Le foibe e l’esodo istriano, per decenni rimossi dalla memoria collettiva, riemergono nel dibattito pubblico solo negli anni ’90, quando il clima politico consente di affrontare il tema senza pregiudizi ideologici. La repressione jugoslava del 1945, che colpì migliaia di italiani nel confine nordorientale, e l’esodo di oltre 300.000 istriani e dalmati furono a lungo ignorati per ragioni politiche e diplomatiche: il nuovo assetto geopolitico e l’interesse dell’Occidente a mantenere buoni rapporti con Tito contribuirono al silenzio. La rielaborazione della memoria nazionale, incentrata sulla Resistenza e sulla costruzione di una nuova identità post-fascista, non lasciava spazio a eventi che testimoniavano la sconfitta dell’Italia e le sue conseguenze. Solo con il riconoscimento istituzionale della Giornata del Ricordo, nel 2004, questa pagina di storia è entrata nel discorso ufficiale, rompendo il lungo oblio.
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Nel 1992, quando Carlo Sgorlon pubblica La foiba grande, le vicende del confine nordorientale sono ancora una storia negata: di foibe e di esodo si parla a Trieste e nelle comunità di profughi istriani e dalmati sparsi in Italia, ma non nei manuali di scuola, non nei corsi universitari, non nel dibattito pubblico. Chi azzarda qualche riferimento è immediatamente sospettato di nostalgie fasciste. L’atteggiamento cambia nel corso degli anni successivi: nel 1996 Gianfranco Fini (presidente di Alleanza nazionale, proveniente dal Movimento sociale) e Luciano Violante (presidente della Camera, proveniente dal Partito comunista) “sdoganano” le foibe in un pubblico dibattito all’università di Trieste, gravido di polemiche ma anche di aperture: da lì si sviluppa un confronto che porta il Parlamento, nel 2004, a votare a larghissima maggioranza la legge per l’istituzione della “Giornata del Ricordo” delle vittime delle foibe e dell’esodo, fissata al 10 febbraio (giorno in cui, nel 1947, è stato firmato il trattato di pace che ha assegnato l’Istria alla Jugoslavia). Difficile stabilire quanto Sgorlon abbia contribuito alla maturazione di una coscienza collettiva: certo è che il suo romanzo, in cui si mescolano invenzione e storia, è uno dei tasselli che hanno permesso di ridefinire la nostra memoria nazionale e sottrarre al silenzio la tragedia che alla fine della Seconda guerra mondiale si abbatte sugli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia.
Per comprendere il romanzo e le vicende che lo ispirano bisogna partire dal vocabolo: “foibe” è un termine del linguaggio geologico e si riferisce ad un aspetto tipico del paesaggio carsico. Esso indica le fenditure (profonde anche decine di metri) che si aprono nel fondo di una dolina o di una depressione del terreno e che l’erosione millenaria dell’acqua ha scavato nella spugna della roccia in forme gigantesche e tortuose. In queste buche, da sempre, la gente giuliana getta le cose che non servono più, carcasse di animali morti, suppellettili usate, mobili rotti: immediatamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tra aprile e giugno 1945, vi sono stati gettati i cadaveri di migliaia di cittadini italiani eliminati per motivi etnico-politici dall’esercito di liberazione jugoslavo del maresciallo Tito. Il numero esatto delle vittime non è accertato perché nei momenti epocali della storia nessuno tiene la contabilità dei morti: c’è chi tende a sovradimensionarli parlando di diverse decine di migliaia di cittadini inermi, e chi all’opposto li riduce a qualche centinaia di ex criminali di guerra. Dal confronto tra i tanti dati contrastanti a disposizione e dall’utilizzo dei pochi elenchi disponibili, si può ipotizzare la cifra di otto-diecimila persone eliminate nelle foibe o nei campi di concentramento jugoslavi, una cifra di riferimento che va presa con precauzione ma che vale ad inquadrare il fenomeno entro le reali dimensioni di eccidio che esso ha assunto.
