Uno dei più noti e popolari scrittori francesi di storia, Alain Decaux, rievoca la rivolta di Spartaco, il gladiatore che fece tremare Roma
di Alain Decaux
Una notte di luglio dell’anno 73 avanti Cristo: settanta uomini evadono dalla scuola dei gladiatori di Gneo Lentulo Batiato, a Capua. Avvolti dal silenzio notturno, avanzano lungo i viali della scuola. Il loro, più che un camminare, è uno scivolare furtivo. Con infinite precauzioni tirano i chiavistelli, aprono le porte. Qualche passo, ed eccoli nella campagna. Li assale, da ogni parte, l’odore selvatico degli alberi, dell’erba: l’odore della libertà. A capo dei fuggiaschi c’è un tracio. Il suo nome è Spartaco.
Ha così inizio quella rivolta dei gladiatori che farà tremare Roma e tutto il mondo romano. Al suo annuncio, milioni di oppressi alzano la testa. S’incrinano, d’un tratto, le ferree regole sociali che consentono ad alcuni di imporre il loro dominio su tutti gli altri. Tale dominio dura incontrastato, magari per secoli, in mezzo alla rassegnata accettazione della massa dei diseredati. Poi, succede qualcosa, e tutto salta in aria.
Il mondo romano non era nuovo a rivolte di questo genere, e altre volte Roma aveva temuto per la sua sicurezza. Ma nessuna di tali rivolte è paragonabile a quella che prende il nome da Spartaco. Per varie ragioni, la prima delle quali, legata alla personalità davvero eccezionale dello stesso Spartaco.
Chi era costui? Un gladiatore. Dunque uno schiavo. Ma non era nato né per fare lo schiavo né il gladiatore. Le sue origini sono oscure. Tutto ciò che sappiamo, è che era nato tra le montagne della Tracia, l’attuale Bulgaria. Alcuni romani favoleggiano di una sua nascita regale, ma niente lo dimostra. Una infanzia passata curando le greggi. Un pastore, insomma! Un passaggio di legioni romane è l’occasione che dà una svolta alla sua vita. Egli si ritrova al loro seguito; forse, come si dice, adottato come mascotte dai soldati, oppure attratto dal fascino della divisa. Certo è che Spartaco si arruola nell’esercito romano. Le legioni romane costituiscono una forza terribile, e si intuiscono il fascino e la fierezza che potevano derivare dal sentirsi parte di un corpo così prestigioso. Il che significava anche, a quei tempi, essere sottoposti a una disciplina ferrea. Il soldato è tenuto costantemente sotto torchio: così si pensa di assicurarsene l’obbedienza. Il corpo sfinito da esercizi faticosi, la volontà annichilita da continue punizioni. Le vergate sono all’ordine del giorno, e così la prigione, che può essere anche il fondo di un pozzo. Non è ciò che sognava il giovane pastore tracio. Tra le sue montagne egli era libero, non vincolato da alcuna costrizione. Fino a quando potrà tollerare una condizione che, sotto l’uniforme, lo accomuna a uno schiavo? Un giorno la sua decisione è presa: diserta. L’uomo che ha appena riacquistato la sua libertà è alto, atletico, dotato di una forza non comune. Il suo passo è fiero, lo sguardo ardito. Questo è tutto ciò che sappiamo di lui.
Per non essere riagguantato, non gli rimane che una via: darsi al brigantaggio. Una vita fatta di caccia attraverso le campagne, di colpi di mano occasionali, di attacchi ai convogli, di furti nelle ville. Ci si ripara dove capita, in capanne o in grotte. La sua banda è composta di schiavi evasi o di avanzi di galera. Niente li ferma, niente li spaventa, così, per anni.
