Gesù e gli Apostoli

di Indro Montanelli GESÙ Fra i cristiani che Nerone fece massacrare nell’anno 64, come responsabili dell’incendio di Roma, c’era anche […]

di Indro Montanelli

GESÙ

Fra i cristiani che Nerone fece massacrare nell’anno 64, come responsabili dell’incendio di Roma, c’era anche il loro capo: un certo Pietro, che, condannato alla crocefissione dopo aver visto sua moglie avviarsi alla tortura, chiese di essere appeso con la testa in giù perché non si sentiva di morire nella stessa posizione in cui era morto il suo Signore, Gesù Cristo. Il supplizio si svolse là dove ora sorge il gran tempio che porta il nome del suppliziato. E i carnefici non furono nemmeno sfiorati dal dubbio che la tomba della loro vittima avrebbe fatto da fondamento a un altro Impero, spirituale, destinato a sotterrare quello, secolare e pagano, che aveva pronunciato il verdetto.

Pietro era ebreo e veniva dalla Giudea, una delle province più tartassate dal malgoverno imperiale. Due secoli e mezzo prima era riuscita, con miracoli di coraggio e diplomazia, a liberarsi dal dominio persiano e aveva ritrovato, per una settantina d’anni, la sua indipendenza, sotto la guida dei suoi re-sacerdoti da Simone Maccabeo in giù. La loro reggia era il Tempio di Gerusalemme. E qui gli ebrei si asserragliarono per resistere all’invasione di Pompeo, che voleva estendere anche su questa terra il dominio di Roma. Combatterono con la forza della disperazione, ma non vollero rinunziare alla pausa del sabato, che la religione imponeva. Pompeo se ne accorse, e proprio di sabato li attaccò. Dodicimila persone furono massacrate. Il Tempio non venne saccheggiato. Ma la Giudea diventò una provincia romana. Si ribellò pochi anni dopo, pagò il tentativo con la libertà di trentamila cittadini venduti come schiavi, e ritrovò uno sprazzo d’indipendenza sotto un re straniero, Erode, che tentò d’introdurvi la civiltà greca e la sua pagana architettura. Fu a suo modo un grande re, intelligente, crudele e pittoresco, che seppe fare il protetto di Roma senza diventarne il servo e regalò ai suoi sudditi un tempio ancora più bello, ma decorato di quelle immagini che l’austera fede ebraica respinge severamente come peccaminose e contrarie alla Legge.

Sotto il suo successore Archelao di nuovo gli ebrei si ribellarono, i romani rimisero a sacco Gerusalemme, ne vendettero come schiavi altri trentamila cittadini; e Augusto, per tagliar corto, fece della Giudea una provincia di seconda classe sotto il governatorato della Siria. Ma poco prima che questa nuova sistemazione fosse decisa, era avvenuto nel paese un piccolo fatto di cui nessuno, lì per lì, si accorse, ma che col tempo doveva rivelarsi di una qualche importanza per le sorti dell’intera umanità: a Betlemme, vicino a Nazareth, era nato Gesù Cristo.

Per un paio di secoli l’autenticità di questo episodio è stata revocata in dubbio da una «scuola critica» che voleva negare l’esistenza di Gesù. Ora i dubbi sono caduti. Ne resta, caso mai, uno solo, di secondaria importanza: quello sulla data esatta di questa nascita. Matteo e Luca, per esempio, dicono ch’essa avvenne sotto il regno di Erode, che, secondo il nostro modo di contare, sarebbe morto tre anni prima di Cristo. Altri dice ch’era un giorno di aprile, altri di maggio. La data del 25 dicembre del 753 ab urbe condita fu fissata d’autorità trecentocinquantaquattro anni dopo l’avvenimento, e diventò definitiva.

La storia ci serve poco, a rintracciare la giovinezza di Gesù. Essa ci fornisce testimonianze contraddittorie, date incerte, episodi discutibili, e ha ben poco da opporre alla versione che ce ne dànno poeticamente i Vangeli: l’Annunciazione a Maria, la vergine sposa di Giuseppe il falegname, la nascita nella stalla, l’adorazione delle pecore e dei re Magi, la strage degl’innocenti, la fuga in Egitto. La storia ci aiuta soltanto a farci un’idea delle condizioni di quel paese, quando Gesù vi nacque, e delle ispirazioni che vi trovò. Sono gli unici elementi di cui ci si può fidare.

