Giorgia; poi non li ha avuti e oplà, il prezioso incunabolo è saltato fuori. La stessa puzza di estorsione si avvertì con le procedure d’infrazione aperte tre anni fa contro Ungheria e Polonia per violazioni dello Stato di diritto: poi Varsavia fu perdonata senza cambiare nulla perché obbediva alla Nato e dunque a Ursula sulle armi a Kiev, Orbán invece no perché disobbediva. La Meloni aggiunge che “la Commissione europea riporta accenti critici di alcuni portatori di interesse, diciamo stakeholder: Domani, Fatto Quotidiano e Repubblica”. E questo è falso. I tre quotidiani sono citati, con i nomi dei giornalisti consultati, da un altro report sulla libertà d’informazione: quello di un consorzio privato, Media Freedom Rapid Response, che la premier confonde o finge di confondere con quello di Bruxelles per degradare le critiche europee come attacchi della stampa ostile. C’è poi un terzo rapporto, quello dell’osservatorio Centre for media pluralism and freedom, che va giù duro sui bavagli Cartabia, Nordio e Costa, la Rai governativa e i conflitti d’interessi di Mediaset, Angelucci e Gedi. Ma Rep è riuscita a parlarne citando i finti martiri di TeleMeloni e censurando proprio il passaggio sul loro editore impuro. C’è una bella differenza anche tra i “portatori d’interessi”: noi del Fatto portiamo solo l’interesse dei lettori a essere informati. Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2024

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