Finché, un giorno, la banda viene catturata, e finisce in prigione. Spartaco sa bene ciò che lo attende: una morte atroce preceduta da lunghe torture. Tuttavia, per un gioco felice della sorte, viene risparmiato. Ci si accontenta di condannarlo alla schiavitù. Schiavo, Spartaco? E perché no? Non tutti gli schiavi vivono una vita infelice. Ciò che la schiavitù gli offre non è forse meglio di ciò che poteva avere nell’esercito, o col brigantaggio. Viene ceduto, assieme ad alcuni dei suoi compagni, a un mercante di schiavi, che si preoccuperà soprattutto della loro forma fisica. Quindi riposo, e una buona alimentazione: questa è la cura per ottenere degli schiavi presentabili e ben portanti. Dopo di che li si conduce al mercato per metterli in vendita. Spartaco, in catene, attende in mezzo agli altri schiavi ugualmente incatenati. Attende il suo futuro padrone. Tra la folla dei curiosi e degli eventuali clienti, si fa avanti un uomo, Gneo Lentulo Batiato. È lanista, cioè tenutario della scuola dei gladiatori di Capua. Osserva Spartaco, ammira la prestanza dell’atleta che sta orgogliosamente in piedi davanti a lui. Lo compera.
Che cosa è una scuola di gladiatori? Nell’antica Roma, ci racconta Festo, «vigeva l’abitudine di sacrificare prigionieri sulla tomba dei guerrieri valorosi; quando ci si rese conto della crudeltà di quest’usanza, si decise di far combattere dei gladiatori dinanzi alla tomba». Un costume, questo, molto antico. Già presso gli Etruschi, si obbligavano gli schiavi a uccidersi tra loro durante le esequie del padrone. Si trattava quindi di veri e propri sacrifici. Roma aveva ereditato questa sanguinosa tradizione. Il divertimento, nel vedere i contendenti trucidarsi tra loro, era tale, che a poco a poco l’usanza aveva cambiato di forma. Si era capito che presentando dei combattimenti sotto forma di cerimonia, ma di una cerimonia che si protraeva fino alla morte dell’uomo, il successo sarebbe stato immancabile. E così avvenne. Verso la fine della Repubblica le lotte dei gladiatori non sono altro che spettacoli — la più popolare forma di spettacolo — che vengono offerti al popolo da cittadini candidati a qualche incarico o a qualche promozione. Il pretesto è sempre quello di onorare la memoria di un parente defunto. Ma è, appunto, solo un pretesto.
Il primo combattimento di gladiatori di cui si abbia notizia si tenne a Roma nel 264 avanti Cristo, nel punto destinato al mercato del bestiame. In seguito i combattimenti si svolsero nel Foro, con gli spettatori in piedi. Vennero poi gli anfiteatri in legno. Ultima tappa, gli anfiteatri in pietra. All’inizio ci si era limitati ad armare dei semplici schiavi. La morte di uno schiavo non rappresentava più di una semplice perdita di denaro. Poi si passò ai soldati prigionieri. In seguito si pensò — sempre per esigenze di spettacolo — di preparare degli schiavi opportunamente selezionati e addestrati in modo da diventare dei perfetti gladiatori. Nacquero così le scuole, come appunto quella di Capua, diretta da Gneo Lentulo Batiato, dove è appena stato portato Spartaco. In certi periodi la scuola di gladiatori di Roma aveva contato fino a duemila «allievi». Quella di Capua è naturalmente di proporzioni più modeste, ma ospita comunque duecento futuri gladiatori. Spartaco si ritrova in un ambiente che ha insieme la parvenza di una caserma e di un collegio di atleti, qualcosa di somigliante ai nostri moderni centri di educazione fisica. Ma è anche una prigione. Dormitori, sale di refezione e di soggiorno, viali ricoperti di sabbia: ma le porte sono sprangate con catenacci, e le finestre hanno le sbarre.