Il confine nordorientale dalla Repubblica di Venezia al Regno d’Italia
Il punto di partenza della ricostruzione storica è il carattere multietnico del confine nordorientale della penisola italiana. Da secoli in quelle terre vivono italiani e slavi (sloveni o croati): stessa religione (il cattolicesimo), ma diversi i riferimenti, le lingue, le tradizioni. Queste comunità hanno convissuto senza tensioni le une accanto alle altre durante il lungo periodo in cui hanno fatto parte della Repubblica di Venezia e nei centoventi anni in cui (dopo il trattato di Campoformio del 1797) sono diventati Impero austro-ungarico: gli italiani hanno abitato prevalentemente le cittadine della costa, dediti ad attività commerciali e artigianali, e gli slavi quelle dell’interno, impegnati nei lavori agricoli, ma tra i due gruppi ci sono stati scambi, matrimoni misti, coabitazioni, condivisione del lavoro. I problemi sono sorti dopo il 1918, quando tutta la regione è diventata Regno d’Italia: in quegli stessi anni, infatti, nasce e si afferma il movimento dei Fasci di Mussolini, fortemente ispirato a principi nazionalistici, aggressivo nel predicare il carattere superiore dell’italianità. In territori dove la comunità appartiene ad una sola etnia, la penetrazione del nazionalismo ha conseguenze ideologiche; là dove ci sono comunità diverse, trova invece un terreno più fertile, segna contrapposizioni, alimenta diffidenze, apre la strada alle derive. A Trieste e nell’Istria la battaglia contro il bolscevismo (priorità del movimento fascista) si salda a quella contro lo slavismo, la propaganda si vena di valenze razziste, il livello dello scontro si alza: non a caso sin dal 1919 il Fascio triestino sceglie la definizione “fascismo di confine” per sottolineare la propria specifica identità politica e territoriale. «Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava» tuona Mussolini percorrendo la Venezia Giulia nel 1920 «non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone.» Il 13 luglio 1920 si scatena a Trieste una giornata di violenze alimentate da nazionalisti e fascisti che culminano nell’assalto all’Hotel Balkan da parte di una squadra di camicie nere comandate da Francesco Giunta: sede centrale delle organizzazioni culturali ed economiche degli sloveni, il Narodni Dom (“Casa del Popolo”, più nota appunto come Hotel Balkan) viene circondato e dato alle fiamme, tre persone muoiono nell’incendio. L’intolleranza nazionalista si esprime il giorno successivo nei commenti della stampa di estrema destra («le fiamme del Balkan purificano finalmente Trieste») e nelle parole di Mussolini che esalta «il capolavoro del fascismo triestino».
Conquistato il potere nel 1922 e presto diventato “regime”, il fascismo trasforma la questione del confine nordorientale da strumento di propaganda ad indirizzo programmatico, sviluppando una politica di snazionalizzazione che nel corso del Ventennio combina provvedimenti legislativi e azioni intimidatorie. L’uso di lingue diverse dall’italiano viene vietato dapprima nelle sedi giudiziarie, poi negli uffici della pubblica amministrazione, nei negozi, nelle insegne, nella cartellonistica; le organizzazioni culturali, ricreative ed economiche slovene e croate (circa quattrocento nella Venezia Giulia) vengono soppresse da provvedimenti prefettizi e i loro beni confiscati; le scuole slave sono chiuse, i maestri e i professori non italiani allontanati dalle loro cattedre, lo sloveno e il croato banditi dall’insegnamento; nel 1927 viene imposta l’italianizzazione di tutti i cognomi; la repressione poliziesca colpisce i focolai di opposizione e le espressioni di disobbedienza; lo squadrismo fa il resto, tra minacce e punizioni esemplari.
Lo sforzo del fascismo di italianizzare la regione giuliana non ottiene tuttavia i risultati voluti dal regime: la strategia nazionalista ha effetti sugli strati superiori della comunità slovena e croata e in particolare sulla borghesia urbana, perché ne disperde la classe dirigente e le élite intellettuali, ma non incide sulla massa degli “allogeni” (come vengono chiamati con un termine carico di sottintesi emarginatori), tanto che alla fine degli anni Trenta la percentuale di slavi tra la popolazione risulta stabile rispetto ai livelli di vent’anni prima. Radicale nei propositi e virulento nei provvedimenti repressivi, il fascismo scava solchi di diffidenza tra le due comunità ma non muta la composizione etnica del territorio.
