di Indro Montanelli
CLAUDIO E SENECA
I pretoriani che, avendo ucciso Caligola, erano padroni della situazione e volevano restarlo, si guardarono intorno alla ricerca d’un successore di cui poter disporre a piacimento. E parve loro che il personaggio più indicato fosse lo zio del defunto, quel povero Claudio già cinquantenne, con le gambe inceppate dalla paralisi infantile e la lingua dalla balbuzie, e con l’aria stordita, che la notte dell’assassinio fu trovato nascosto dietro una colonna, a tremar di paura.
Era figlio di Antonia e di Druso, figlio a sua volta di Druso Nerone. Ed era passato in mezzo alle tragedie della casa Claudia, protetto da una ben accreditata fama di mentecatto. Se era stata una commedia, la sua, bisogna dire ch’egli l’aveva recitata molto bene, sin da piccino, perché perfino sua madre lo chiamava un «aborto» e quando voleva dir male di qualcuno, lo definiva «più cretino del mio povero Claudio!».
È difficile dire sino a che punto questo personaggio, rivelatosi poi un eccellente imperatore, fosse un idiota, o lo facesse per non pagare il dazio. Certo che, in questo modo, fu l’unico della famiglia a salvarsi. Trascinando le gambette sinistrate, sputacchiando, quando parlava, in faccia a tutti, alto, appesantito dalla trippa e col naso rosso di vino, aveva vissuto sino a quell’età senza dar ombra a nessuno, studiando e componendo storie, fra cui la sua autobiografia. Parlava il greco, la sapeva lunga di geometria e di medicina. E quando si presentò al Senato per farsi proclamare imperatore, disse: «Lo so che mi considerate un povero scemo. Ma non lo sono. Ho finto di esserlo. E per questo oggi son qui». Dopodiché però sciupò tutto, tenendo una conferenza sul modo di curare i morsi delle vipere.
Claudio debuttò con una buona mancia ai pretoriani che lo avevano eletto, ma in cambio si fece consegnare da loro gli assassini di Caligola e li soppresse per instaurare, disse, il principio che gl’imperatori non si ammazzano. Poi cancellò con un colpo di penna tutte le leggi del suo predecessore e si diede a riordinare l’amministrazione, spiegandovi un senno e un equilibrio che nessuno sospettava in lui. Convinto che fra i senatori non ci fosse più nulla di buono, formò un ministero di tecnici, scegliendoli nella categoria dei liberti. E si diede a studiare e realizzare con loro opere pubbliche di grossa portata, divertendosi a fare di persona calcoli e progetti. Quello che più l’occupò fu il prosciugamento del lago Fucino. Impiegò trentamila sterratori e undici anni per scavare un canale e far defluire le acque. Quando tutto fu pronto, offrì ai romani, come ultimo spettacolo, prima del disseccamento, una battaglia navale fra due flotte di ventimila condannati a morte, che gli rivolsero il famoso grido: «Ave Cesare! I morituri ti salutano!», si colarono a picco gli uni contro gli altri, e affogarono. Il pubblico, che tappezzava le colline intorno, si divertì moltissimo.
Tutti si misero a ridere quando nel 43 questo imperatore sbevazzone e dall’aria scimunita e gioconda partì alla testa del suo esercito per conquistare la Britannia. Non aveva mai fatto il soldato anche perché lo avrebbero riformato alla leva, e Roma era convinta che sarebbe scappato al primo scontro. Ma quando si sparse la notizia ch’egli era morto, il cordoglio fu grande e generale: i romani si erano sinceramente affezionati a quel loro imperatore che, con tutte le sue stravaganze, si era mostrato il migliore, o almeno il più umano, fra quelli succeduti ad Augusto.
Invece Claudio non solo non era morto, ma aveva conquistato davvero la Britannia, e ora tornava portandosene dietro il re, Caractaco, che fu il primo, dei re vinti da Roma, ad essere graziato. Il merito di questa vittoria, certo, sarà stato, più che di Claudio, dei suoi generali. Ma i generali era lui che li nominava, e in queste scelte non prendeva granchi. Fu sotto di lui che si formò anche Vespasiano.