La Giudea o Palestina era tutto un fremito patriottico e religioso. Ci vivevano circa due milioni e mezzo di persone, di cui centomila erano addensate in Gerusalemme. Non c’era unità razziale e confessionale. In alcune città anzi la maggioranza era dei gentili, cioè dei non ebrei, specie greci e siriani. La campagna invece era interamente ebraica, composta di contadini e piccoli artigiani poveri, parsimoniosi, industriosi, austeri e pii. Passavano la vita a lavorare, a pregare, a digiunare e ad aspettare il ritorno di Jeovah, il loro Dio che, secondo le Sacre Scritture, le quali costituivano anche la Legge, doveva tornare a salvare il suo popolo e a stabilire sulla terra il Regno del Cielo. Commerciavano poco. Anzi, sembra che fossero del tutto sprovvisti di quel genio speculativo, per cui in seguito diventarono così celebri (e temuti).

Il limitato autogoverno che Roma concedeva era esercitato dal Sinedrio, o Consiglio degli Anziani, composto di settantun membri sotto la presidenza di un alto sacerdote, e diviso in due fazioni: quella conservatrice e nazionalista dei sadducèi, che tiravano più alle cose di questa terra che a quelle del cielo; e quella bigotta dei farisei, dei teologi che passavano il loro tempo a interpretare i sacri testi. Poi c’era anche una terza setta, estremista, quella degli esseni, che vivevano in un regime comunista, mettevano insieme i profitti del loro lavoro, si servivano di oggetti fatti con le loro mani, mangiavano a una stessa tavola, tacendo, e così poco, che campavano in genere oltre i cento anni, e il sabato non evacuavano nemmeno perché lo consideravano contrario alla Legge. Gli scribi invece, cui Gesù tanto spesso allude, non erano una setta; erano una professione e appartenevano per la maggior parte ai farisei. Rappresentavano un po’ i notai, i cancellieri, gl’interpreti delle Sacre Scritture, da cui ricavavano i precetti per regolare la vita della società.

Non solo tutta la politica, ma anche tutta la letteratura e tutta la filosofia ebraiche erano d’intonazione profondamente religiosa (e lo sono rimaste). Il loro motivo dominante è l’attesa del Redentore che sarebbe venuto un giorno a riscattare il popolo dal Male, rappresentato nella fattispecie da Roma. E i più, seguendo Isaia, erano convinti che il Messia di questa Redenzione sarebbe stato un Figlio di Uomo, discendente dalla famiglia di David, il mitico re degli ebrei, che avrebbe scacciato il Male e instaurato il Bene: l’amore, la pace, la ricchezza.

Questa speranza cominciava ad essere condivisa allora anche dai popoli pagani soggetti a Roma che, avendo perso ogni fede nel loro destino nazionale, la stavano trasferendo sul piano spirituale. Ma in nessun paese l’attesa era così vibrante e spasmodica come in Palestina, dove i presagi e gli oracoli davano per imminente la grande apparizione. C’era gente che passava la giornata nello spiazzo di fronte al Tempio, pregando e digiunando. Tutti sentivano che ormai il Messia non poteva più tardare.

Pure, Gesù trovò qualche difficoltà a farsi riconoscere come l’atteso Figlio dell’Uomo. E pare ch’Egli stesso acquistasse la coscienza di esserlo solo dopo aver ascoltato le prediche di Giovanni il Battista, ch’era Suo lontano parente perché figlio di una cugina di Maria. In genere, noi ci rappresentiamo Giovanni, per la sua qualità di precursore, come molto più anziano di Gesù. Invece sembra che fosse quasi Suo coetaneo. Viveva sulle rive del Giordano, vestito solo dei suoi lunghi capelli, si nutriva di erbe, di miele e di locuste, chiamava la gente a purificarsi col rito del Battesimo, da cui gli derivò il soprannome, e prometteva l’avvento del Messia come corrispettivo di un sincero pentimento.

Gesù venne a trovarlo «nel quindicesimo anno di Tiberio», cioè quando Egli stesso doveva averne ventotto o ventinove. E sostanzialmente ne accettò la dottrina e la riprese per conto Suo, ma astenendosi dal battezzare gli altri di persona, e portando la predicazione in mezzo alla società. Poco dopo Giovanni venne arrestato dalle guardie del tetrarca di Gerusalemme, Erode Antipa. Luca e Matteo raccontano che l’arresto fu dovuto alle critiche di Giovanni al matrimonio di Erode con Erodiade, moglie di suo fratello Filippo. La figlia Salomè danzò talmente bene di fronte al tetrarca che questi si offrì di contentare qualunque suo desiderio. Su suggerimento della madre, Salomè chiese la testa decapitata di Giovanni, e fu accontentata.

