Gli ebrei sono da sempre una razza sventurata?
Sotto il dominio di Roma la loro fede fu spesso oggetto di persecuzione
Ma non mancarono i privilegi: Cesare li ricompensò per l’aiuto contro Pompeo e Cicerone li difese in Senato
di Lidia Storoni
Nell’introduzione al volume Storia degli ebrei di Roma (1a edizione Francoforte 1893, traduzione di Aldo Audisio, Rusconi, pagg. 336, lire 42.000) l’autore, Abraham Berliner gioisce della libertà conquistata dai suoi correligionari romani nell’Urbe ormai capitale, dal ’70, dell’Italia unita: «crollano – scrive – i muri del ghetto al suono delle trombe della libertà». Afferma inoltre, con cauto ottimismo, che «la malattia del nostro tempo, che va comunemente sotto il nome di “antisemitismo” può esser considerata, a breve o a lungo termine, storicamente superata…».
Il vecchio studioso sarebbe stato felice se avesse visto, alla presentazione della prima edizione italiana del suo libro, abbracciarsi fraternamente i due presentatori, Monsignor Clemente Riva e il rabbino Elio Toaff, e sentire il primo esprimere la costernazione provata nel leggere le sofferenze, le umiliazioni inflitte agli ebrei dalla Chiesa nei secoli. Ma sarebbe sconvolto nell’apprendere che oggi, in un’Europa che è stata testimone dell’orrendo sterminio dell’olocausto, riaffiorano gruppuscoli di razzisti, capaci del gesto più abietto che ci sia, profanare le tombe.
Il volume è denso di notizie e scrupolosamente documentato; rappresenta una lettura molto utile benché dall’anno della pubblicazione a oggi siano uscite moltissime opere riguardanti la Giudea e Roma; la singolarità di questa opera consiste nel fatto che tratta unicamente della comunità romana, la più antica d’Europa, dal 170 a.C. al 1870.
Benché si dichiari imparziale e obiettivo, per la verità l’autore cede al suo cuore di ebreo, partecipe di quella razza sventurata; degli ebrei sottolinea le benemerenze sociali e culturali, la pazienza, la dignitosa rassegnazione. Sembra non voler riconoscere che, oltre a sporadici episodi di violenza e sopraffazione, è sempre esistita in varii strati della popolazione una sorda ostilità contro gli ebrei – dovuta a fattori molteplici, ignoranze, disagio di fronte alla diversità del loro costume, sospetto per la solidarietà che regna tra loro («se non sei circonciso – scrive Giovenale – non ti indicano la fonte»), malumore perché la stretta osservanza del riposo sabbatico e delle norme alimentari procurava loro l’esonero dalle armi.
Immigrati – e non schiavi – gli ebrei erano certamente presenti a Roma fin dal primo patto di alleanza tra la Giudea e la repubblica nel 161 a.C.; doveva essere una comunità cospicua quando Pompeo, nel 63 a.C., dopo una guerra sanguinosa attuò l’annessione della Giudea, poiché solo quattro anni dopo, nel 59 a.C., denunciarono al Senato il primo governatore, Lucio Valerio Flacco, per aver confiscato a favore dell’erario il tradizionale obolo del tempio, inviato annualmente a Gerusalemme dalle comunità della diaspora, la Siria, l’Egitto, la Persia ecc. Cicerone ne assunse la difesa e si scusò con la Corte se parlava a bassa voce perché altrimenti i Giudei, che numerosi assistevano al processo, avrebbero scatenato un tumulto.
In Sardegna contro i banditi
La comunità ottenne privilegi da Cesare, per gli aiuti finanziari prestati durante la guerra contro Pompeo, poi da Antonio e da Augusto. A quanto afferma Orazio, erano numerosi ed esercitavano un attivo proselitismo; ma permaneva nei romani, anche di classe colta, una totale incomprensione del carattere fondamentale della loro religione, il rigoroso monoteismo, il rifiuto inflessibile di qualsiasi altra divinità, l’assenza di immagini nel tempio, la rigida osservanza. Tiberio mandò quattromila giovani ebrei in Sardegna a combattere il banditismo – che se poi, commenta Tacito, fossero morti tutti di malaria, vile damnum; una perdita di poco conto. Adoravano, scrive Giovenale, un dio indefinibile e, quel che più offendeva, erano «ligi non alle leggi di Roma ma a quelle trasmesse in un misterioso volume da Mosè».
