Non solo studiosi, ma anche antiquari e mercanti diedero inizio alle ricerche e alle esplorazioni nelle località un tempo abitate dagli Etruschi. I quali ebbero tra i primi, illustri estimatori, Leonardo da Vinci e Giorgio Vasari
Nell’ambito della storia dell’archeologia la scoperta degli Etruschi è stata una vicenda appassionante che ha visto coinvolti non solo studiosi, ma anche antiquari e mercanti d’arte. Tutto ha inizio con un personaggio singolare, il frate domenicano Annio da Viterbo, capace di redigere le fonti alle quali dice di rifarsi e di inventare opere di autori di fantasia. Nel ripercorrere le diverse tappe di questa vicenda s’incontrano altre figure singolari (Annio non fu il solo); si può constatare come si siano affinate le tecniche di ricerca; soprattutto si può osservare come ci si sia appropriati progressivamente di un metodo d’indagine storico. Dai ritrovamenti casuali si passò a scavi finalizzati alla scoperta di singole antichità, quindi a vere indagini scientifiche intese a rinvenire i reperti, ma con essi anche tutte le informazioni che potessero servire al loro migliore inquadramento.
Dopo l’epoca degli encomiabili sforzi di singoli eruditi, per esempio Anton Francesco Gori, ha avuto inizio la stagione che ha visto la nascita di istituzioni preposte ad aiutare e a coordinare la ricerca, quali l’Instituto di Corrispondenza Archeologica nell’Ottocento e, in epoca più recente, l’Istituto di Studi Etruschi e Italici. È inoltre importante sottolineare come una ricerca «neutra», quale può sembrare quella sugli Etruschi, si sia caricata spesso di valori ideologici: nel Cinquecento, in Toscana, gli Etruschi vennero visti come il «precedente» e la giustificazione per la politica di Cosimo I de’ Medici; in altri momenti e in altri ambienti è stata posta in evidenza la struttura federale del loro Stato, o si è letto un significato antimperialista nell’opposizione degli Etruschi a Roma. Inoltre le avanguardie artistiche degli anni Venti e Trenta del Novecento vollero leggere in chiave «anticlassica» e «primitiva» l’arte etrusca.
L’imperatore erudito
La scoperta degli Etruschi può esser fatta risalire molto indietro nel tempo: l’imperatore Claudio (10 a.C.-54 d.C.), fu autore di un’opera in venti libri, Tyrrhenikà, dedicata agli Etruschi e andata sfortunatamente perduta.
Egli arrivò a utilizzare queste fonti nell’ambito di un’accesa polemica politica: sostenendo l’eleggibilità alle magistrature dei Galli che avevano ottenuto la cittadinanza romana, additò l’esempio degli avi che avevano saputo accogliere personaggi etruschi all’interno del proprio gruppo dirigente e farli arrivare sino al vertice dello Stato. Claudio cita, in proposito, l’esempio di Servio Tullio, che identifica con l’etrusco Macstrna. Si può andare ancora un poco più indietro nel tempo, in età augustea, ricordando che Orazio biasima i collezionisti di Tyrrhena sigilla (statuette etrusche) e che Verrio Flacco scrisse i Rerum Etruscarum libri. Tradizionalmente, l’inizio della storia della ricerca sugli Etruschi viene tuttavia fatto coincidere con l’opera del già citato Annio da Viterbo (al secolo Giovanni Nanni, 1432-1502). Utilizzando fonti vere e fittizie, il frate domenicano ipotizzò, in un primo momento, che gli Etruschi fossero i discendenti diretti di Osiride e, successivamente, di Noè, giunto in Italia col nome di Giano per i Latini e di Vertumno per gli Etruschi. A lui attribuí la prima civilizzazione della Penisola e la fondazione di diverse città, fra cui quella che gli aveva dato i natali. Le sue teorie, contestate già dai contemporanei (alcuni suoi falsi vennero prontamente riconosciuti), godettero comunque di una larga fortuna e condizionarono la nascente ricerca.