Il livello di tensione sul confine nordorientale subisce una brusca accelerazione nella primavera 1941, con l’invasione e lo smembramento del regno di Jugoslavia da parte delle truppe dell’Asse. Iniziata il 7 aprile, la campagna italo-tedesca nei Balcani (denominata “Operazione Castigo”) porta alla conquista di Belgrado il 12, alla resa dell’alto comando jugoslavo il 17, alla successiva occupazione della Grecia sino ad Atene il 28: in tre settimane l’obiettivo è raggiunto. La Jugoslavia viene cancellata come realtà statale e spartita tra i vincitori. L’Italia ottiene la Slovenia meridionale con Lubiana, tutto il litorale dalmata sino a Cattaro, il controllo militare del Montenegro e di parte della Bosnia.
Nei territori occupati si sviluppa presto una resistenza guerrigliera antitedesca e antiitaliana e lo scontro si esaspera. Da un lato attentati, agguati a singoli soldati, attacchi a presidi e convogli, spesso eccessi di violenza con mutilazione di cadaveri; dall’altro rappresaglie, esecuzioni sommarie, villaggi incendiati, rastrellamenti, deportazione di migliaia di civili, campi di concentramento. È la guerra fascista 1940-43, dove il Regio esercito combatte accanto alla Wehrmacht tedesca e la repressione assume gli stessi tratti feroci che l’Italia conoscerà dopo l’armistizio dell’8 settembre.
Il movimento partigiano del maresciallo Tito e le foibe istriane dell’autunno 1943
A differenza di quanto accade in altre realtà europee, dove la resistenza è animata da piccoli gruppi che agiscono autonomamente l’uno dall’altro, in Jugoslavia il movimento partigiano viene presto egemonizzato dal partito comunista e dal suo leader, il maresciallo Josip Broz detto “Tito”. Politico lucido e uomo d’azione, Tito conosce bene il carattere multietnico della Jugoslavia, “inventata” alla fine della Prima guerra mondiale mettendo insieme sloveni, croati, serbi, bosniaci, macedoni, dalmati, kosovari, raccolti sotto l’etichetta di “slavi del Sud” (jug). Per tenere insieme etnie storicamente divise, il maresciallo punta su due leve: da un lato il comunismo, cioè la prospettiva di costruire una società senza classi, abolire la proprietà privata e le ricchezze individuali, fondare un mondo di uguali; dall’altro il nazionalismo slavo, il riscatto dopo vent’anni di umiliazioni vere o presunte, la rivincita contro il dominio dell’Italia fascista. A questo nazionalismo slavo, sapientemente alimentato dalla propaganda di guerra, Tito offre un obiettivo concreto: annettere alla nuova Jugoslavia comunista tutte le regioni mistilingue, raggiungere una linea di confine con l’Italia che corra sull’Isonzo, inglobare non solo l’Istria e la Dalmazia ma anche Trieste, Gorizia, Monfalcone. In questo modo gli slavi potranno raddrizzare i torti subiti e liberare le minoranze sloveno-croate oppresse. Le ragioni della politica internazionale consolidano questa prospettiva: come teorizza Edvard Kardelj, uno dei maggiori collaboratori di Tito, dopo la sconfitta del nazismo l’Europa si dividerà tra i due blocchi, con le potenze imperialiste ad ovest e quelle comuniste ad est, e la Jugoslavia sarà baluardo contro l’espansionismo americano. Nella logica di questa impostazione, la Venezia Giulia non è soltanto un obiettivo nazionalistico, ma la “chiave” dei futuri equilibri politici europei, la barriera tra blocchi contrapposti. «Diventerà nostro tutto ciò che si troverà nelle mani del nostro esercito e dovremo perciò occupare la maggior porzione possibile di territorio» dirà Kardelj nel 1943, saldando rivoluzione proletaria e interesse nazionale slavo e legittimando la futura occupazione dei partigiani di Tito sul confine nordorientale. La categoria “nemici del popolo”, contro cui si indirizzano ora le azioni partigiane e in futuro quelle delle autorità popolari rivoluzionarie, ha volutamente contorni generici ed è estendibile discrezionalmente a tutti quanti non collaborano con il movimento di liberazione, il che spiana strutturalmente la strada ad abusi e deviazioni.