Purtroppo questo brav’uomo aveva un debole: le donne. Era un pomicione incorreggibile. Aveva già avuto, e tradito, tre mogli, quando, quasi cinquantenne, sposò la quarta, Messalina, che aveva sedici anni. Messalina è passata alla storia come la più infame di tutte le regine, e forse non è vero. Forse fu soltanto la più scostumata. Siccome non era bella, quando qualche giovanotto le resisteva, gli faceva impartire da Claudio l’ordine di cedere, trasformando così l’amore in un gesto di patriottismo. Claudio si prestava purché Messalina gli lasciasse mano libera con le cameriere. Erano, in fondo, una coppia bene assortita, ma il guaio era che Claudio si era messo in testa di riformare il costume romano su basi di austerità, e una moglie di quella fatta non costituiva il migliore esempio. Un giorno, mentre egli era assente, essa sposò addirittura il suo amante di turno, Silio. I ministri ne informarono l’imperatore dicendogli che Silio voleva sostituirlo sul trono. Claudio tornò, lo fece uccidere, eppoi mandò due pretoriani a chiamare Messalina che si era nascosta nella casa materna. Timorosi di una vendetta, i pretoriani la pugnalarono nelle braccia di sua madre. Claudio ordinò loro di uccidere anche lui, se avesse accennato a risposarsi.
Si risposò l’anno dopo, e la quinta moglie virtuosa fece rimpiangere la quarta svergognata. Agrippina, figlia di Agrippina e di Germanico, era sua nipote, aveva già avuto due mariti, e il primo di essi le aveva lasciato un figlioletto di nome Nerone, la cui carriera fu la sua unica passione. In lei riviveva Livia peggiorata. Coi suoi trent’anni, le fu facile mettere sotto la pantofola quel marito quasi sessantenne, infiacchito dagli strapazzi con le cameriere. Essa lo isolò dai suoi collaboratori, mise il suo amico Burro alla testa dei pretoriani, e instaurò un nuovo regno di terrore, di cui senatori e cavalieri fecero le spese. Le condanne capitali portavano una firma di Claudio che, dopo la morte di costui, si rivelò falsificata. Il poveruomo, sebbene rimbambito, parve accorgersi a un certo punto di quel che succedeva e voler porvi rimedio. Agrippina lo prevenne propinandogli un piatto di funghi avvelenati. Nerone, che aveva a modo suo un certo spiritaccio, disse più tardi che i funghi dovevano essere una pietanza da dèi, visto che erano riusciti a trasformare in dio un povero ometto come Claudio.
Nerone, in dialetto sabino, voleva dire «forte», e nei primi cinque anni di regno il figlio di Agrippina tenne fede al suo nome, mostrandosi un imperatore magnanimo e assennato. Ma il merito non fu suo; fu di Seneca, che in suo nome governò.
Seneca era uno spagnolo di Cordova, milionario di famiglia e filosofo di professione, che già aveva fatto parlare di sé, prima che Agrippina lo arruolasse come precettore di suo figlio. Caligola lo aveva condannato a morte per «impertinenza»; poi lo aveva graziato perché malatissimo di asma. Claudio lo aveva mandato al confino in Corsica per una tresca con sua zia Giulia, la figlia di Germanico. Seneca era rimasto laggiù otto lunghi anni scrivendo eccellenti saggi e alcune brutte tragedie. Non sappiamo chi fu a proporlo ad Agrippina come l’uomo più adatto ad allevare Nerone secondo i dettami dello stoicismo, di cui era considerato l’incontestabile maestro. Comunque, nello spazio di pochi giorni, egli passò dallo stato di recluso a quello di padrone del futuro padrone dell’Impero.
Era uno strano uomo. Usò la sua posizione, senza troppi scrupoli, per moltiplicare il patrimonio, ma non usò il patrimonio per menar vita da signore. Mangiava pochissimo, beveva solo acqua, dormiva sul tavolaccio, scialava solo in libri e opere d’arte, dal giorno che sposò fu fedele solo a sua moglie, e a chi gli rimproverava di amare troppo il potere e i quattrini, rispondeva: «Ma io non lodo la vita che faccio. Lodo quella che dovrei fare, e di cui a distanza imito, arrancando, il modello». Mentre era all’apice della sua fortuna, un libellista lo accusò pubblicamente di aver rubato allo stato trecento milioni di sesterzi, di averli moltiplicati con l’usura, e di essersi liberato dei rivali e dei nemici con la denunzia. Seneca, che in quel momento poteva far sopprimere chi voleva, rispose astenendosi dal denunziare il suo denunziatore. Però l’usura continuò ad esercitarla, a quanto dice Dione Cassio.
