Partiamo per un nuovo viaggio in Etruria e nella nostra valigia ideale proviamo a mettere, oltre a qualche nozione necessaria, i libri di alcuni scrittori che l’hanno attraversata prima di noi. Il bagaglio si fa così più pesante e più faticoso da trasportare, ma, in compenso, ci permette di visitare paesaggi, aree archeologiche, monumenti, musei anche attraverso i loro occhi e la suggestione non potrà che amplificarsi. Abbiamo scelto di concentrarci sull’Etruria detta «propria», cioè quella che si intende compresa tra i fiumi Arno a nord e Tevere a sud e con i confini orientale e occidentale rappresentati dai primi contrafforti dell’Appennino e dal Mar Tirreno. Terre nelle quali si concentrano peraltro città legate in maniera indissolubile al loro passato etrusco: Cerveteri, Tarquinia, Vulci, Orvieto, Chiusi, Perugia, Arezzo, Fiesole, Vetulonia, Populonia, Volterra, solo per limitarci ad alcuni esempi. Né tralasceremo zone turisticamente meno conosciute, come l’area delle necropoli rupestri: Blera, Norchia, Castel d’Asso, Sovana.
Partiamo da Cerveteri, la più mediterranea delle poleis etrusche: prima di visitare la necropoli della Banditaccia possiamo aprire Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani alle pagine iniziali, nelle quali c’è appunto il ricordo di una visita dell’antico sepolcreto:
«Scendemmo giù nella tomba più importante, quella riservata alla nobile famiglia Matuta: una bassa sala sotterranea che accoglie una ventina di letti funebri disposti dentro altrettante nicchie delle pareti di tufo, e adorna fittamente di stucchi policromi raffiguranti i cari, fidati oggetti della vita di tutti i giorni, zappe, funi, accette, forbici, vanghe, coltelli, archi, frecce, perfino cani da caccia e volatili di palude. E intanto, deposta volentieri ogni residua velleità di filologico scrupolo, io venivo tentando di figurarmi concretamente ciò che potesse significare per i tardi Etruschi di Cerveteri, gli Etruschi dei tempi posteriori alla conquista romana, la frequentazione assidua del loro cimitero suburbano».
È la Tomba dei Rilievi.
Alcuni anni prima, nell’aprile del 1927, lo stesso monumento era stato visitato da David Herbert Lawrence, in occasione del tour in Etruria raccontato in una serie di articoli apparsi sulle riviste illustrate Travel e World today e poi raccolti, nel 1932, dopo la morte dello scrittore, in Etruscan Places:
«Intorno a questi grandi tumuli erbosi, cinti da antichi basamenti in muratura, c’è una dolce tranquillità, una sensazione di intimità felice che spira ancora per il viale principale. È vero che era un sereno pomeriggio di sole in aprile, e che le allodole si alzavano in volo dall’erba soffice dei tumuli, ma nell’aria tutt’attorno c’era un’immobilità suadente e si sentiva che star lí, in quel posto infossato, faceva bene all’anima».
Lawrence può essere un’ottima guida anche per le tombe dipinte di Tarquinia, ma prima ci conduce all’interno del Museo Archeologico Nazionale:
«Entriamo nel cortile del palazzo. Il museo è eccezionalmente bello e interessante per chiunque conosca appena un po’ gli Etruschi. Contiene un gran numero di oggetti trovati a Tarquinia, reperti importanti. Se solo ci convincessimo e non strappassimo più gli oggetti dai loro contesti di origine! I musei sono sempre un errore. Ma se è proprio necessario che ci siano, allora che siano piccoli e soprattutto a carattere locale. Per quanto sia splendido il Museo Etrusco di Firenze, come si sta meglio al museo di Tarquinia!».