La prima drammatica esplosione di violenza avviene all’indomani dell’8 settembre 1943, quando l’annuncio dell’armistizio porta alla rapida dissoluzione del Regio esercito. Di fronte allo sgretolarsi della presenza militare italiana, la Wehrmacht occupa i centri nevralgici della Venezia Giulia (Trieste, Gorizia, Fiume, Pola), ma per carenza di forze lascia momentaneamente libero il resto del territorio. Nell’Istria interna si forma così un improvviso vuoto di potere, dominato dalla confusione e dall’incertezza, in cui si inseriscono due diverse dinamiche: da un lato, l’intervento organizzato delle formazioni partigiane titine, che assumono il potere “in nome del popolo” senza trovare contrasto; dall’altra, l’insurrezione spontanea dei contadini croati, che danno vita ad una vera e propria jacquerie, con incendio di catasti e di archivi comunali. Il fenomeno “foibe” dell’autunno 1943 si inserisce in questo contesto storicamente definito: un trapasso cruento di poteri in cui la violenza sfugge al controllo di chi è deputato a guidarne l’uso istituzionalizzato, si frammenta negli abusi personali, si alimenta di brutali semplificazioni (come l’equivalenza “italiano = fascista”) e spesso colpisce con tragica casualità.
Ciò che accade è una caccia indiscriminata contro chiunque sia ricollegabile all’amministrazione italiana, un clima torbido nel quale si mescolano il giustizialismo politico del movimento partigiano, la violenza selvaggia della rivolta contadina, la rabbia del nazionalismo slavo. I primi ad essere colpiti sono possidenti italiani e i loro familiari, ma accanto a loro anche i quadri del Partito fascista e i rappresentanti della passata amministrazione: vengono arrestati podestà, gerarchi, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, ufficiali postali, esattori delle tasse, vale a dire figure che in qualche modo simboleggiano, al di là di specifiche responsabilità personali, l’oppressione di uno Stato che è diventato indistinguibile dal regime fascista. La rivolta ha caratteri al tempo stesso nazionali e sociali: si colpisce chi viene percepito come italiano, come fascista o come possidente, in una confusione di ruoli che nell’immaginario collettivo della rivolta si sovrappongono l’uno all’altro.
Gli arrestati vengono concentrati a Pisino, nel centro dell’Istria, e a Pinguente, nel Nord, sottoposti a processi sommari e quasi sempre condannati a morte. Il successivo occultamento dei cadaveri nelle foibe risolve in modo rapido il problema della sepoltura, ma corrisponde anche ad un bisogno simbolico, perché gettare un uomo nella foiba significa trattarlo alla stregua di un rifiuto, con il conseguente totale ribaltamento dei valori. Il ritmo delle esecuzioni aumenta bruscamente all’inizio di ottobre, quando l’offensiva scatenata dai reparti della Wehrmacht per occupare la penisola istriana costringe i partigiani slavi ad una ritirata disordinata, durante la quale i prigionieri, che possono diventare testimoni scomodi, vengono eliminati senza neanche il simulacro del processo. La tragedia delle foibe istriane (che secondo i calcoli più attendibili comporta un numero di vittime vicine al migliaio) è traumatica e il suo impatto sulla popolazione italiana risulta molto profondo: al di là dei drammi individuali di chi è stato colpito direttamente dall’ondata di violenza, è l’esistenza di un progetto egemonico slavo a penetrare nella coscienza dei contemporanei e a diffondere un clima di inquietudine in tutta la regione, con l’aspettativa di una nuova e forse definitiva ondata che travolgerà gli italiani se la Venezia Giulia cadrà di nuovo sotto il controllo jugoslavo. La propaganda della Repubblica sociale, che dà ampia informazione su quanto accaduto e documenta sui giornali la riesumazione di salme dalle foibe, contribuisce a dilatare i contorni dell’emergenza.
L’occupazione jugoslava nella primavera 1945
Nel corso degli ultimi venti mesi di conflitto, la strategia jugoslava si precisa in tre punti: innanzitutto, giungere per primi in Istria e a Trieste, battendo sul tempo le truppe angloamericane che combattono sulla Linea Gotica; in secondo luogo, insediare i comitati popolari di liberazione come organi amministrativi, affidandoli a elementi di etnia slovena o croata e di sicura fede comunista; in terzo luogo, un’opera radicale di epurazione, capace di eliminare in tempi rapidissimi tutti coloro che sono contrari al nuovo potere jugoslavo e potrebbero organizzare un’opposizione interna. Per vedere riconosciute alla conferenza di pace le proprie aspirazioni territoriali, Tito ha infatti bisogno di uno stato di fatto militare e politico, di una Venezia Giulia pacificata nel segno della rivoluzione sociale e sotto la bandiera nazionale della Jugoslavia. In altre parole, l’epurazione deve eliminare qualsiasi voce di dissenso e va diretta non contro i fascisti in quanto tali, ma contro tutti coloro che si oppongono alla jugoslavizzazione, siano essi criminali di guerra, collaboratori del nazismo, oppure sinceri antifascisti, oppure ancora comunisti italiani sensibili alla questione nazionale e contrari all’annessione.
