Non corrisponde alla realtà l’idea che l’Urbe acquisì il controllo della Grecia travolgendo con le armi una folla di pacifici filosofi incapaci di difendersi
Al suo apice, nel II secolo d.C., l’impero romano andava dal Sahara alla Scozia e dalla Siria alla Spagna e contava più di 50 milioni di abitanti. Oggi potremmo formulare giudizi negativi su una realtà del genere: basti pensare alla repressione di ribellioni come quella di Boudicca del I secolo d.C., alle guarnigioni che occupavano le province o all’imposizione centralizzata di tasse a tutto il mondo occidentale. Oppure possiamo ammirare le sue imprese, dalle strade grandi e piccole che costituiscono ancora oggi la rete dei trasporti in Europa all’introduzione della moneta unica fino ai piccoli lussi della vita (come i bagni e le condutture idrauliche) che Roma offrì ai suoi cittadini più fortunati, persino in angoli remoti dell’impero come la Britannia. Ma, che si scelga di lodare o criticare (e il più delle volte si fanno entrambe le cose insieme), non è possibile comunque evitare di domandarci come abbia fatto un piccolo centro abitato dell’Italia centrale a conquistare un territorio così immenso. Come ha potuto un misconosciuto villaggio infestato di zanzare sulla riva del Tevere arrivare così in alto?
In poche centinaia di anni un popolo, che nell’Ottavo secolo a.C. era poco più che una ruota di scorta per vicini ben più potenti sia a nord sia a sud, ottenne il controllo prima dell’Intera penisola italiana e poi di tutto il Mediterraneo, un’impresa che non riuscì mai a nessun altro né prima né dopo. In parte a causa della celebre opera Declino e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon, oggi siamo abituati a discutere soprattutto di come e perché l’impero giunse al termine (invasioni barbariche? Piombo nelle tubature? Inflazione? Immoralità e decadenza dei costumi?), ma è altrettanto importante domandarsi come sorse. E la risposta non è meno elusiva.
Alcune delle spiegazioni che si sentono più spesso non funzionano. Tanto per cominciare, i Romani non erano un popolo più militarista di qualsiasi altro nel mondo mediterraneo. È senz’altro vero che tenevano in enorme considerazione la gloria militare: a Roma, in qualunque periodo della sua storia, non sono mai esistite cerimonie più fastose delle processioni trionfali, che si celebravano dopo ogni grande vittoria (o sanguinoso massacro, a seconda dei punti di vista) e mettevano in mostra, per la gioia e il divertimento delle folle, il bottino e i prigionieri nemici catturati in guerra.
Anche i primi esempi di iscrizioni celebrative sui più antichi sarcofagi e sulle lapidi di personaggi romani illustri sottolineano le loro capacità guerresche: “Egli catturò le città di Taurasia, Cisauna e il Sannio, sottomise l’intera Lucania e prese ostaggi” recita un epitaffio del III secolo avanti Cristo. Ma anche in questo i Romani non erano diversi dai loro vicini, che mettevano nell’attività militare esattamente lo stesso impegno.
La superiorità bellica
L’immagine che ci è stata trasmessa — in parte dai fumetti di Asterix — di un’orda di rudi soldati romani che dilaga per la Gallia per assalire la gente del posto, impegnata nelle sue innocue attività quotidiane, e che non può venir fermata se non con l’aiuto di una pozione magica, non corrisponde affatto alla realtà. Un viaggiatore che si trovò a passate per la Gallia nel I secolo a.G. fu orripilato nel vedere teste umane mozzate e infilzate su lance all’esterno delle graziose capanne galliche, uno spettacolo che più a sud non si incontrava di certo (anche se ammise che dopo un po’ ci si abituava a quella vista).
E non corrisponde alla realtà nemmeno l’idea che Roma abbia acquisito il controllo del mondo greco tra il III e il II secolo a.C. travolgendo a cavallo una folla di pacifici filosofi quasi incapaci di difendersi: i Greci che caddero sotto i colpi delle spade romane erano i fieri discendenti di Alessandro Magno, non una massa di intellettuali debosciati.
La domanda dunque non è come mai i Romani continuassero a scendere in guerra: nel Mediterraneo antico i conflitti erano endemici, la pace era una cosa rara, e in questo i Romani non erano diversi da tutti gli altri popoli. La domanda, piuttosto, è come mai essi continuassero a vincere.