Fu dopo questo avvenimento che la missione di Gesù entrò nel suo pieno. Egli cominciò a predicare nelle sinagoghe, e dalle concordi testimonianze che ci restano si direbbe che qualcosa di soprannaturale attirasse subito le folle verso di Lui. Egli accompagnava le prediche, di quando in quando, coi miracoli; ma li faceva con riluttanza, proibiva ai Suoi seguaci di sfruttarli a scopi pubblicitari e si rifiutava di considerarli «prove» della Sua onnipotenza.

Intorno a Lui si era formata una cerchia di stretti collaboratori, i dodici Apostoli. Il primo fu Andrea, un pescatore ch’era stato seguace di Giovanni. Egli condusse con sé Pietro, pescatore anche lui, impulsivo, generoso, talvolta timido fino alla viltà. Anche Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, erano pescatori. Matteo invece era «pubblicano» (oggi si direbbe «statale») cioè un collaboratore dell’odiato governo romano. Giuda Iscariota era l’amministratore dei fondi che gli Apostoli mettevano in comune.

Sotto di loro c’erano settantadue Discepoli, che precedevano scalzi Gesù nelle città ch’Egli intendeva visitare per prepararvi la gente alle Sue prediche. Eppoi tutto un codazzo di fedeli, uomini e donne, che Lo seguivano, vivendo fraternamente tra loro secondo la regola degli esseni.

Dapprima il Sinedrio non si preoccupò molto di Gesù.

Per due ragioni: prima di tutto, perché i Suoi seguaci erano ancora scarsi; eppoi perché le idee che predicava non erano, nel loro complesso, incompatibili con la Legge e coi suoi dogmi. L’avvento del Redentore e del Regno del Cielo faceva parte della dottrina ebraica e del suo messianismo, come i precetti morali che Gesù propagandava. «Ama il prossimo tuo come te stesso», «Offri l’altra guancia a chi ti ha schiaffeggiato», eccetera erano già nel galateo di quel popolo. Gesù diceva: «Io non sono venuto a distruggere la Legge di Mosè, ma ad applicarla».

La rottura con le autorità avvenne quando Gesù annunziò di esser Lui il Figlio dell’Uomo, il Messia che tutti aspettavano, e la folla di Gerusalemme, dov’era tornato dopo la predicazione in provincia e nel contado, Lo salutò come tale. Il Sinedrio ne fu preoccupato soprattutto per ragioni politiche: temeva che Gesù approfittasse del Suo credito di Messia per provocare una sollevazione contro Roma, sollevazione che sarebbe finita in un nuovo massacro.

La sera del 3 aprile dell’anno 30, Egli fu informato che il Sinedrio aveva deciso il Suo arresto su denunzia di uno degli Apostoli. Pranzò ugualmente con essi in casa di un amico e in quell’ultima cena annunziò che uno fra loro Lo stava tradendo, e li avvertì che ormai Gli restava poco tempo da trascorrere con loro. I gendarmi Lo catturarono quella notte stessa nel giardino di Getsemani. E quando al Sinedrio che Gli chiedeva se era Lui il Messia, rispose: «Sì, sono io», fu deferito al procuratore romano, Ponzio Pilato, per empietà.

Ponzio Pilato era un funzionario, che più tardi finì la sua carriera piuttosto ingloriosamente: lo silurarono per malversazioni e crudeltà. Tuttavia nel caso di Gesù non si comportò molto male, dal punto di vista burocratico. Gli chiese se manteneva la Sua pretesa di essere il re degli ebrei, ma in tono di scherzo e forse sperando che l’accusato gli rispondesse di no. Gesù gli rispose invece di sì, e gli spiegò che Regno intendeva instaurare. Pietro dice ch’Egli aveva deciso di morire per espiare le colpe di tutti gli uomini.

Pilato impartì con riluttanza la condanna a morte che quella confessione imponeva: cioè a mezzo di crocefissione. Fu inchiodato alle nove del mattino, fra due ladroni, sotto la tortura per un attimo vacillò e mormorò: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Alle tre del pomeriggio spirò.