Lo sviluppo degli avvenimenti conferma la strategia di Tito. Mentre il movimento antifascista italiano si divide tra i moderati, convinti di dover combattere prima contro i tedeschi e subito dopo contro gli jugoslavi, e i comunisti, che su indicazione di Palmiro Togliatti operano invece in stretta collaborazione con il movimento titino, gli angloamericani non affrettano l’avanzata verso nord-est, nel timore di trovarsi in presenza di una guerra civile come già era accaduto nel 1944 in Grecia. Questo permette a Tito di vincere la “corsa per Trieste”: il 30 aprile i primi reparti jugoslavi entrano in città ribattezzandola “Trst”, insediano le proprie autorità amministrative e iniziano il previsto programma di epurazione etnico-politica. Ad eseguire i mandati di cattura sono in primo luogo i reparti regolari dell’esercito di liberazione, uomini che giungono nella Venezia Giulia dalle regioni dell’interno, con l’esasperazione di una guerra interminabile e l’orgoglio di aver vinto un nemico che era apparso invincibile. A comandarli, spesso, ci sono i figli di quella borghesia “allogena” contro la quale è stata più radicale la politica repressiva del fascismo. Sono loro ad eseguire il disarmo e l’arresto di tutti i militari che indossano una divisa riconducibile alla Repubblica sociale, militi fascisti, carabinieri, guardie di finanza, poliziotti. I concetti di responsabilità individuale e di partecipazione diretta ad atti criminosi sfumano di fronte ai margini di discrezionalità lasciati alle autorità militari e all’indeterminatezza delle definizioni.
L’epurazione dei civili è invece affidata all’Ozna, la polizia politica dell’esercito jugoslavo. Ufficialmente la repressione colpisce elementi compromessi con la passata amministrazione, ma la sua direttrice di fondo è un’altra: il fascista, in quanto tale, è l’antagonista di ieri, ormai sconfitto e fuori gioco; oggi vanno invece combattuti i “nemici del popolo” che si oppongono all’instaurazione della società socialista e all’annessione, in primo luogo gli antifascisti moderati, che rappresentano la “nuova” Italia, difendono l’italianità del territorio e sono il vero ostacolo alle mire espansioniste di Tito. Per questo la persecuzione colpisce il Cln giuliano (prima oggetto di una campagna di stampa denigratoria, poi arrestato ed eliminato), il Cln di Gorizia, gli autonomisti di Fiume. Dopo di loro è la volta di comunisti italiani dissidenti, di esponenti della classe dirigente (professori universitari, responsabili delle capitanerie di porto, direttori di banca, liberi professionisti), di funzionari statali, di maestri elementari, di parroci: in una parola, di tutti coloro che possono rappresentare la comunità italiana e difenderne i diritti. Insieme a loro vengono colpiti altri ancora che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma che sono travolti per un regolamento di conti privato, per una gelosia, per una vendetta. I procedimenti, condotti sulla base di elenchi predisposti da collaborazionisti italiani, sono rapidi: l’irruzione nelle case sulla base di sospetti o di semplici delazioni anonime, l’arresto e la violenza, spesso la confisca di preziosi e denari, talvolta la devastazione dei locali, i maltrattamenti dei parenti, gli stupri. La guerra prosegue nella pace e nel confine nordorientale si respira un clima di angoscia e di dolore, nel quale nessuno riesce a sentirsi sicuro. L’epurazione preventiva oltrepassa gli stessi limiti previsti dalle autorità politiche jugoslave, in un caotico intrecciarsi di iniziative e di poteri incontrollati.