Quando il suo pupillo salì al trono, Seneca gli diede da leggere in Senato un bel discorso, in cui il nuovo imperatore s’impegnava a esercitare solo il potere di comandante supremo dell’esercito. Nessuno ci credette, probabilmente, ma la promessa fu mantenuta per cinque anni, durante i quali tutti gli altri poteri furono esercitati da Agrippina e da Seneca. E le cose procedettero abbastanza bene finché costoro furono d’accordo. Nerone, con quei due suggeritori alle spalle, prese alcune risoluzioni giudiziose: respinse la proposta del Senato di elevargli statue d’oro, si rifiutò di firmare condanne a morte, e quando per una dovette fare eccezione esclamò brandendo la penna: «Potessi non aver mai imparato a scrivere!». Sembrava davvero un bravo ragazzo, interessato quasi esclusivamente alla poesia e alla musica, e nessuno pensava che queste buone disposizioni potessero rivelarsi un giorno pericolose.
Poi Agrippina volle strafare, cioè fare tutto da sola. Seneca e Burro se ne allarmarono e, per neutralizzarla, spinsero Nerone a far valere la sua autorità. Incollerita, Agrippina minacciò di disfare la sua opera, mettendo sul trono Britannico, figlio di Claudio. E Nerone rispose facendo sopprimere costui e confinando la madre in una villa, dove essa rese alla storia, crediamo, un brutto servizio, scrivendo un libro di Memorie su Tiberio, Claudio e Nerone, cui Svetonio e Tacito attinsero a piene mani e che, ispirato com’era dalla vendetta, temiamo che non fosse molto attendibile.
Che parte abbia avuto Seneca nell’uccisione di Britannico, ce lo domandiamo. Come autore di un saggio intitolato Della clemenza, ci auguriamo che non ne abbia avuta punta. Ma, dati i precedenti, non oseremmo giurarlo.
Finché Nerone seguitò a razzolare come Seneca predicava, Roma e l’Impero furono tranquilli, le frontiere sicure, prosperi i commerci e in ascesa le industrie. Ma a un certo punto il pupillo, che aveva appena vent’anni, cominciò a volgersi verso un altro maestro, che soddisfaceva di più le sue tendenze di esteta: Caio Petronio, l’arbitro di tutte le eleganze romane, il fondatore di una categoria umana abbastanza diffusa: quella dei dandies.
Noi troviamo una certa difficoltà a identificare questo ricco aristocratico che Tacito descrive raffinato nei suoi appetiti, delicatamente voluttuoso, d’ironica ed elegantissima conversazione, nel Caio Petronio autore del Satyricon, libello di rime volgari fino all’oscenità con personaggi banali e situazioni trite. Se è vero che si tratta della stessa persona, vuol dire che fra il modo di vivere e di essere e quello di scrivere e di apparire c’è di mezzo non il mare, ma l’oceano. Comunque Nerone, incantato dal Petronio che conobbe in società, raffinato, colto, seduttore di uomini e di donne, intenditore infallibile del Bello, trovò più facile imitare il cattivo poeta e praticarne gl’insegnamenti letterari. Si prese per compagni gli eroi del Satyricon e con essi si diede all’orgia nei quartieri più malfamati di Roma.
Il casto Seneca, sul momento, non trovò nulla da obbiettare, anzi, è probabile che abbia spinto su questa via il suo allievo per distrarlo sempre più dai problemi di governo, che preferiva risolvere da solo o con Burro. In tal modo, per alcuni anni, sotto un imperatore che sempre più si degradava, l’Impero seguitò a prosperare. Traiano, più tardi, definì il primo lustro di Nerone «il miglior periodo di Roma». Ma a un certo punto il giovane sovrano incappò in Poppea, un’Agrippina nel pieno rigoglio della sua bellezza, che voleva far l’imperatrice, e per riuscirci spinse Nerone a far l’imperatore. Quando la conobbe, Nerone aveva ventun anni, una moglie perbene, Ottavia, che portava con molta dignità le sue disgrazie coniugali, e un’amante, Acte, perbene anch’essa, e innamorata di lui. Ma a Nerone le donne oneste non piacevano, e le tradì ambedue per la scostumata, sensuale e calcolatrice Poppea. È a questo punto che incominciano la sua storia e le tribolazioni di Roma.
