Dalla sconfitta alla guerra santa
La conquista di Gerusalemme da parte dei Crociati nel 1099 aprì una profonda ferita nel mondo islamico. Dopo l’iniziale sconcerto molti musulmani chiamarono all’unità e indissero il jihad per combattere l’invasore
di Javier Albarrán Iruela
Nel 1097, un esercito di 4000 cavalieri e 25.000 fanti cristiani si mise in marcia da Costantinopoli attraverso la Turchia. I crociati si dirigevano verso Gerusalemme con l’obiettivo di liberarla dal dominio musulmano. Conquistata Antiochia dopo un duro assedio, proseguirono la loro avanzata verso sud, impossessandosi di tutte le città costiere prima di giungere davanti a Gerusalemme. Alla fine, dopo un assedio durato 40 giorni, il 15 luglio 1099 i cavalieri cristiani assaltarono e presero la Città Santa. Per i successivi ottantotto anni, la Cupola della Roccia — il luogo che ricorda episodi della vita di Maometto — fu coronata da una croce e prese il nome di Templum Domini.
La liberazione dei Luoghi Santi fu celebrata in tutta Europa come un evento epocale. Per i musulmani che vivevano nella regione, però, l’arrivo dei crociati rappresentò un’esperienza molto differente. La prima crociata fu un’invasione inaspettata e brutale, che lasciò dietro di sé una scia di terrore che sarebbe stata ricordata per molto tempo. I cronisti arabi parlarono della paura causata da episodi come la conquista di Maarat — dove, secondo lo storico musulmano del XI-XII secolo Alilbnal-Atir, «per tre giorni passarono la gente per le armi, uccidendo oltre centomila persone e facendo numerosi prigionieri»—o, soprattutto, la presa di Gerusalemme; come riferisce lo stesso al-Atir, nel corso della settimana successiva all’assalto «la popolazione della Città Santa fu passata per le armi, e i franchi continuarono a uccidere musulmani per una settimana. Nella moschea al-Aqsa, massacrarono oltre settantamila persone ».
Tali eventi contribuirono a far sì che nella mentalità araba dell’epoca mettesse radici un’immagine fortemente ostile dei “franchi” come venivano chiamate le genti dell’Europa occidentale, sottomesse al papa di Roma, per distinguerle dai bizantini o “romei’’. Agli occhi dei vinti, i crociati apparivano come barbari, superiori nelle armi, ma sprovvisti di qualsiasi raffinatezza o sentimento di umanità. «Coloro che si sono informati sui franchi – scriveva lo storico del XII secolo Ibn Mundiqh – hanno visto in loro delle bestie che sono superiori nel valore e nell’ardore del combattimento, ma in null’altro, proprio come gli animali sono superiori termini di forza e di aggressività».
Il successo militare dei crociati era dovuto alle divisioni interne che regnavano nel mondo musulmano alla fine dell’XI secolo, specialmente nella zona siro-palestinese. Una cinquantina d’anni prima, la dinastia turca dei selgiuchidi aveva creato un grande impero che si estendeva da Afghanistan, Iran e Iraq fino a Turchia, Palestina e Arabia. Tuttavia, non era un impero centralizzato, ma basato su piccoli principati governati da città come Mosul o Aleppo, e che si preoccupavano più di combattere tra loro che dell’arrivo di un nemico esterno. Inoltre, i sultani selgiuchidi e i loro vassalli erano impegnati in un’accanita lotta contro un altro potere islamico della zona, il califfato fatimide d’Egitto, appartenente al ramo sciita dell’Islam, considerato eretico dagli altri. La rivalità tra selgiuchidi e fatimidi spinse il visir fatimida a salutare inizialmente con favore l’arrivo dei crociati in Siria e Palestina, tanto che propose loro un accordo per spartirsi le zone di influenza. Tuttavia, dopo la conquista di Gerusalemme, che i fatimidi avevano appena strappato ai selgiuchidi, si resero conto che i crociati rappresentavano una minaccia diretta anche per loro.
Dall’accettazione alla rivolta
In qualsiasi caso, la debolezza militare e la divisione politica portarono la maggior parte dei governanti musulmani a cercare di stipulare patti privati con gli invasori, impegnandosi persino a pagare loro un tributo. Un esempio di ciò è dato da Tahir ad-Din Togtekin, governante turco di Damasco, che nel 1109 giunse a un accordo con il re di Gerusalemme Baldovino per dividersi il controllo delle Alture del Golan e dei monti di Ajlun. I quattro Stati creati dai crociati — il regno latino di Gerusalemme, le contee di Tripoli e di Edessa e il principato di Antiochia – divennero in questo modo una realtà permanente nella politica del Vicino Oriente, con la quale i principi musulmani erano costretti a fare i conti, sia sul piano politico sia su quello militare o economico.
Non tutti i musulmani, però, si rassegnarono ad accettare la presenza dei nuovi vicini cristiani e ancor meno l’occupazione di luoghi tanto importanti per l’Islam come Gerusalemme. La perdita di quella che era la terza città santa dei musulmani, dopo Medina e La Mecca, aveva ferito profondamente la sensibilità religiosa islamica.