Gli arrestati vengono rinchiusi in prigioni che presto diventano sovraffollate: in alcuni casi si celebrano processi dall’esito già segnato, più spesso si procede solo a brevi interrogatori. Il destino degli italiani fermati è drammatico: molti sono fucilati e gettati nelle foibe, altri annegati nel mare con pietre al collo; alcuni cadaveri vengono sepolti nelle miniere di bauxite di Albona; chi non viene eliminato è avviato ai campi di concentramento nella Jugoslavia interna. Ai parenti delle vittime, che dopo l’arresto si affollano presso le nuove autorità per avere notizie dei congiunti, nessuno dà risposte e un ufficio li rinvia all’altro: gli infoibati, di fatto, sono dei desaparecidos, anche se la voce popolare non tarda a diffondersi e c’è presto la coscienza che nessuno rivedrà gli arrestati. Il numero delle vittime è quello incerto indicato all’inizio, tra le otto e le diecimila persone. Sgorlon descrive magistralmente l’atmosfera della primavera 1945:
Bastava un soffio, un colpo di vento, e addio. Se si alzava la bora, che veniva da Fiume, ormai diventata stabilmente Rijeka, tanti saluti, uno era disfatto, gettato in aria come uno straccio, o una foglia di granturco. Si viveva giorno per giorno. Ogni cosa poteva accadere.
Dalla Linea Morgan all’esodo
La situazione si sblocca dopo quaranta giorni: il 12 giugno americani, inglesi e sovietici trovano l’accordo per fissare la linea di confine tra Italia e Jugoslavia sulla Linea Morgan, dal nome dell’ufficiale britannico che la traccia sulla cartina geografica. Le richieste di Tito sono accolte in buona parte, ma non totalmente: l’Istria, Fiume, la Dalmazia, le isole quarnerine diventano jugoslave; Trieste, Gorizia e Monfalcone restano sotto il controllo militare angloamericano. Si tratta di una soluzione provvisoria, da ridefinire in sede di conferenza di pace, ma di fatto la Linea Morgan, salvo piccole rettifiche, è rimasta sino ad oggi il confine tra Italia e Jugoslavia prima, tra Italia e Slovenia poi. Stabilita la linea di ripartizione, le epurazioni massicce non hanno più ragion d’essere: Tito sa che, di fronte all’accordo tra i tre Grandi, ulteriori acquisizioni territoriali non sono possibili ed è quindi inutile l’eliminazione dell’italianità. Le unità partigiane jugoslave lasciano Trieste e l’eccidio etnico-politico ha termine.
I confini stabiliti con la Linea Morgan portano centinaia di migliaia di cittadini italiani a ritrovarsi sotto amministrazione jugoslava. La questione dei rapporti tra questa comunità (in molti luoghi maggioritaria) e quella slava viene affrontata dal governo di Belgrado con ambiguità. Tito e i suoi collaboratori ritengono infatti che le professionalità italiane possano essere utili alla costruzione del socialismo e che un’aliquota di italiani debba essere integrata nella Jugoslavia comunista. Al tempo stesso, però, essi stabiliscono le condizioni alle quali l’integrazione è possibile, il che porta a dividere la popolazione italiana in due grandi categorie: da un lato i sinceri antifascisti, amici dell’Unione sovietica e del suo sistema sociale, avversari dell’imperialismo americano e dell’Italia reazionaria; dall’altro i “nemici del popolo”, bersaglio d’elezione per ondate repressive dipendenti dalle contingenze più diverse. Entro questo quadro, la politica jugoslava procede contraddittoria e destabilizzante: apertura nei confronti degli italiani “buoni e onesti” e repressione etnica, integrazione degli elementi affidabili e marginalizzazione generalizzata, dichiarazioni di fratellanza ed esclusione preconcetta si alternano tra loro nel disegnare un’atmosfera tesa, che genera nella comunità italiana un senso diffuso di precarietà e di diffidenza e che finisce con il precludere una prospettiva per il futuro. Anche se non si può parlare dell’esistenza di un generale progetto di espulsione, la conseguenza di queste spinte contrastanti da parte dei nuovi poteri, unite alla memoria delle settimane di terrore per gli infoibamenti, provoca il disfacimento della comunità italiana e l’allontanamento dalla Venezia Giulia della maggioranza dei suoi membri. Le tappe e le modalità si differenziano da zona a zona, tra accelerazioni improvvise, periodi di tensione sotterranea e momenti brevi di relativa stasi. Si tratta quasi sempre di partenze individuali, famiglie che chiudono le proprie case e raggiungono il confine caricando ciò che possono sui camion o sui carri; c’è chi attraversa il mare in barca; c’è chi si muove a piedi, raccogliendo il proprio mondo in vecchie valigie chiuse con lo spago. A poco a poco i villaggi istriani si spopolano e il territorio cambia la sua composizione sociale, economica, etnica: «ho lasciato la mia terra ma non ho rimpianti» scrive Mario Orlandini, profugo da Orsera. «Non ho rimpianti perché la mia terra non è più la mia terra.»