NERONE
Agrippina era stata certamente una donna nefasta. Ma gli ultimi episodi della sua vita sono da vera matrona dell’antica Roma. Essa non esitò a mettersi risolutamente contro suo figlio, quando costui venne a chiederle il consenso al divorzio da Ottavia. Tacito dice ch’essa giunse perfino ad offrirglisi.
Nerone, sebbene l’avesse confinata in una villa, aveva ancora paura di lei. Ma altrettanta paura aveva di Poppea, che gli si rifiutava schernendolo per questo suo timor filiale. Alla fine essa riuscì a fargli credere che Agrippina congiurava contro di lui, che, non osando ucciderla, tentò di farla morire, una volta avvelenandola, e un’altra facendola cadere nel fiume. Agrippina se l’aspettava. Forse da qualche suo servitore di fiducia lasciato a palazzo era informata di ciò che le preparavano, e cercò di salvarsi la prima volta con una medicina che risolse l’avvelenamento in una colica, la seconda nuotando. Le guardie di Nerone dovettero fare altrettanto per inseguirla sull’altra sponda. E ci domandiamo quali dovettero essere i sentimenti e i pensieri di questa donna nel vedersi incalzata dai sicari di un figlio, cui aveva sacrificato tutta la sua vita. Ma non li mostrò, quando fu da essi raggiunta. Disse semplicemente: «Colpite qui», e indicò il grembo da cui Nerone era nato. Costui, quando gli portarono il corpo nudo di sua madre morta, osservò soltanto: «Toh, non mi ero mai accorto di aver avuto una mamma così bella». E forse l’unica cosa che rimpianse fu di non essersela presa quando lei gli si era offerta.
Come già per Caligola, non abbiamo altra ipotesi che la follia per spiegare simili reazioni. Forse nel sangue dei Claudi c’era un male ereditario, che dava al cervello.
La storia assicura che Seneca in questo orrendo delitto non ebbe parte. Ma essa ci obbliga a costatare anche ch’egli lo accettò, rimanendo al fianco dell’imperatore. Sperava forse di trattenerlo sulla china della perdizione? Quella speranza, se la covò, fu presto delusa. Nerone respinse i suoi consigli quando egli cercò di fargli capire che a un imperatore non si addiceva giostrare nel Circo come auriga ed esibirsi in teatro come tenore. Anzi, per mostrare quanto poco ormai teneva in considerazione il suo maestro, ordinò ai senatori di misurarsi con lui in quelle prove ginnastiche e musicali, dicendo che questa era la tradizione greca e che la tradizione greca era migliore di quella romana.
I senatori, nel loro insieme, forse non meritavano miglior trattamento; ma in qualcuno di essi brillava ancora un barlume di dignità. Trasea Péto e Elvidio Prisco parlarono apertamente contro l’imperatore, le cui spie li accusarono di complotto. Nerone, che dopo il matricidio aveva mostrato una certa clemenza, si abbandonò a un’orgia di sangue e siccome il Tesoro, che Claudio aveva lasciato florido, sotto le sue sregolatezze si era esaurito, impose ai condannati di lasciargli le loro sostanze. Seneca criticò queste misure. Ma la vera ragione per cui perse il posto fu che criticò anche le poesie del suo padrone. Forse con un respiro di sollievo si ritirò nella sua villa in Campania, e qui si diede alacremente a cercare, come scrittore, una rivincita al suo fallimento di precettore. Burro era morto pochi mesi prima, e lo aveva rimpiazzato lo scellerato Tigellino.
Senza più freni, Nerone precipitava. Il ritratto fisico che ci hanno lasciato di lui ce lo mostra, a venticinque anni, coi capelli gialli annodati in treccine, l’occhio smorto e una pancia adiposa su due gambette rachitiche. Poppea, ormai sua moglie, ne faceva quel che voleva. Non contenta di avergli imposto il divorzio da Ottavia, lo spinse a mandarla al confino. E siccome i romani disapprovarono e coprirono di fiori le sue statue, lo persuase a farla assassinare. Ottavia morì male, impaurita e chiedendo pietà: aveva vent’anni appena ed era nata per fare la buona moglie di un buon marito, non l’eroina di una tragedia.