Sono vari gli esempi letterari nei quali trova eco questa sensazione di sconfitta e tristezza, unite al lamento per la debole risposta delle autorità davanti agli invasori. Ecco che cosa scrisse il poeta e storico persiano al-Abiwardi sulla caduta della Città Santa: «Debbono forse gli stranieri alimentarsi della nostra ignominia, mentre voi vi divertite nella vostra vita piacevole, come gli uomini il cui mondo è in pace? […] Vedo la mia gente lenta nell’impugnare la lancia contro il nemico. Vedo che la fede poggia su pilastri deboli». Un altro poeta scrisse a sua volta: «I politeisti [riferito ai cristiani, che credono nella Santissima Trinità] sono aumentati sino a diventare un torrente di dimensioni terrificanti. /Per quanto tempo continuerà tutto questo? / Eserciti come montagne, l’uno dietro l’altro, sono discesi dalle terre dei franchi. / Le teste dei politeisti sono ormai mature […] Il filo della loro spada deve essere spezzato e il loro pilastro demolito».
La chiamata al jihad
Oltre che tra i poeti, i massimi portavoce della resistenza contro i crociati cristiani si trovavano nei circoli religiosi. Predicatori, giuristi e teologi cominciarono a lanciare appelli per organizzare una risposta armata all’invasione degli “infedeli” invocando a questo scopo un noto principio della tradizione islamica, il jihad, in questo caso inteso come il dovere di combattere in difesa dell’Islam; in altre parole, come “guerra santa”.
Il primo autore a sviluppare in quegli anni la dottrina del jihad come guerra santa fu un giurista di Damasco chiamato Tahir al-Sulami. In una serie di predicazioni riunite nel Libro del jihad (Kitab al-jihad, 1105), al-Sulami constatava che i crociati stavano scatenando un jihad contro i musulmani in tutto il Mediterraneo e spiegava il trionfo cristiano come un castigo divino inflitto ai musulmani per non aver adempiuto ai doveri religiosi e per aver trascurato il dovere di espandere l’Islam: «L’interruzione nella realizzazione del jihad unita alla negligenza dei musulmani verso le norme stabilite dell’Islam […] ha portato Dio a far sì che i musulmani si sollevino gli uni contro gli altri, ha seminato violenta ostilità e odio tra di essi e ha incitato i loro nemici a impadronirsi dei loro territori». Tuttavia, al-Sulami era convinto della vittoria islamica finale e faceva un appello in favore dell’unità dei credenti e della loro lotta contro gli invasori crociati.
Nel pensiero islamico dell’epoca, si riteneva che Tunico autorizzato a dichiarare il jihad fosse il califfo, la massima autorità religiosa. Nell’XI secolo, i califfi, che risiedevano a Baghdad, erano diventati figure praticamente decorative, manovrate a loro piacimento dai sultani selgiuchidi, però conservavano ancora una certa autorità simbolica. Ecco perché, nel 1111, un gruppo formato da uno sceriffo e un gruppo di giuristi, sufiti e mercanti si recò a Baghdad, la capitale della dinastia imperante abbaside, con l’obiettivo di ottenere una risposta decisa alla minaccia dei crociati. Si presentarono con modi aggressivi nella moschea del sultano e in quella del califfo, come racconta il cronista Ibn al-Qalanisi: «Obbligarono il predicatore a scendere dal pulpito, che distrussero, e iniziarono a piangere per le disgrazie che l’Islam doveva subire per colpa dei franchi, che uccidevano gli uomini e riducevano in schiavitù le donne e i bambini». I religiosi tentarono di tranquillizzarli promettendo loro che il sultano «avrebbe inviato eserciti per difendere l’Islam dai franchi e da tutti gli infedeli».
Vittorie musulmane
Gli appelli all’offensiva contro i crociati sortirono il loro effetto. Nel 1119, il governante di Aleppo ottenne la prima grande vittoria musulmana sui cristiani, nella battaglia dell’Ager Sanguinis (o di Sarmada). Tuttavia, fu soltanto con l’ascesa al potere di Imad al-Din Zengi—nel 1127 come atabego governatore di Mosul e un anno dopo di Aleppo — che i ruoli cominciarono davvero a invertirsi. Zengi fu il primo capo musulmano a invocare sistematicamente la “guerra santa” contro i cristiani nelle campagne che condusse nel nord dell’Iraq dal 1130, e che culminarono con la conquista della città di Edessa nel 1144. Questo fu un duro colpo per i crociati e fece di Zengi il tanto sospirato leader che avrebbe cacciato gli infedeli, come scrissero i cronisti: «Dio volle schierare contro i crociati qualcuno che potesse compensare la malvagità delle loro azioni e distruggere e annientare i demoni crociati. Egli non vide nessuno più capace del signore, il martire Zengi».