Senza voler dettagliare in questa sede le varie fasi dell’esodo, iniziato nel 1945 e continuato sino alla fine degli anni Cinquanta, basta ricordare che esso ha riguardato oltre trecentomila persone, la grande maggioranza della comunità italiana dell’Istria. Giunti in Italia (un paese che esce a sua volta prostrato dalla guerra, con le città segnate dal peso dei bombardamenti e l’economia da rifondare), i profughi vengono sparpagliati in centonove campi (caserme dismesse, baraccamenti, ex campi di prigionia, colonie agricole) dove vivono per anni nella precarietà e nell’emergenza, spesso oggetto delle diffidenze che sempre accompagnano i fenomeni migratori: è l’esperienza di chi raggiunge Roma e trova sistemazione nel “Villaggio operaio” utilizzato dalle maestranze che hanno costruito l’Eur, di chi a Fertilia (vicino ad Alghero) inventa una città in riva al mare, di chi si ammucchia a Tortona nella caserma Passalacqua, di chi va a cercare la normalità nelle Casermette di Borgo San Paolo a Torino. Per i profughi di prima generazione, quelli che hanno lasciato l’Istria già adulti, è un’esperienza che segna una frattura nella propria vita. Il profugo non è un migrante, che fugge dalla miseria o dalla guerra ma fa una scommessa sul futuro e sogna di tornare un giorno in patria con il vestito buono e le scarpe lucide per dimostrare che “ce l’ha fatta”; il profugo è un cittadino normale, con una casa, un lavoro, un passato, un sistema di relazioni, che all’improvviso deve abbandonare tutto travolto dalle ragioni della “grande storia”. «Come vorrei essere un albero, che sa dove è nato e dove morirà» canta Sergio Endrigo, ricordando la vicenda della sua famiglia, profuga da Pola nel 1947.
Il silenzio sulle foibe e sull’esodo
Un ragionamento sulla tragedia degli italiani del confine nordorientale non è completo se non affronta il problema della rimozione: a fronte della gravità dei dati numerici (diecimila morti e oltre trecentomila profughi), perché per tanto tempo le vicende del confine nordorientale sono risultate “indicibili”? La risposta rinvia a tre silenzi, diversamente motivati, che hanno concorso alla negazione. Il primo è un silenzio internazionale. Nel 1948, quando Stalin rompe i rapporti con la Jugoslavia e il Cominform condanna la politica del maresciallo Tito con l’accusa di deviazionismo, l’Occidente comincia a guardare al governo di Belgrado come ad un interlocutore prezioso e avvia il processo di attrazione della Jugoslavia nel proprio campo: Tito, che entrerà nell’immaginario collettivo occidentale non più come leader comunista ma come leader dei “Paesi non allineati” (come l’egiziano Nasser e l’indiano Nerhu), sembra un’opportunità preziosa per incrinare il monolite comunista e aprire una breccia nella rigidità del blocco sovietico. La prima regola della diplomazia vuole che un interlocutore non sia messo in difficoltà con domande imbarazzanti: in questa prospettiva, viene meno l’interesse a fare chiarezza sulle migliaia di italiani scomparsi nella primavera del 1945 e sulle ragioni per cui centinaia di migliaia di giuliani abbandonano l’Istria e la Dalmazia. Silenzio internazionale, dunque.
Il secondo è un silenzio di partito. Il Pci di Togliatti non ha alcun interesse a parlare di una vicenda che evidenzia le contraddizioni tra la sua nuova collocazione come partito nazionale, rappresentante di più di un quarto degli elettori, e la sua tradizionale vocazione internazionalista, con una politica estera subordinata alle strategie di Mosca. Affrontare il tema delle foibe significherebbe ricordare le ambiguità rispetto ai progetti annessionisti jugoslavi e la sostanziale subalternità del Pci alle scelte di Belgrado: se a questo si aggiunge il fascino a lungo esercitato sui militanti comunisti italiani dall’esperienza dell’esercito di liberazione di Tito (fascino che sopravvive alla stessa “scomunica” cominformista del 1948), si comprendono facilmente le ragioni del silenzio politico di storici e intellettuali legati al Pci.