Parte della risposta potrebbe stare in qualche minuscolo elemento di determinazione superiore alla media nella psiche romana. Tuttavia non sussiste alcuna prova che i Romani del periodo più antico avessero in mente di creare un impero, né tantomeno che un ipotetico gruppetto di ambiziosi generali si fosse seduto davanti a una mappa, per esempio nel IV secolo a.C., quando l’espansione romana cominciava a diventare una faccenda seria, e si fosse messo a complottare per conquistare il mondo. Tanto per cominciare, a quell’epoca i Romani non avevano mappe, il che avrebbe reso quasi impossibile la pianificazione di grandi conquiste territoriali: persino l’invasione della Gallia da parte di Cesare sembrerebbe essersi basata più su voci ricevute man mano che su una precisa pianificazione geografica.
Un’altra parte della risposta, altrettanto piccola, potrebbe risiedere in tattiche di guerra migliori o in un superiore equipaggiamento militare. È vero che i Romani avevano a disposizione armi insolite e particolarmente pericolose. In alcuni campi di battaglia della Gallia sono stati ritrovati degli equivalenti primitivi delle moderne mine antiuomo: piccoli uncini di ferro nascosti appena sotto la superficie del terreno, pensati per rimanere inesorabilmente infissi nelle piante dei piedi nemici. Ciononostante, con buona pace della mitologia moderna sul genio militare romano, tutte le tattiche di guerra nel mondo antico rimanevano piuttosto rudimentali presso qualunque popolazione e un buon armamento in genere non era un fattore decisivo. Quel che contava di più, in realtà, erano i numeri: a garantire la vittoria tante volte era il semplice quantitativo di truppe che si poteva mettere in campo. Ed è proprio lì che i Romani individuarono presto il proprio vantaggio, in virtù di un meccanismo semplice, ma unico in tutto il mondo antico: estendere la cittadinanza agli stranieri, inclusi i popoli conquistati con la forza, e in tal modo aumentare a dismisura le truppe da poter schierare in battaglia. Il segreto del successo romano, insomma, era qualcosa di invisibile all’occhio e di ben più sofisticato degli uncini nascosti sottoterra: si trattava di una definizione radicalmente nuova di cosa significava “essere cittadini”, con tutti i diritti e gli obblighi che la cosa portava con sé.
A prima vista le differenze nello stile di guerra romano potrebbero non sembrare innovazioni grandiose. Le tattiche standard della Roma del primo periodo (diciamo dall’VIII al V secolo a.C., quando la conquista territoriale non si era ancora spinta molto lontano) erano dirette e brutali e i Romani, come i loro vicini, entravano in guerra praticamente tutte le estati. E c’è anche da dire che forse “guerra” è una definizione esagerata per quel che avveniva: all’atto pratico quelle sortite erano poco più che razzie di bestiame tra villaggi o cittadine, semmai ingigantite dalla propaganda. I vincitori di turno tornavano a casa con un buon bottino di bestiame nemico e una qualche compensazione in forma di lingotti di metallo (com’era normale prima dell’introduzione della moneta), dopo essersi lasciati dietro una scia di distruzione tanto per mostrare un po’ i muscoli. Insomma si riduceva tutto a un “Ci si rivede l’anno prossimo”, quando le parti avrebbero potuto tranquillamente invertirsi.
Assorbire il nemico
I Romani non modificarono quelle regole di ingaggio, ma modificarono l’esito finale: anziché limitarsi a portare a casa il bottino, con il tempo riuscirono a instaurare legami duraturi con le popolazioni che sconfiggevano, trasformandole in nuovi cittadini romani o forgiando con loro qualche genere di alleanza permanente.
Perché cominciarono a fare una cosa del genere rimane un mistero: potrebbe anche essersi trattato solo di una fortunatissima improvvisazione e non di una strategia pianificata, ma ebbe comunque conseguenze rivoluzionarie. Innanzitutto Roma ruppe quel legame tra cittadinanza e nascita che era normale nella maggior parte delle società antiche: anche la democraticissima Atene, per fare un esempio, restringeva rigorosamente il diritto di cittadinanza alle sole persone nate da genitori che già erano cittadini. I Romani invece comunicarono l’idea empatica che la cittadinanza non dipendeva solo da dove uno potesse nascere o da chi. Per loro era persino concepibile essere cittadini di due luoghi nello stesso tempo: la propria città natale e Roma.
Sul lungo periodo fu questa la base da cui sorse lo straordinario multiculturalismo della gerarchia politica romana. È grazie a questi principi, nati nei primi secoli della storia romana, che in seguito possiamo trovare sul trono cittadini originari della Spagna (gli imperatori Traiano e Adriano) o dell’Africa (Settimio Severo). Ma già nel periodo più antico quegli stessi principi conferirono a Roma, per ovvi motivi, un vantaggio decisivo prima nelle guerre contro i popoli vicini e poi in quelle portate in terre lontane.