Sulle tracce di Porsenna
In ambito toscano l’attenzione per gli Etruschi fu altrettanto precoce, anche perché essi venivano visti come i progenitori dei Toscani. Qui l’attenzione s’indirizzò presto verso singole antichità, venute più o meno casualmente alla luce: un disegno di Francesco di Giorgio, eseguito fra il 1491 e il 1495, riproduce un’urna cineraria rinvenuta a Chiusi; nel 1507, Leonardo da Vinci rielaborò la planimetria e l’alzato di un ipogeo monumentale scoperto a Castellina in Chianti. Alla metà del Cinquecento, Vasari ricorda un altro ipogeo monumentale scoperto a Chiusi e identificato erroneamente con quello di Porsenna. L’architettura degli antichi Toscani era stata apprezzata già da Leon Battista Alberti e da Filarete soprattutto sulla base di un passo di Plinio il Vecchio relativo alla tomba di Porsenna, mentre un giudizio positivo sulla plastica etrusca venne proprio da Vasari, che, nella celebre Chimera di Arezzo, rinvenuta nel 1553, riconobbe «una maniera etrusca» da contrapporre alla greca. Sempre in Toscana, già durante il Quattrocento e presso la famiglia Medici, si sviluppò la passione per il collezionismo di oggetti antichi con un’attenzione particolare per quelli etruschi o ritenuti tali: Donatello fu il primo animatore della raccolta riunita da Cosimo il Vecchio. Abbiamo notizia anche di alcuni reperti donati a Lorenzo il Magnifico: una statua con iscrizione da Pistoia; un’urna in terracotta, anch’essa iscritta, da Siena; vasi aretini e una ceramica proveniente direttamente dalla Grecia.
Cosimo, dux Etruriae
Sotto il granduca Cosimo I (1519-1574), agli Etruschi iniziò a essere attribuita una valenza ideologica. Egli si proclamò dux Etruriae e, nella propaganda di corte, la sua azione politico-militare venne a trovare proprio nel passato etrusco un precedente e, sotto certi aspetti, una giustificazione. L’interesse portò a incrementare gli acquisti e giunsero nelle collezioni medicee tre oggetti di particolare prestigio, scoperti nel volgere di pochi anni: la Minerva, la Chimera e l’Arringatore.
Il Seicento avrebbe potuto aprirsi con la prima monografia dedicata agli Etruschi, ma non fu così. La monumentale opera De Etruria regali dello scozzese Thomas Dempster (1579-1625), docente presso l’Ateneo di Pisa, venne scritta tra il 1616 e il 1619, ma rimase inedita per oltre un secolo. Con essa il dotto Scozzese scrisse una storia degli Etruschi utilizzando le fonti scritte antiche e rinascimentali a sua disposizione, e alcune antichità di cui si era riconosciuta l’etruscità. Nello studio non mancano attenzioni verso la casa regnante dei Medici, per la quale s’ipotizzavano origini etrusche, confrontando il termine meddix (magistrato) con il nome della famiglia.
La fatica di Dempster vide la luce solo quando il manoscritto fu acquistato dal bibliofilo inglese Thomas Coke, nel corso del suo personale Grand Tour.
Coke ne affidò la pubblicazione a Filippo Buonarroti, il quale ne curò il necessario aggiornamento. Il lavoro apparve infine nel 1723-24, in apertura di una stagione caratterizzata da un interesse notevole per gli Etruschi, che prende il nome di «etruscheria». In tale fase, che occupò diversi decenni del Settecento, agli Etruschi si riconobbero i più vari e incredibili primati, fra cui quello della bellezza femminile. Protagonisti di tale periodo furono soprattutto intellettuali attivi in città con un significativo passato etrusco. Glorificare gli Etruschi era per loro, in buona sostanza, cantare le lodi della propria città di nascita o di adozione.
Un campione del momento fu monsignor Mario Guarnacci (1701-1785). Nato a Volterra, studiò a Firenze e a Pisa, da dove si trasferí a Roma, intraprendendo una fortunata carriera ecclesiastica, che però s’interruppe bruscamente nel 1757. Tornato nella nativa Volterra, concentrò i suoi interessi sugli Etruschi. Già in precedenza Guarnacci aveva guidato alcune campagne di scavo, che gli avevano consentito di creare una raccolta di livello notevole. Il suo lavoro più importante fu le Origini Italiche (1767), nel quale affermò la priorità cronologica dei Pelasgi-Etruschi sugli altri popoli dell’Italia e della Grecia, che avrebbero derivato dai primi la lingua e le espressioni artistiche.