Quanto fosse suggestivo l’appello di quel Dio indefinibile si desume dal fatto che Tito, autore della feroce repressione della più grave tra le loro innumerevoli rivolte, si discostò dall’uso dei condottieri, di assumere il nome del popolo vinto e non si chiamò mai Judaicus, poiché avrebbe significato «convertito al giudaismo». Il loro malcontento economico si esprimeva in un linguaggio ispirato, oracolare, nell’attesa d’una riscossa immancabile e universale.
Con l’avvento del Cristianesimo la situazione della comunità romana peggiorò, perché ai Giudei veniva imputato il reato – dal quale sono stati assolti dal papa solo pochi giorni fa – di aver ucciso Gesù Cristo; e non si tollerava il loro rifiuto di riconoscere in Lui il Messia atteso.
La classe colta era limitata ma eccellente, specie nell’esegesi dei testi biblici e nelle materie scientifiche; infatti, anche quando fu vietato agli ebrei di frequentare le scuole di ogni dottrina, fu concesso loro di studiare medicina e nel Medioevo accadde spesso che il Papa scegliesse per archiatra un medico ebreo. La tenacissima fedeltà al loro culto era ancor più evidente da quando tutti gli altri si dissolsero e gli dei importati dall’oriente, Cibele, Iside, Giove Dolicheno, Mitra, nonché quelli antichi di Roma scomparvero per la legislazione repressiva degli imperatori e il fanatismo dei monaci.
Nel corso dei secoli furono, a fasi alterne, più o meno rispettati e tollerato il loro culto, ma mai del tutto immuni da sporadici episodi di violenza dai quali in sostanza la Chiesa, fino al XVI secolo, tranne qualche incrudimento delle misure d’intolleranza, li proteggeva.
All’elezione del nuovo papa, infatti, i notabili della Comunità sostavano solennemente nella piazza di Monte Savello per rendere omaggio al pontefice e offrirgli il rotolo della Legge – la Thorà, rilegata in oro – oltre che una libbra di pepe e una di cannella, spezie molto rare e costose.
Nella città esistevano otto sinagoghe e i loro morti avevano sepoltura in numerose catacombe. Cent’anni fa, quando Berliner raccoglieva a Roma le più remote tracce del suo popolo, gli fu possibile visitarne cinque; oggi solo due sono ancora accessibili, quella sulla via Appia e quella sotto Villa Torlonia; sui sepolcri sono dipinti i simboli tipici; il candelabro a sette bracci, il tabernacolo, e vi sono incise in greco parole di pace. Tra le leggende popolari romane c’è quella che gli ebrei non passano sotto l’arco di Tito, dove è scolpita la scena del suo trionfo e sui carri si vedono ammucchiati i tesori del tempio, tra cui il famoso candelabro; un’altra storia racconta che, quando i Visigoti entrarono a Roma, nell’agosto del 410, e la saccheggiarono, gli ebrei misero in salvo gli arredi sacri del tempio calandoli nel Tevere, ma non furono mai ripescati.
Al rogo i libri sacri
Per tutto il Medioevo, gli ebrei di Roma furono trattati con tolleranza e spesso il papa intervenne a loro favore; le cose peggiorarono durante i lunghi anni del soggiorno papale ad Avignone; ma già nel XIII secolo furono costretti a portare un contrassegno e fu loro imposto, per avere il diritto di praticare il loro culto, di versare un tributo annuo di 1130 fiorini d’oro (la cifra 30 in memoria dei 30 denari, prezzo del tradimento di Giuda). Dal XIV secolo in poi le misure vessatorie e i divieti si aggravarono, ancor più nei secoli successivi per l’afflusso di ebrei fuggiti dalla Spagna, dove infuriava la persecuzione; i loro libri sacri furono requisiti e bruciati a Campo dei Fiori fino a che, nel 1555, Paolo IV impose loro di portare un copricapo giallo e li costrinse ad abitare nel ghetto, che fu chiuso da un muro, con due sole porte d’accesso.
Le misure repressive di quel tempo furono riesumate – e c’è chi non se ne vergogna – nel 1938 da Mussolini: divieto ai medici di curare pazienti cristiani, di assumere lavoratori o domestici cristiani; proibito di praticare l’artigianato e di possedere terreni e immobili, permesso solo il commercio dell’ usato. L’ebreo non era ammesso a testimoniare in un processo a carico d’un cristiano, e vigeva l’imposizione di ascoltare ogni sabato una predica intesa a convertirli.
La situazione rimase più o meno la stessa ancora sotto Pio IX, fino alla presa di Porta Pia; ma forse, nei romani rozzi e incolti dell’epoca serpeggiava una vena di bonaria simpatia se Gioachino Belli poté ammonirli a non dimenticare che «Cristo, sarvognuno, era giudìo».
la Repubblica, 7 gennaio 1993