Due influenti membri del Sinedrio chiesero e ottennero da Pilato il permesso di seppellire il cadavere. Due giorni dopo, Maria Maddalena, una delle più ardenti seguaci di Gesù, andata a visitarne la tomba, la trovò vuota. La notizia volò di bocca in bocca e fu confermata dalle apparizioni che Cristo fece ancora sulla terra, presentandosi in carne ed ossa ai Discepoli.

Quaranta giorni dopo il Suo decesso ufficiale, Egli ascese al Cielo, com’era del resto nella tradizione ebraica, da Mosè a Elia a Isaia. E i Suoi seguaci si sparpagliarono nel mondo ad annunziare la grande novella della Sua resurrezione e del prossimo ritorno.

GLI APOSTOLI

Quest’opera missionaria dapprima si sviluppò soltanto in Palestina e nelle contrade vicine, dove vivevano colonie ebree. Perché, in un primo momento, tra gli Apostoli fu tacitamente convenuto che Gesù era il Redentore non di tutti gli uomini, ma soltanto del popolo ebraico. Fu dopo la missione di Paolo ad Antiochia e il successo che egli raccolse fra i gentili di questa città, che si pose e fu risolto il problema dell’universalità del Cristianesimo.

Paolo fu per la «ideologia», come oggi si direbbe, della nuova fede quel che Pietro fu per la sua organizzazione. Era un ebreo di Tarso, figlio di un fariseo benestante, e quindi d’origine borghese, che gli trasmise il più prezioso di tutt’i beni, a quei tempi: la cittadinanza romana. Aveva studiato il greco e seguito le lezioni di Gamaliel, il presidente del Sinedrio. Aveva un’intelligenza acuta, tipicamente ebraica nello spaccare il capello, e un carattere difficile: imperioso, impaziente, e spesso ingiusto. La sua prima reazione verso Cristo, che non conobbe di persona, e i cristiani, fu di violenta antipatia. Li considerava eretici, e quando gliene capitò sotto mano uno, Stefano, condannato per infrazione alla Legge, collaborò con entusiasmo alla sua lapidazione. Un giorno sentì che i cristiani guadagnavano proseliti a Damasco. Chiese al Sinedrio di lasciarcelo andare per arrestarli, e durante il viaggio fu folgorato da uno squarcio di luce e udì una voce che diceva: «Paolo, Paolo, perché mi perseguiti?». «Chi sei?» chiese sbigottito. «Sono Gesù.» Rimase cieco per tre giorni, poi andò a farsi battezzare, e diventò il più abile propagandista della nuova Fede.

Per tre anni predicò in Arabia, poi tornò a Gerusalemme, si fece perdonare da Pietro il suo passato di persecutore, e con Barnaba andò a dirigere l’opera di proselitismo fra i greci di Antiochia. Quando seppero che i due missionari non richiedevano la circoncisione per accettare conversi, come Mosè prescriveva, cioè li reclutavano anche fra i gentili, gli Apostoli li mandarono a chiamare per avere spiegazioni. Con l’appoggio di Pietro, la battaglia fu vinta
da Paolo, ma riprese subito dopo la sua seconda tournée in Grecia. La maggioranza degli Apostoli era ancora fedele alla Legge, frequentava il Tempio, non voleva rompere col suo popolo e con la sua tradizione. Paolo sentì che, a lasciarli fare, costoro avrebbero fatto del Cristianesimo soltanto una eresia ebraica, sostenne le sue tesi in pubbliche prediche e andò a rischio di essere linciato dalla folla. Volevano processarlo per empietà. Ma lo salvò la cittadinanza romana che gli dava il diritto di appello all’imperatore. Così lo imbarcarono per Roma, dove giunse dopo un viaggio avventurosissimo.

Nell’Urbe lo ascoltarono con pazienza, non capirono un’acca della questione ch’egli esponeva, compresero soltanto che la politica non c’entrava e, in attesa che arrivassero gli accusatori, lo trattarono bene, limitandosi a mettergli un soldato di guardia alla porta della casa che gli avevano lasciato scegliere. Paolo vi invitò gli esponenti della colonia ebraica, ma non riuscì a persuaderli. Anche i pochi fra loro ch’erano già cristiani respinsero con orrore l’idea che il battesimo fosse più importante della circoncisione, e a lui preferirono Pietro, che giunse poco dopo e trovò un’accoglienza molto più calda.