Collaborazioni e polemiche
Altri protagonisti del dibattito furono i massimi antiquari dell’epoca: Scipione Maffei (1675-1755), Anton Francesco Gori (1691-1757) e Giovan Battista Passeri (1694-1780). Al fiorentino Gori si devono una serie di imprese editoriali di notevole impegno, quali le Inscriptiones Graecae et Latinae in Etruriae urbibus extantes, il Museum Etruscum, il Museum Florentinum, rese possibili dalla fattiva collaborazione di una serie di corrispondenti attivi in diverse città italiane. Intorno al 1730, Gori fu inoltre al centro di un’accesa polemica con Maffei, scoppiata a proposito dell’alfabeto etrusco. Posizioni filoetrusche si ritrovano anche nelle opere teoriche di Piranesi e in un’opera di ampio respiro quale la Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi (1772). Dagli Etruschi, d’altronde, erano affascinati anche i primi riformatori italiani, che mettevano l’accento sulla struttura federale del loro Stato. Tra gli studiosi stranieri è doveroso ricordare almeno Anne-Claude-Philippe de Caylus (1692-1765) e Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), il quale, nella Geschichte der Kunst der Alterthums (1764), tentò una prima analisi critica dell’arte etrusca, per la quale propose una suddivisione in tre stili. Il primo, più antico, assai «rigido» e simile a quello egizio; il secondo, più evoluto, ma non pienamente soddisfacente; e un terzo, coevo alla fase di crisi, caratterizzato da un’imitazione pedissequa dell’arte greca. Un giudizio quindi non positivo, destinato a influenzare a lungo la critica successiva. Un ruolo di primo piano durante il Settecento venne svolto dall’Accademia Etrusca di Cortona, sorta nel 1726 per iniziativa dei fratelli Venuti, Marcello (1700-1755) e Ridolfino (1705-1763).
Il padre dell’etruscologia
«L’Italia nel 1700 era occupata dalle favole di Annio; non si leggeva l’etrusco; poco sapevasi di greco, e latino antico; l’età dei monumenti non conoscevasi; la Peripatetica aveva guasto il criterio di ogni genere di lettere: com’era possibile trovar tutto in quei primi anni? Noi che abbiamo tanto più numero di assiomi certi, e tanto miglior criterio, frutto del secolo in cui viviamo; noi dobbiamo profittare di questi lumi, ed essere sicuri che il secolo ci farà giustizia». Il giudizio severo sui risultati della ricerca settecentesca e l’ottimismo verso i risultati che il nuovo secolo poteva raggiungere sono in una lettera di Luigi Lanzi, il padre dell’etruscologia scientifica, datata 9 aprile 1800 e indirizzata allo studioso perugino Giovan Battista Vermiglioli. Nato a Treia nel 1732 e formatosi alla scuola dei Gesuiti, Lanzi venne assunto nel 1775 alla direzione della Galleria degli Uffizi. A lui – autore di un Saggio di lingua etrusca (1789) – si deve la decifrazione pressoché definitiva dell’alfabeto etrusco e un primo abbozzo di fonetica e di grammatica. Pur privilegiando l’aspetto epigrafico-linguistico, il Lanzi si interessò anche alla produzione artistica, partendo dalle posizioni teoriche di Winckelmann: accolse la tripartizione proposta dallo studioso tedesco, ma ne criticò efficacemente singole affermazioni. Numerose opere ritenute etrusche da Winckelmann non lo furono, motivatamente, da Lanzi; lo stesso giudizio complessivo sulla produzione artistica etrusca fu assai meno riduttivo, pur riconoscendo l’influenza esercitata su di essa dalle esperienze greche.