Dopo la morte di Zengi, assassinato nel 1146 da un servo, i suoi successori raccolsero il testimone di difensori dell’Islam e del jihad. Nur al-Din, che aveva ereditato Aleppo e il Nord della Siria, ottenne importanti vittorie nella seconda crociata e riuscì a riprendere praticamente tutta la Siria. Intervenne anche nel califfato fatimide, avvicinandosi così all’ideale di unificare tutto il mondo islamico sotto un solo governante. Grazie a tutto ciò si guadagnò l’appoggio dell’élite religiosa, che prese sempre parte attiva nelle sue campagne. Simbolo del suo impegno con il jihad fu la costruzione della madrasa (scuola islamica) di al-Halawiya ad Aleppo sopra l’antica cattedrale bizantina di Sant’Elena, un modo per rappresentare la vittoria dell’Islam sugli infedeli. Nel 1168 ordinò di costruire un minbar (pulpito) destinato alla moschea di al-Aqsa, a Gerusalemme, come anticipazione della prossima riconquista della Città Santa.
Alla morte di Nur al-Din nel 1174, il suo visir in Egitto, il curdo Salah al-Din (Saladino), fondatore della dinastia degli ayyubidi, divenne la nuova guida dell’Islam contro i crociati. Si narra che quando si ammalò gravemente giurò che, se fosse sopravvissuto, non avrebbe mai più combattuto contro altri musulmani e si sarebbe dedicato unicamente al jihad contro i crociati, e avrebbe cercato di riconquistare Gerusalemme. Non tardò molto a mantenere la parola: nel luglio del 1187, Saladino sconfisse nella battaglia di Hattin, presso Gerusalemme, le truppe del re Guido di Lusignano, e tre mesi dopo gli stendardi del condottiero curdo sventolavano nella Città Santa, ponendo fine a quasi un secolo di dominio crociato. A differenza di ciò che fecero i crociati nel 1099, Saladino risparmiò la vita agli abitanti della città in cambio di un’imposta a testa, cosa che accrebbe la sua fama di sultano magnanimo.
Così descriveva lo storico al-Isfahani i sentimenti del mondo islamico per la liberazione di una delle sue città sante: «La roccia sacra è stata purificata dalla macchia dei politeisti […] Che il tempio della Mecca sia rafforzato dalla liberazione del fratello dopo la lunga e oscura notte dell’empietà, e dalla purificazione dei luoghi in cui vissero i profeti».
La sua dedizione alla politica del jihad non impedì a Saladino di mantenere strette relazioni con i crociati. Così avvenne all’arrivo dei contingenti della terza crociata, indetta dopo la perdita di Gerusalemme. Narra Ibn Shaddad, cortigiano di Saladino, che il sultano ayyubide, per risolvere la disputa, cercò di addivenire a un patto con Riccardo Cuor di Leone in base al quale la sorella del re inglese sarebbe stata data in sposa al fratello di Saladino, creando così una stirpe islamocristiana che avrebbe governato la città santa. Ma l’accordo naufragò e l’esercito crociato tornò in Europa prima della morte del sultano, avvenuta nel 1193.
«La nazione della croce è caduta»
I successori di Saladino si distinsero per la volontà di seguire una politica pragmatica, lasciando in secondo piano lo spirito del jihad. Sostenitori del pragmatismo politico, strinsero accordi con gli Stati crociati e sottoscrissero diversi trattati commerciali con le Repubbliche marinare, che possedevano attive colonie nelle città cristiane. Un esempio di questa politica è la decisione del sultano al-Kamil, nel 1229, di cedere Gerusalemme per dieci anni all’imperatore Federico II, che guidava la sesta crociata, decisione che suscitò un’ondata di sdegno nel mondo islamico.
L’ideale del jihad rinacque per mano dei mamelucchi, un gruppo di guerrieri turchi che prese il potere al Cairo nel 1249, detronizzando gli ayyubidi. A partire dal 1260, il sultano Baybars intraprese una serie di campagne per sradicare il potere crociato nel Vicino Oriente. Il suo successore al-Ashraf raggiunse l’obiettivo con la presa di Acri nel 1291, che pose fine a quasi due secoli di presenza crociata in Terrasanta. Un panegirico in onore del sultano vittorioso ricordava questa vittoria come un trionfo dell’Islam sui crociati e su tutta la cristianità: «Grazie a te non rimane alcuna città in cui l’infedeltà possa trovare riparo. Non rimane speranza per la religione cristiana! La nazione della croce è caduta; attraverso i turchi la religione degli arabi eletti ha trionfato».
Javier Albarrán Iruela è ricercatore presso il Consiglio Superiore della Ricerca Scientifica
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Per saperne di più
SAGGI
Le crociate viste dagli arabi, Amin Maalouf. Sei Editrice, Torino, 1993.
TESTI
Le lezioni della vita. Un principe siriano e le crociate, Usama Ibn Munqidh. Ariele, Milano, 2001.
Pubblicato in Storica National Geographic Italia No. 95, Gennaio 2017