La cittadinanza dava privilegi, dal diritto a essere tutelati dalla legge romana a quello di voto (anche se non ci è dato sapere quanti abitanti delle comunità più lontane da Roma si mettessero effettivamente in marcia per andare a esercitare quest’ultimo diritto), e allo stesso modo comportava doveri, il principale dei quali era servire nell’esercito romano. Per dirla in altri termini, più Roma inglobava i popoli sconfitti anziché lasciarli liberi di combattere un giorno ancora, e più cresceva il bacino umano a cui potevano attingere le sue legioni.
La forza della moltitudine
Si trattava di un meccanismo brillante (persino se frutto del caso e non di un’idea precisa), che convertiva i nemici in soldati romani facendo in modo che ciascuno avesse una parte nella vittoria, giacché a tutti spettava una porzione delle ricche spoglie di guerra. In tal modo l’esercito diveniva più forte e conseguiva nuove vittorie, che portavano a nuove riserve di truppe, e così via. Secondo un osservatore greco, a metà del Secondo secolo a.C. Roma, attraverso la sua rete di contatti, poteva coscrivere più di 700mila soldati, un quantitativo che nessuna potenza occidentale era mai riuscita a raggiungere prima di allora. Quando, poco tempo dopo, il grande nemico di Roma, Annibale di Cartagine, cominciò a sconfiggere una legione dopo l’altra, i Romani avevano sempre nuove truppe da schierare in campo.
Erano dunque quei numeri il segreto del suo successo. Sarebbe ingenuo da parte nostra pensare che i Romani non desiderassero con naturale avidità la ricchezza che derivava dalle conquiste o che non apprezzassero l’idea di dominare politicamente terre lontane. Quelli di epoca più tarda, guardando alla propria storia, avrebbero sostenuto che la grandezza dell’impero era stata fin da principio volontà degli dèi: Virgilio, il grande poeta del I secolo a.C., mise in bocca a Giove, re degli dèi, la profezia secondo la quale i Romani avrebbero avuto in sorte “un impero senza limiti”. Ma la causa fondamentale dell’espansione che era cominciata nel V secolo avanti Cristo fu senz’altro l’enorme riserva di truppe nata dall’estensione della cittadinanza romana, che garantì a Roma una vittoria dopo l’altra.
I Romani stessi a un certo punto se ne resero conto e presero a sottolinearne l’importanza nelle storie che formulavano attorno alle loro origini. Gli Ateniesi, come gli abitanti di molti altri Stati della Grecia, raccontavano che i loro antenati erano sorti miracolosamente dal terreno stesso di Atene, a significare che i cittadini e la terra erano uniti da un legame indissolubile. I miti romani, per contro, erano molto diversi e tendevano a indicare che i Romani erano sempre stati stranieri nella loro stessa terra.
Uno, reso famoso dall’Eneide di Virgilio, racconta che gli antenati di Roma giunsero in Italia come profughi di guerra guidati dall’eroe Enea, in fuga dalla città di Troia distrutta dai Greci nell’omonima, celeberrima guerra del mito. Un altro narra le vicissitudini di Romolo, che avrebbe fondato il nucleo di Roma sulle colline in riva al Tevere e poi, accortosi di avere con sé solo una manciata di persone, avrebbe dichiarato la sua nuova città un luogo di asilo dove stranieri, criminali, fuggiaschi ed ex schiavi sarebbero stati i benvenuti. L’idea di base era semplice: Roma era nata e aveva prosperato sul concetto stesso di integrazione di nuovi cittadini.
Era la verità e il sistema funzionò tanto bene da rimanere una sfida persino per la nostra contemporaneità: quando i moderni Stati sentono il bisogno crescente di rafforzare i confini, non sarebbe male ricordare che il più grande impero della storia occidentale fu orgogliosamente edificato sull’idea di essere stato in origine un luogo di rifugio e di asilo. Non va intesa come una lezione diretta per le persone di oggi, ma, quando si valuta se chiudere i confini di un Paese o si finge di non vedere quel che accade oggi in Grecia o negli accampamenti di immigrati a Calais, la storia di Roma ci può ricordare che esiste un’altra via, e che ci sono altre aspirazioni a cui si potrebbe guardare. Insomma, l’origine dell’impero romano potrebbe avere sul serio, indirettamente, qualcosa da insegnare anche all’uomo moderno.
Mary Beard è docente di Storia classica presso l’Università di Cambridge.