«Monumenti di arte rozza e incolta»
Nel frattempo una nuova periodizzazione dell’arte etrusca era stata ipotizzata da Christian Gottlob Heyne (1729-1812), che aveva proposto una suddivisione in cinque fasi. Nella prima inseriva «i monumenti di arte rozza e incolta»; nella successiva le opere «simili a quelli della Grecia più antica, contemporanei, cioè, ai Pelasgi»; la terza accoglieva quelle che riprendevano «sia lo stile sia le raffigurazioni dell’arte egizia»; nella quarta erano comprese le opere nelle quali «l’arte è più elegante e continua ancora le antiche rappresentazioni greche»; l’ultima veniva giudicata la migliore e poteva «paragonarsi alla bellezza dell’arte greca più recente».
Va tenuto presente che Heyne lavorava a Gottinga, lontano dai reperti, di cui aveva una conoscenza basata prevalentemente sulle illustrazioni non sempre precise dell’epoca. L’Ottocento, il secolo verso cui Lanzi nutriva tante speranze, si aprí con un libro importante, L’Italia avanti il dominio dei Romani (1810) di Giuseppe Micali (1769-1844), che ebbe una larga eco soprattutto al di fuori della cerchia degli antiquari, che meno ne colsero il taglio fortemente innovativo. Fu invece molto apprezzato dagli intellettuali dell’epoca, non soltanto italiani: vinse il Premio dell’Accademia della Crusca e fu giudicato positivamente, seppur con alcuni distinguo, da Stendhal, che ne raccomandò la lettura al cugino Romain Colomb in vista di un suo viaggio in Italia. La figura di Micali venne poi dimenticata e la sua rivalutazione si deve in anni recenti a Massimo Pallottino, che ha riconosciuto alla sua opera il valore di «decisivo avvio» della storia dell’Italia preromana, e l’ha paragonata a quelle di William Mitford e di Barthold Georg Niebuhr, rispettivamente per la storia greca e romana.
Il primo manuale
Lo sguardo di Micali arrivò a comprendere tutti i gruppi etnici dell’Italia prima della romanizzazione e a esaminare gli aspetti istituzionali, economici, culturali e linguistici sulla base di un’analisi critica delle fonti letterarie e della documentazione archeologica ed epigrafica. Nel 1828 vide la luce un altro libro importante, Die Etrusker, di Karl Otfried Müller (1797-1840), considerato il primo manuale di etruscologia, che contiene un giudizio assai critico sulla produzione artistica: «L’arte in Etruria sembra come una pianta straniera alla quale la terra e il clima non hanno permesso di crescere e di nutrirsi; morí quando cessò l’influsso straniero senza aver raggiunto una completa maturità; in ogni attività artistica mancò agli Etruschi quel raggio celeste che conferisce all’opera d’arte assieme a un corpo vivente anche uno spirito libero e attivamente indipendente».
Le osservazioni del Müller, nate in un clima culturale completamente diverso, sembrano ricalcare le considerazioni di Winckelmann: è un giudizio (o, piuttosto, un pregiudizio) sull’arte etrusca destinato a durare a lungo, sino alla scoperta dell’Apollo di Veio nel 1916, quando nuovi modelli interpretativi presero il sopravvento e la ricerca degli artisti andò verso le forme giudicate anticlassiche e/o primitive. L’Ottocento vide, comunque, un ampliamento enorme delle conoscenze: vennero riconosciute città-stato di cui era rimasto solo il nome; furono indagate (spesso saccheggiate) necropoli; si riportarono alla luce aree sacre; furono condotti scavi negli abitati. Ripercorrere l’attività di una delle stagioni più intense dell’archeologia italiana, con le sue luci e le sue ombre, è in questa sede impossibile: ci si limiterà pertanto a segnalare le singole imprese o iniziative di maggiore spessore. Un’importanza particolare riveste la costituzione in Roma, nel 1829, dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica, un’istituzione che promosse scavi in Etruria, ma che soprattutto, tramite una fitte rete di soci corrispondenti, riuscì a documentare i ritrovamenti che si andavano facendo conservandone la memoria. L’Instituto svolse anche un ruolo nel mercato di antichità europeo in decenni in cui la passione collezionistica e l’interesse per l’antico andavano coinvolgendo settori sempre più ampi di popolazione.