E ora alla necropoli:
«La lampada della guida incomincia presto a far luce e ci accorgiamo di essere in una stanzetta scavata nella roccia, una piccola cella nuda, dove avrebbe potuto dimorare qualche anacoreta. È cosí minuta, spoglia e familiare, molto diversa dalle spaziose tombe di Cerveteri con il loro splendore. Man mano che ci abituiamo al cambiamento di luce e la lampada illumina sempre meglio, incominciamo a vedere i dipinti sulle pareti. È la Tomba della Caccia e della Pesca, che prende il nome dai suoi dipinti».
Andando verso Vulci, il pensiero può andare a un’affermazione di uno dei maggiori scrittori europei dell’Ottocento, vale a dire Stendhal, in Rome, Naple et Florence, un libro pubblicato nel 1826:
«Durante il cammino, che riprendiamo alle due del mattino, la mia immaginazione valica lo spazio di ventuno secoli, e, faccio al mio lettore questa ridicola confessione, mi sento indignato contro i Romani, che vennero a turbare, senz’altro titolo che il coraggio feroce, quelle repubbliche d’Etruria che erano loro tanto superiori per le belle arti, per le ricchezze e per l’arte di essere felici».
Si deve, comunque, tornare a D.H. Lawrence e alla sua descrizione del Ponte dell’Abbadia, accanto al quale si trova ora il Museo Archeologico Nazionale:
«L’antico ponte, innalzato per la prima volta dagli etruschi di Vulci in blocchi di tufo nerastro, si leva nell’aria strano e curvo come una bolla. Una quarantina di metri più sotto, in fondo al burrone pieno di rovi, scorre il torrente, mentre il ponte si staglia nel cielo come un solitario arcobaleno nero, con lo spicco di una forma perfetta da lungo tempo dimenticata. Naturalmente è stato restaurato in epoca romana e medievale, ma resta di un bel dinamismo etrusco».
Per Orvieto, l’etrusca Velzna, la città-stato che guidò l’ultima resistenza a Roma e che i Romani – dopo averla conquistata al termine di un lungo assedio – rasero al suolo, trasferendone gli abitanti sulle sponde del lago di Bolsena, la guida può essere il viaggiatore-archeologo-diplomatico inglese George Dennis. Una figura poliedrica, che compì numerosi viaggi in Etruria, raccontati nel suo fortunato libro The Cities and Cemeteries of Etruria, pubblicato, in prima edizione, a Londra, nel 1848. Dennis è colpito, innanzitutto, dal paesaggio:
«La prima vista di Orvieto da questo lato è una delle più maestose d’Italia. La strada, che per la maggior parte del suo cammino è pianeggiante e completamente spoglia, conduce inaspettatamente all’orlo di un dirupo, dove di colpo balza agli occhi una scena stupenda e tale da far dimenticare ogni disagio».
Poi ci conduce alla necropoli di Crocifisso del Tufo, che ancora oggi è l’area archeologica più significativa della città:
«Nel 1874, ai piedi della rupe, a nord, fu portata alla luce una necropoli interessantissima, diversa da ogni altra di quelle finora riportate alla luce in Etruria. Le tombe qui scoperte non sono scavate nella roccia, come nella maggior parte dei siti della regione meridionale del Paese, ma sono costruite di muratura massiccia, sistemate fianco a fianco, dorso contro dorso, esattamente come le case di una città, e formano blocchi di tombe, invece di costruzioni isolate, e ogni tomba, ha l’ingresso chiuso da una lastra di pietra, col nome degli occupanti inciso a grandi caratteri etruschi sull’architrave. Questi blocchi di tombe sono separati da strade che s’incrociano ad angolo retto, cosí che qui noi abbiamo un’autentica città dei morti».
La nostra guida ci conduce quindi all’interno del Museo Faina, che era allora una collezione privata e non ancora un museo pubblico:
«La maggior parte del risultato degli scavi di Riccardo Mancini è ora raccolta nel palazzo del conte Faina, di fronte al Duomo, un signore il cui patriottismo e buon gusto lo hanno spinto ad affrontare grandi spese per la raccolta delle antichità scoperte nei dintorni della città natía, e la cui cortesia lo rende sempre accessibile ai forestieri. Devo aggiungere che la collezione non è limitata alla “roba” di Orvieto, ma accoglie anche molti reperti provenienti da Chiusi e da altri siti etruschi».