Paolo riuscì a convertire qualche gentile; ma in sostanza rimase solo e, animato com’era da implacabile zelo missionario, lo sfogò nelle famose Lettere che scrisse un po’ a tutti i vecchi amici, di Corinto, di Salonicco, di Efeso, e che costituiscono ancor oggi la base della teologia cristiana. Secondo qualche storico, egli fu assolto, tornò a predicare in Asia e in Spagna, fu di nuovo arrestato e condotto a Roma. Ma pare che non sia vero. Paolo non fu mai liberato, nell’amarezza di quel solitario esilio perse a poco a poco la fede nell’imminente ritorno di Cristo sulla terra, o per meglio dire la tradusse in quella nell’aldilà, sigillando così la vera essenza della nuova religione.

Non sappiamo come, quando e perché lo processarono di nuovo. Sappiamo soltanto che l’accusa fu: «Disobbedienza agli ordini dell’imperatore e pretesa che il vero re sia un tale chiamato Gesù». Può darsi infatti che non ci fosse nient’altro a suo carico. I poliziotti vanno per le spicce e, sentendo Paolo dare del re a Gesù, quando sul trono c’era Nerone, lo arrestarono e condannarono. Una leggenda vuole ch’egli sia stato soppresso lo stesso giorno dell’anno 64 in cui Pietro fu crocefisso e che i due grandi rivali, incontrandosi sulla via del supplizio, si abbracciassero in segno di pace. La cosa è poco credibile. Pietro si trovò mescolato con gli altri cristiani, uccisi in massa come responsabili dell’incendio di Roma. Paolo era un «cittadino», e come tale aveva diritto a qualche riguardo. Infatti si limitarono a decapitarlo. E là dove si ritiene ch’egli sia seppellito, la Chiesa, due secoli dopo, fondò la basilica che ne porta il nome: San Paolo fuori le Mura.

Quante reclute aveva fatto il Cristianesimo a Roma, nel momento in cui scomparvero i due grandi Apostoli?

Le cifre sono impossibili da precisare, ma non crediamo che superassero qualche centinaio, al massimo qualche migliaio. Il fatto stesso che le autorità vi prestassero poca attenzione, lo dimostra. L’accusa dell’incendio non faceva parte di una politica persecutoria; fu uno stratagemma estemporaneo per fuorviare i sospetti contro Nerone. Il massacro, sul momento, parve aver distrutto per sempre la setta. Poi, come tutti i massacri, si rivelò un fertilizzante. Ma questo fu dovuto all’organizzazione che Pietro le aveva dato.

I cristiani si riunivano in ecclesiae, cioè in chiese o congregazioni, che in quei primi tempi non ebbero nulla di segreto e di cospiratorio. I paragoni che oggi si fanno con l’organizzazione cellulare comunista sono assolutamente ridicoli e privi di fondamento. Non solo perché nelle ecclesiae si predicava l’amore invece dell’odio; non solo perché non vi si svolgeva nessun proselitismo politico. Ma soprattutto perché non c’era ombra di segretezza, e chiunque si presentasse veniva accolto senza sospetti né diffidenze. Un’altra falsa credenza di oggi è che gli adepti fossero soltanto proletari, «la feccia», come l’avrebbe chiamata più tardi Celso. Niente di più inesatto. C’era di tutto. E in genere si trattava di gente industriosa e pacifica, di piccoli e medi risparmiatori, che finanziavano le comunità cristiane più povere. Luciano il miscredente li definiva: «Degl’imbecilli che mettono insieme tutto quello che possiedono». Tertulliano il convertito precisava: «Che mettono insieme ciò che gli altri tengono separato e tengono separata la sola cosa che gli altri mettono insieme: la moglie».

Una discriminazione, imposta dalle circostanze, ci fu soltanto fra la popolazione di città e quella di campagna. I primi proseliti li diede la prima, per ovvie ragioni: perché solo in città c’è modo di riunirsi assiduamente, perché le scontentezze vi sono più acute e le menti più aperte alla critica, perché in campagna le tradizioni e i costumi si conservano di più e una maggiore forza morale li sorregge. Ed ecco perché i cristiani cominciarono a chiamare i miscredenti pagani, cioè contadini, da pagus che vuol dire «villaggio».