Neanche stavolta Nerone ebbe rimorsi perché nel frattempo si era fatto consacrare dio, e gli dèi non sono obbligati a esami di coscienza. Ora voleva soltanto costruire per sé un nuovo palazzo d’oro, che diventasse il proprio tempio e, siccome lo progettava di dimensioni gigantesche, non trovava, nell’affollato centro di Roma, un’area fabbricabile. Da qualche tempo andava brontolando che la città era costruita male, e che si sarebbe dovuto rifarla tutta secondo un più razionale piano urbanistico, quando, nel luglio del 64, vi scoppiò il famoso incendio.
Era stato veramente lui a farlo appiccare? Forse no. Egli si trovava ad Anzio in quel momento, accorse subito, e spiegò un’energia che nessuno gli sospettava nell’opera di soccorso. Ma il fatto che subito la voce del popolo lo accusò dimostra che, anche se non lo aveva fatto, la gente lo considerava capace di farlo. Stranamente assai, egli non reagì stavolta alle accuse, non perseguitò nemmeno gli autori dei volantini e dei libelli che lo additavano alla furia popolare. Ma, da vero capo di un regime totalitario, pensò che, dato il disastro, prima ancora che a ripararlo, bisognava pensare a trovar qualcuno cui addebitarlo. E fu così, dice Tacito, ch’egli ricorse a una setta religiosa formatasi in quei tempi a Roma e che aveva derivato il suo nome da quello di un certo Cristo, un ebreo condannato a morte da Ponzio Pilato in Palestina al tempo di Tiberio.
Nerone non sapeva altro di loro, quando ne fece arrestare tutti quelli che gli capitarono a tiro e condannare, dopo un processo sommario, alla tortura. Alcuni furon dati alle belve, altri crocifissi, altri spalmati di resina e adibiti a torce. Roma non si era molto accorta di loro. Ma dopo questo martirio in massa cominciò a guardarli con una certa curiosità. Ora l’imperatore poteva finalmente costruire una capitale come piaceva a lui. E in questa bisogna, che lo assorbì completamente, mostrò una certa competenza. Ma mentre la nuova Roma cresceva più bella di quella distrutta, Poppea morì di un aborto. Le male lingue dissero subito ch’era stato il marito a darle un calcio nella pancia durante un litigio. Può darsi. Comunque il colpo fu terribile per lui, che vi perse insieme una moglie amata e l’erede che aspettava. Errando nel dolore per le strade, vi trovò un giovanotto, un certo Sporo, il cui volto stranamente somigliava a quello della defunta. Lo portò a palazzo, lo fece castrare e lo sposò. I romani commentarono: «Ah, se suo padre avesse fatto altrettanto!…».
Soprintendeva ai lavori per l’erezione del suo grande palazzo, quando le sue spie scoprirono un complotto per installare sul trono Calpurnio Pisone. Ci furono i soliti arresti, le solite torture, le solite confessioni. In una di queste furon fatti i nomi di vari intellettuali, fra cui Seneca e Lucano.
Lucano era un altro spagnolo di Cordova, lontano cugino di Seneca, che, venuto a Roma per studiarvi legge, aveva commesso l’imperdonabile errore di vincere un premio di poesia a un concorso cui si era presentato anche Nerone, che perse. L’imperatore gli vietò di continuare a scrivere. Lucano disobbedì componendo un carme sulla battaglia di Farsalo, retorico e mediocre, ma d’intonazione chiaramente repubblicana. Non potè pubblicarlo, ma lo lesse nei salotti aristocratici dove ebbe naturalmente grande successo, fra quei signori che non avevano più la forza di opporsi alla tirannia, ma rimpiangevano la libertà. Partecipò egli veramente al complotto, o vi fu iscritto d’ufficio dagli sbirri che conoscevano l’antipatia di Nerone per quel suo rivale? Negl’interrogatori, egli ammise la propria colpa e denunziò gli altri complici, fra cui, pare, anche sua madre e il cugino Seneca. Condannato, invitò gli amici a una gran festa, mangiò e trincò con loro, si aprì le vene, e morì recitando alcuni suoi versi contro il dispotismo. Aveva ventisei anni.