A Chiusi, con George Dennis, possiamo entrare nella Tomba del Colle, di recente restaurata e riaperta al pubblico:
«Le meraviglie di questa tomba s’incontrano sin dalla soglia. L’ingresso è chiuso da una porta a battenti, ciascuno dei quali è composto da una singola lastra di travertino. Si rimane meravigliati di fronte a questa specie insolita di porta, ancor piú, quando si ode quello che gli occhi confermano, che queste pesanti lastre sono la porta originaria della tomba e che ancora lavorano sui loro cardini, come quando furono alzate per la prima volta».
O in quella della Scimmia:
«La camera centrale è percorsa tutta intorno da una striscia di figure, alte 77 centimetri circa, a rappresentare i giochi della palestra. Una signora è la sola spettatrice: con un rosso mantello sulla testa, se ne sta seduta all’ombra di un ombrello-parasole, proprio come quelli in uso oggi e che, probabilmente, è indicativo del rango e del grado».
Del viaggiatore-archeologo-diplomatico inglese va seguito il consiglio a visitare i dintorni della città, il turista «anche se dovesse sentire scarso interesse per le antichità, sarebbe ricompensato e deliziato dal superbo panorama all’intorno». In particolare:
«Da Cetona a Sarteano vi sono solo sei chilometri e mezzo e la strada è meravigliosa. Essa sale su un’altura ripida ed elevata, coperta di boschi e dalla cima si domina un panorama stupendo sopra la valle del Chiana: Cetona rannicchiata ai piedi del monte che le dà il nome, una massa poderosa di boschi in pendío, tutti ammantati di neve in inverno».
Quindi a Volterra, seguendo di nuovo D.H. Lawrence. Subito possiamo entrare nel Museo «Mario Guarnacci»:
«Paghiamo il biglietto, e cominciamo la visita. Veramente è un museo pieno di attrattive e piacevole da visitare, ma eravamo capitati in una mattina d’aprile tanto gelida da farmi sentire vicino alla tomba più di quanto non mi sia sentito in vita mia. Eppure quasi subito nelle sale piene di centinaia di piccoli sarcofagi, cinerari o urne, come vengono chiamati, l’energia della vita antica cominciò a riscaldarci».
D’altronde, George Dennis aveva osservato:
«Non invidio l’uomo che può attraversare questo museo senza essere commosso, senza sentire una lacrima spuntargli negli occhi».
Nello stesso museo si può entrare anche insieme a Gabriele D’Annunzio che lo descrive nel romanzo Forse che sì forse che no.
Sempre in compagnia di Lawrence possiamo raggiungere la Porta all’Arco:
«L’arco si erge rotondo ed elegante, a una discreta altezza, con quella ricca possenza che è tipica delle cose antiche. Tre facce scure, coi tratti ormai consunti, si sporgono dalla chiave di volta e dalle due basi dell’arco con aria interrogativa e curiosa, quasi a lanciare il proprio sguardo dalla città nella conca profonda del mondo sottostante».
I libri portati con noi ci accompagneranno anche in altre città etrusche, come, per esempio, a Perugia, Arezzo, Roselle, Vetulonia, Populonia e in zone che stupiscono per la loro bellezza e in grado ancora – a secoli e secoli di distanza – di parlare del passato etrusco. Prendiamo un impegno, soprattutto se «addetti ai lavori»: prima di chiudere il libro di Lawrence, andiamo ogni volta alle pagine finali del capitolo dedicato a Volterra e leggiamo:
«Quello che vogliamo è un contatto autentico: gli Etruschi non sono una teoria o una tesi, se mai sono ancora qualcosa, sono un’esperienza».
O, almeno, dovrebbero esserlo.
Fonte: Nel mondo degli Etruschi, Archeo Monografie, a cura di Giuseppe M. Della Fina, aprile 2016