Il silenzio più forte è però legato alla ricostruzione della memoria nazionale sviluppata dopo il 1945. L’Italia esce dalla Seconda guerra mondiale come un paese sconfitto, che ha contribuito a scatenare le ostilità accanto alla Germania e al Giappone e che è stata travolta senza appello sul campo di battaglia. È vero che il rovesciamento del regime è stato operato dal re Vittorio Emanuele III e che la Resistenza partigiana, saldandosi all’esperienza dell’antifascismo clandestino del Ventennio, ha contribuito in modo significativo alla riconquista della libertà e della democrazia, ma lo sforzo del settembre 1943-aprile 1945 non è sufficiente a cancellare la realtà della sconfitta e a trasformare l’Italia in un paese vincitore. La conferenza di pace di Parigi, dove il governo italiano è invitato a esporre i propri punti di vista su questioni specifiche ma non a discutere e trattare, ne è la conferma e la mutilazione di territorio sul confine nordorientale è il prezzo pagato alla guerra persa. A fronte di questa realtà, la “nuova” Italia del 1945 si sforza invece di autorappresentarsi come paese vincitore e utilizza l’esperienza della Resistenza partigiana come alibi per assolversi dalle proprie responsabilità e per cancellare in un colpo il periodo 1922-43. L’impostazione è anticipata da Alcide De Gasperi nel suo intervento alla conferenza di pace, dove viene stabilita una distinzione netta di responsabilità tra “fascismo” e “italiani”: nella penisola vi è stato un ventennio di dittatura che ha dominato gli italiani con la forza della coercizione e che ha tenuto il paese legato insieme con il filo di ferro della repressione e della paura, e vi è una nuova Italia, che prima con l’antifascismo clandestino, poi con la cobelligeranza e la Resistenza partigiana, ha concluso la guerra nel fronte dei vincitori, riscattando il proprio passato. Si tratta di una rivisitazione in chiave assolutoria della storia d’Italia che giova alla classe dirigente antifascista, perché attraverso la delegittimazione del fascismo (cui si attribuisce la colpa esclusiva della guerra perduta) essa legittima se stessa come unica rappresentante della nazione; nel contempo, si tratta di una operazione che evita di fare i conti con il passato e di domandarsi chi e quanti sono stati “corresponsabili” delle scelte del regime. De Gasperi e le forze moderate vogliono eludere sia le insidie di un’analisi storica dagli sviluppi politici imprevedibili, sia l’individuazione di responsabilità che possano mettere in discussione gli equilibri del paese e aprire scenari di difficile gestione. La normalizzazione deve essere rapida e non può che passare attraverso la continuità dello Stato, il passaggio dal fascismo al postfascismo di gran parte della classe dirigente (burocratica, militare, intellettuale): perché questo sia possibile bisogna evitare l’accertamento delle colpe pregresse, ed è quindi necessaria una rielaborazione del passato che assicuri il superamento del passato stesso, che permetta all’immaginario collettivo nazionale di autorappresentarsi come “altro” rispetto all’Italia del 1922-43.
In questa prospettiva nascono i silenzi, le negazioni, le pagine indicibili della storia: “indicibili” sono i prigionieri di guerra (ancora oggi non se ne conosce il numero esatto), immagine vivente della sconfitta; “indicibili” sono i presunti criminali di guerra italiani, ufficiali e funzionari accusati di avere commesso crimini contro i civili nei territori occupati e mai processati; “indicibile” è la politica occupazionale del 1940-43, quando il Regio esercito ha combattuto una guerra di conquista accanto al nazismo; “indicibili”, soprattutto, sono le foibe e l’esodo, perché nessun paese vincitore subisce, dopo la fine della guerra, il ridimensionamento del proprio territorio, né la strage di migliaia di cittadini, né la fuga di centinaia di migliaia di altri. La vicenda del confine nordorientale costituisce il terreno di confronto più scomodo e destabilizzante, perché è la dimostrazione evidente che l’Italia è uscita sconfitta dalla guerra. Gli infoibati e i profughi escono così per decenni dalla coscienza collettiva della nazione, per sopravvivere solo in quella regionale della Venezia Giulia o in quella privata delle famiglie dei profughi (sino a quando la letteratura ne riscopre la tragedia, la storiografia se ne occupa senza negazionismi e la politica si fa carico di una rivisitazione).
—Postfazione di Gianni Oliva a Carlo Sgorlon, La foiba grande, Mondadori, 2020