La prima cosa cui mirarono questi precursori fu l’instaurazione di un modello di vita sano e decente, di cui comprendiamo il prestigio e il fascino ch’era destinato ad esercitare in una capitale che si faceva sempre più malsana e svergognata. L’origine ebraica della nuova fede e di coloro che vi si convertirono per primi era comprovata dall’austerità che imponeva. Le donne partecipavano alle funzioni del culto, che ancora si esaurivano nella preghiera, ma velate, perché i capelli potevano distrarre gli angeli, come dice san Gerolamo che voleva farli tagliare a tutte. E un regime di vita ordinato e casalingo era la regola fondamentale. La festa del sabato, anch’essa di origine ebraica, era osservata, e la si celebrava con una cena collettiva, che cominciava e finiva con le preghiere e con la lettura delle Sacre Scritture. Il prete benediceva il pane e il vino, che simboleggiavano rispettivamente il corpo e il sangue di Gesù, e la cerimonia finiva col bacio d’amore che tutti si scambiavano, ma che dovette dare origine a qualche diversivo in contrasto con la teologia perché di lì a poco si prese a praticarlo solo da uomo a uomo e da donna a donna, e con la raccomandazione di tener chiusa la bocca e di non ripeterlo se dava piacere.

L’aborto e l’infanticidio furono aboliti ed esecrati dai cristiani in mezzo a una società che sempre più li praticava e ne stava morendo. Anzi, ai fedeli fu fatto obbligo di raccogliere i trovatelli, adottarli e educarli nella nuova religione. L’omosessualità era bandita; il divorzio era ammesso solo su richiesta della moglie, se costei era pagana. Meno successo ebbe la proibizione di frequentare il teatro. Ma, tutto sommato, la regola rimase severa specie finché fu praticata quasi esclusivamente dagli ebrei. Poi, a poco a poco, col crescere di numero e d’importanza dei gentili, essa si fece più accomodante. E la festa austera del sabato diventò piano piano quella più allegra della domenica.

In questo «giorno del Signore» ci si riuniva intorno al prete che leggeva un brano delle Scritture, dava l’avvio alle preghiere, eppoi teneva un sermone. Questa fu la prima rudimentale Messa, che poi si sviluppò secondo un più preciso e complicato rituale. In quei primi anni gli ascoltatori ne erano anche i protagonisti, perché ad essi veniva concesso di «profetizzare», cioè di esprimere in stato di estasi dei concetti, che poi il sacerdote doveva interpretare. Quest’uso finì perché minacciava di provocare il caos proprio là dove la Chiesa si stava sforzando di mettere ordine: nelle questioni teologiche.

Soltanto due dei sette Sacramenti erano allora praticati: il Battesimo non si distingueva dalla Cresima perché veniva imposto a persone già adulte, quali furono i primi conversi. Poi, piano piano, si cominciò anche a nascere cristiani, e allora i due Sacramenti furono separati, il secondo costituendo la «conferma» del primo. Il matrimonio era soltanto civile; il prete si limitava a benedirlo. Invece grandi cure si aveva del funerale, perché, dal momento che un uomo era morto, esso diventava esclusiva pertinenza della Chiesa e tutto doveva essere predisposto per la sua resurrezione. Il cadavere doveva avere la sua propria tomba, e il prete officiava durante il seppellimento. Le tombe erano costruite secondo il costume siriano ed etrusco: in cripte scavate nelle pareti di lunghe gallerie sottoterra: le catacombe.

Questo uso durò fino al nono secolo, poi decadde. Le catacombe diventarono mèta di pellegrinaggio, la terra le ricoperse e furono dimenticate. Vennero riscoperte nel 1578 per un semplice caso. Il fatto che le loro ramificazioni fossero complicate e ritorte ha fatto pensare che le si fosse costruite come nascondigli per la «cospirazione». E su questa ipotesi si sono imperniati molti romanzi.

Così equipaggiata, nacque la vera religione; quella non più limitata a un popolo e a una razza, come il giudaismo, o a una classe sociale, come il paganesimo di Grecia e di Roma, che la considerava monopolio dei suoi «cittadini». Il suo livello morale, la grande Speranza che apriva nel cuore degli uomini e l’impeto missionario di cui li accendeva facevano dire orgogliosamente a Tertulliano: «Siamo soltanto di ieri. E già riempiamo il mondo».

Indro Montanelli, Storia di Roma, Capitoli 35-36, [ed. illustrata], Rizzoli 2018

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