Seneca apprese forse di aver partecipato alla congiura di Pisone dai messi dell’imperatore che vennero in Campania a partecipargli la condanna. Stava scrivendo una lettera al suo amico Lucilio che terminava così: «Per quel che mi riguarda, ho vissuto abbastanza a lungo e mi par d’avere avuto tutto quel che mi spettava. Ora attendo la morte». Ma quando la morte si presentò nei panni di quell’ambasciatore, obbiettò che non c’era ragione d’infliggergliela, visto che da tempo non faceva più politica e badava a curarsi soltanto la salute, di cui lasciò prevedere imminente il collasso. Era la scusa che aveva invocato anche con Caligola e che gli aveva permesso di campare fin quasi a settantanni. L’ambasciatore tornò a Roma, ma Nerone fu irremovibile. Allora Seneca con molta calma abbracciò la moglie Paolina, dettò una lettera di addio ai romani, bevve la cicuta, si aprì le vene, e morì secondo i precetti dello stoicismo meglio di quanto non avesse saputo vivere. Paolina tentò di imitarlo, ma l’imperatore le fece suturare le vene. I secoli hanno cancellato le contraddizioni dell’uomo Seneca e hanno conservato solo le opere dello scrittore, che una sua grandezza la raggiunse. Egli insegnò come si compone un «saggio», e come si concilia la predica della rinuncia con la pratica dei propri comodi. A un simile maestro, gli allievi non potevano mancare.
Fatto il vuoto intorno a sé, Nerone partì per una tournée in Grecia, dove la gente, disse, s’intendeva d’arte più che a Roma. Partecipò come fantino alle corse di Olimpia, cascò, arrivò ultimo, ma i greci lo proclamarono ugualmente vincitore, e Nerone li compensò esentandoli dal tributo a Roma. I greci capirono l’antifona, gli fecero vincere tutti gli altri tornei, organizzarono una clamorosa claque nei teatri in cui l’imperatore cantava (era fatto assoluto divieto di uscire durante lo spettacolo, e ci furono delle donne che vi partorirono), ed ebbero in cambio la piena cittadinanza.
Tornato a Roma, Nerone decretò a se stesso un trionfo in cui non potendo esibire le spoglie di nessun nemico, esibì le coppe che aveva guadagnato come tenore e come auriga. Era in buona fede, nel pretendere l’ammirazione dei suoi concittadini. Credeva che ne nutrissero davvero per lui, e quindi fu più stupito che preoccupato quando seppe che Giulio Vindice chiamava la Gallia alle armi contro di lui. La sua prima cura, nell’organizzare l’esercito da guidare contro il ribelle, fu di ordinare un gran numero di carri espressamente costruiti per il trasporto delle scene con cui montare un teatro. Perché, fra una battaglia e l’altra, intendeva continuare a recitare, a suonare e a cantare per farsi applaudire dai soldati. Ma durante questi preparativi, giunse la notizia che Galba, governatore della Spagna, si era unito a Vindice e che con lui marciava su Roma.
Il Senato, che da tempo spiava l’occasione, dopo essersi assicurata la benevola neutralità dei pretoriani, proclamò imperatore il ribelle proconsole, e Nerone si accorse improvvisamente d’essere solo. Un ufficiale della Guardia, cui chiese di accompagnarlo nella fuga, gli rispose con un verso di Virgilio: «È dunque così difficile morire?».
Sì, era molto difficile, per lui. Si procurò un po’ di veleno, ma non ebbe il coraggio d’ingerirlo. Pensò di buttarsi nel Tevere, ma non ne trovò la forza. Si nascose nella villa di un amico sulla via Salaria, a dieci chilometri dalla città. Lì seppe che lo avevano condannato a morte «alla vecchia maniera» cioè per fustigazione. Atterrito, afferrò un pugnale per immergerselo nel petto, ma prima ne provò la punta e trovò che «faceva male». Si decise a tagliarsi la gola, quando udì uno zoccolìo di cavalli fuor della porta. Ma la mano gli tremò, e fu il suo segretario Epafrodito a guidargliela sulla carotide. «Ah, che artista muore con me!» sussurrò in un rantolo. Le guardie di Galba rispettarono il cadavere che fu piamente sepolto dalla vecchia nutrice e dalla prima amante, Acte. Stranamente assai, la sua tomba rimase per molto tempo coperta di fiori sempre freschi, e molti a Roma continuarono a credere ch’egli non fosse morto e stesse per tornare. In genere, sono idee che germogliano solo nei terricci fecondati dai rimpianti e dalla speranza.
Che Nerone fosse, tutto sommato, migliore di come la storia lo ha descritto?
Indro Montanelli, Storia di Roma, Capitoli 32-33, [ed. illustrata], Rizzoli 2018