Luciano, principe-archeologo
Tra le imprese archeologiche del periodo va ricordata la scoperta delle necropoli di Vulci, realizzata dal principe-archeologo Luciano Bonaparte (1775-1840), fratello di Napoleone. Egli, dopo avere svolto un’intensa attività politica (ebbe un ruolo di primo piano nel colpo di Stato del 18 brumaio), fu nominato principe di Canino dal pontefice Pio VII e iniziò a interessarsi all’archeologia. Le sue fortunate campagne di scavo, condotte con metodi meno sbrigativi di quelli che si riteneva, gli consentirono di riunire una collezione ragguardevole, andata comunque rapidamente dispersa e confluita in diversi musei europei. Luciano Bonaparte fu anche un teorico e un tardivo sostenitore delle teorie «filoitaliche»: continuò, per esempio, a sostenere l’etruscità dei vasi greci che andava scoprendo, contro i pareri di Luigi Lanzi e di Eduard Gerhard. Fortunate campagne di scavo vennero condotte anche in altri centri dell’Etruria meridionale: a Cerveteri, nel 1834, furono scoperte 53 tombe a camera fra cui quelle degli Scudi e delle Sedie e degli Animali Dipinti; qualche anno dopo l’arciprete Alessandro Regolini e il generale Vincenzo Galassi vi rinvennero il celebre tumulo che prese il loro nome.
A Tarquinia furono scoperte molte delle tombe dipinte che conosciamo, tra cui quelle del Barone, rinvenuta da August Kestner nel 1827, del Triclinio, della Querciola e del Tifone, riportate alla luce rispettivamente nel 1830, nel 1831 e nel 1832.
Nell’Etruria centro-settentrionale la città indagata più a fondo fu Chiusi, dove ricerche con intenzioni scientifiche o con finalità campanilistiche si alternarono ad altre legate esclusivamente alle esigenze del mercato di antichità, che scelse la cittadina toscana come sua meta privilegiata. Il territorio chiusino fu indagato a tappeto e il commercio degli oggetti archeologici divenne nella zona, per qualche decennio, un’attività economica di primaria importanza, seconda solo a quella agricola.
Nella prima metà dell’Ottocento si registrò anche il dinamismo di singolari figure di archeologi-imprenditori quali Alessandro François (1796-1857) o i membri della famiglia Campanari. Questi ultimi, originari di Tuscania, furono tra i promotori di una mostra allestita a Londra nel gennaio del 1837, che ebbe una enorme eco in Inghilterra e nella quale furono sperimentate soluzioni espositive destinate ad avere un duraturo successo, come la ricostruzione in scala delle tombe, la cui visita doveva avvenire al lume delle torce. Notevole cura fu posta anche nel ricollocare nella loro posizione originaria, vera o presunta, i singoli oggetti del corredo funerario. Quei decenni videro anche la formazione di alcuni musei dedicati espressamente o prevalentemente alle antichità etrusche, fra cui il Museo Gregoriano Etrusco in Vaticano, aperto nel 1837: l’allestimento funse da punto di riferimento per quelli successivi.
Un esploratore instancabile
La fervida attività di quegli anni confluí in un volume di notevole valore, The Cities and Cemeteries of Etruria di George Dennis (1814-1898), la cui prima edizione vide la luce nel 1848. Nato a Londra, Dennis intraprese la carriera diplomatica, che culminò nell’incarico di console svolto a Creta, in Sicilia e a Smirne, ma coltivò sempre interessi per la letteratura e per l’archeologia. Essi si saldarono in un volume dedicato alla Sicilia antica, ma soprattutto in quello incentrato sugli Etruschi. Egli percorse l’intera Etruria e riuscì a documentare il mondo etrusco e, contemporaneamente, la vita e i paesaggi dell’Italia centrale del suo tempo. L’esperienza diretta delle testimonianze archeologiche descritte si saldava a una conoscenza profonda delle fonti letterarie latine e greche e della letteratura scientifica contemporanea. L’opera di Dennis venne più volte aggiornata e ristampata.
La seconda metà del secolo fu segnata da un ulteriore ampliamento della base documentaria: gli scavi proseguirono nei centri di cui si era già intuita l’importanza, ma altri se ne aggiunsero, come, per esempio, Orvieto. Nell’edizione del 1848 del volume di Dennis l’etruscità del sito risultava piuttosto vaga, mentre nelle edizioni successive Orvieto appare come un centro etrusco di notevole rilievo. Nel 1863, a poca distanza dalla città, in località Settecamini, erano state dissepolte due tombe dipinte che presero il nome dallo scopritore Domenico Golini. La loro pubblicazione, esemplare per qualità e tempestività, realizzata da Gian Carlo Conestabile (1824-1877), spostò l’attenzione del mondo scientifico e del mercato di antichità verso questa zona dell’antica Etruria. Nel giro di pochi decenni, tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, vennero investigate a tappeto le due necropoli di Crocifisso del Tufo e di Cannicella. I risultati di quelle frenetiche indagini furono, da un lato, una conoscenza molto più approfondita della fase etrusca di Orvieto e la formazione di due musei archeologici – la raccolta privata dei conti Faina e il Museo Civico Archeologico –, dall’altra la considerevole dispersione del patrimonio archeologico locale.
Nascono le grandi raccolte museali
Con l’Unità d’Italia si ebbe una rinnovata attenzione per i musei archeologici centrati sul tema etrusco. Nel 1870 vennero aperti quello di Firenze e a seguire quelli di Bologna (1881) e di Villa Giulia, a Roma (1889). Sempre in quei decenni, soprattutto per iniziativa di studiosi tedeschi, nacquero grandi corpora, dedicati agli specchi etruschi (l’iniziativa era stata avviata nel 1839), alle urne cinerarie, alle iscrizioni. Una necessità di sistematizzare quanto era stato riportato alla luce, in buona parte disordinatamente. Non mancarono opere di sintesi quali, per esempio, il manuale L’art étrusque (1889) del filologo francese Joseph-Jules Martha (1853-1932), dove peraltro l’interpretazione negativa della produzione artistica degli Etruschi non appare ancora modificata. In essa – afferma lo studioso – «non si ritrova niente dell’armonia delle proporzioni, della forma, delle linee o quella discrezione sapiente che ci stupisce nelle opere anche minori dell’arte greca».
L’Ottocento si chiuse con un ampliamento considerevole della documentazione, ma i giudizi di fondo sembravano rimanere fermi e i «misteri» etruschi continuavano ad avere soluzioni non soddisfacenti e spesso in contrasto fra loro. Si prenda il tema delle origini, per il quale alle tesi tradizionali della venuta dall’Oriente o dell’autoctonía si aggiunse quella di una provenienza dal Settentrione, continuando a impostare il problema – come ebbe a notare nel 1942 Massimo Pallottino – «sulla base della provenienza di un popolo e non su quella di una formazione etnica».
La scoperta dell’Apollo di Veio, avvenuta nel 1916 in un clima culturale profondamente diverso, contribuí a mutare il giudizio sull’arte etrusca. I «limiti» segnalati da Winckelmann divennero i «pregi» nell’interpretazione delle avanguardie artistiche degli anni Venti e Trenta e, più in generale, per quegli artisti contemporanei che hanno guardato all’Etruria.
Studiosi a convegno
Ricordiamo, per esempio, Massimo Campigli, il cui incontro con l’arte etrusca avvenne – come ha più volte ricordato nei suoi scritti – nel 1928 al Museo di Villa Giulia. Nello stesso anno si tenne il I Congresso Internazionale Etrusco (preceduto nel 1926 dal I Convegno Nazionale Etrusco), e nel 1932 venne riconosciuto ufficialmente l’Istituto di Studi Etruschi e Italici, che ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo della ricerca etruscologica.
La ricerca è proceduta, nella prima metà del nostro secolo, intensificando gli scavi (con un’attenzione particolare ancora per le necropoli: straordinari furono i rinvenimenti di Antonio Minto a Populonia), continuando nella pubblicazione di repertori (si deve ricordare almeno Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples di Arvid Andrén, 1939-1940) e iniziando quella di studi monografici su singoli centri. In quest’ultimo settore spiccano quelli dedicati a Chiusi da Ranuccio Bianchi Bandinelli (1925), a Tarquinia da Massimo Pallottino (1937), a Populonia da Antonio Minto (1943).
Personaggio centrale dell’etruscologia del Novecento è stato Massimo Pallottino (1909-1995), al quale si deve, a ben guardare, l’assurgere della materia alla dignità di disciplina scientifica autonoma.
Tra i risultati della sua ricerca va annoverata la soluzione del problema delle origini etrusche, ottenuta spostando l’attenzione dall’aspetto della provenienza a quello della formazione di un popolo. Pallottino notò che chiedersi da dove venissero gli Etruschi era una falsa domanda e per le false domande possono esistere solo false risposte. Quale parere si potrebbe, per esempio, dare a un eventuale interrogativo sulle origini degli Italiani?
Un approccio nuovo
È evidente che numerose sono state le componenti etniche che hanno portato alla formazione del popolo italiano durante la sua storia. Spostò dunque i termini della questione, andando alla ricerca delle diverse componenti che determinarono la nascita della popolazione etrusca. Altri suoi contributi essenziali sono venuti per la comprensione della lingua etrusca e dello sviluppo storico degli Etruschi inseriti pienamente nell’ambito delle culture della Penisola Italiana del millennio precedente la piena romanizzazione. Pallottino fu promotore e responsabile di fortunate campagne di scavo, tra cui quella nel santuario di Pyrgi (oggi nei pressi del castello di Santa Severa), uno dei porti di Caere (Cerveteri), che ha restituito le celebri lamine d’oro bilingui con iscrizioni in fenicio e in etrusco.
Il secondo dopoguerra è stato caratterizzato dall’attività dello stesso Pallottino e della sua scuola. L’etruscologia si è aperta a un pubblico più ampio di quello tradizionale, attraverso l’allestimento di mostre che hanno avuto uno straordinario successo, quella sull’arte e la civiltà degli Etruschi presentata tra il 1955 e il 1956 in diverse città europee, quelle allestite in Toscana nel 1985, in occasione dell’«Anno degli Etruschi», l’esposizione tenuta a Parigi e a Berlino fra il 1992 e il 1993, o le altre che si sono succedute in questi ultimi tempi, fra cui quella presentata in Palazzo Grassi, a Venezia, tra il 2000 e il 2001.
Le ultime acquisizioni
Gli scavi hanno iniziato a interessare prevalentemente gli abitati e le strutture produttive. Si è già accennato allo scavo del santuario di Pyrgi, ma sono da menzionare anche gli scavi pionieristici nei quartieri di abitazione dei centri di Acquarossa presso Viterbo, svolto dalla Scuola Svedese, e di Murlo (vicino a Siena), diretto da archeologi statunitensi. Dagli anni Ottanta del Novecento indagini scientifiche hanno interessato anche le metropoli: l’area urbana di Cerveteri, per esempio, sotto la direzione di Mauro Cristofani (a cui si deve pure lo scavo di alcuni edifici nel quartiere industriale di Populonia), o quella di Tarquinia, indagata da Maria Bonghi Jovino, o ancora quella di Veio iniziata successivamente. Non sono mancati – come si è accennato – scavi in aree a vocazione produttiva, quali quartieri artigianali, porti, fattorie; è il caso dell’insediamento presso il lago dell’Accesa, legato all’attività mineraria e investigato da parte di Giovannangelo Camporeale.
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Per saperne di più
♦ Massimo Pallottino, Etruscologia, Milano (Hoepli) 19847;
♦ Massimo Pallottino, Storia della prima Italia, Milano 1984;
♦ Mauro Cristofani, L’arte degli Etruschi, Torino 19852;
♦ AA.VV., Gli Etruschi e l’Europa, Catalogo della mostra, Milano 1992;
♦ Giuseppe M. Della Fina (a cura di), La fortuna degli Etruschi nella costruzione dell’Italia unita, in «Annali della Fondazione Claudio Faina», XVIII, 2011;
♦ Giuseppe Sassatelli, Giuseppe M. Della Fina, Gli Etruschi, Milano 2013;
♦ Giovannangelo Camporeale, Gli Etruschi. Storia e civiltà, Torino 20154.
Fonte: Nel mondo degli Etruschi, Archeo Monografie, a cura di Giuseppe M. Della Fina, aprile 2016