Alla scuola di Capua non si hanno problemi: si dorme, si mangia a volontà. A giorni fissi, non troppo spesso ne troppo di rado, si portano alla scuola delle prostitute prelevate dal lupanare. Alcuni sarebbero anche inclini a sentirsi soddisfatti di una vita che, al confronto con la immensa miseria che li circonda, potrebbe apparire come buona. Una vita buona, certo, ma in fondo alla quale sta la prospettiva di una morte quasi certa. I dati offerti da Marcel Brion in un penetrante saggio dedicato all’argomento fanno riflettere: di una scuola di gladiatori nessuno — tranne qualche rara eccezione — sopravviverà più di tre anni. Gneo Lentulo Batiato non è un individuo malvagio: da lui gli allievi non possono aspettarsi che un buon trattamento. Ma ecco, viene il giorno in cui bisogna partire per l’anfiteatro, due uomini percorrono un lungo corridoio coperto, sono due gladiatori. Per mesi e mesi si sono esercitati insieme, magari sono diventati amici, e oggi sanno che uno dovrà morire per mano dell’altro.
Già la folla riempie le gradinate. Quando si offre un combattimento di gladiatori la città si svuota. Ecco l’arena, in pieno sole. Una fanfara emette uno squillo potente, come oggi nelle corride. Fanno la loro comparsa i cavalieri, uno dalla porta d’oriente, l’altro da quella d’occidente, e giostrano un poco. Ecco il soprintendente dei giochi pronunciare il suo discorso, un discorso che viene ascoltato con impazienza. Finalmente ecco i gladiatori. Quando fanno la loro entrata, un grido immenso sale verso il ciclo. Avanzano l’uno contro l’altro. Esistono quattro categorie di gladiatori: il mirmillone che ha come arma una lancia e come unica protezione un casco e un grande scudo gallico, mentre il petto e le gambe sono nudi; il trace che maneggia spada e lancia, e ha il corpo protetto da corazza e gambali; il reziario, munito di una reticella e di un tridente; il sannita che porta un grande scudo e una spada a lama diritta. Spartaco appartiene alla prima categoria. La volontà di battersi non gli manca, e gli spettatori ammirano la sua agilità, la sua forza, la potenza che si sprigiona dalla sua muscolatura. È scattante, abile. E uccide. A ogni spettacolo è un trionfo. Tutti conoscono il suo nome, le sue vittorie, lo acclamano. Alla sera, il rientro nella clausura della scuola di Capua, con i chiavistelli che scattano dietro le spalle. Per una volta ancora, è salvo; ma fino a quando? All’apparenza egli appare rassegnato, come se si fosse lasciato andare e una specie di complice fatalismo. Ma si può essere completamente rassegnati, in una simile situazione? Un sentimento invade sempre più spesso l’animo di Spartaco. ed è il sentimento dell’assurdità della sua vita, di quel che essa è diventata.
Quando gli portano le ragazze del lupanare, fa all’amore, ma senza quasi degnarle di uno sguardo. Un giorno tutto cambia. Una di queste ragazze è bella ed è una tracia come lui. Nel giaciglio che dividono, si parlano nella loro lingua. Evocano il loro paese, i villaggi, le montagne. Sognano. In fondo la più radicale delle evasioni non è forse il sogno?
Ma per Spartaco è la fine di ogni tentazione a lasciarsi andare, a rassegnarsi. Quella donna lo ha cambiato. Qualche bello spirito potrà fare dell’ironia su questo incontro tra lo schiavo e la prostituta. Si potrà parlare di romanzo a buon mercato. Ma si avrebbe torto. I sentimenti che riempiono il cuore di quest’uomo e di questa donna sono sentimenti autentici e veri e quindi degni di ogni stima. Adesso Spartaco vuole vivere, vuole essere padrone della propria vita. Vivere per sé e vivere per lei. Parla alla ragazza e la ragazza lo ascolta. Vuole che i loro destini siano uniti. Che la sua libertà sia la loro libertà. A poco a poco essa rimane contagiata dall’ardore del suo compagno, i loro cuori vibrano all’unisono, il loro avvenire le appare ora dinanzi nitidamente: fuggiranno, ce la faranno. Il guardiano viene ora a separarli, essa ritorna al suo lupanare. Per le sue compagne è quella di sempre, ma si sbagliano, perché essa è diventata un’altra.
La sera, quando la scuola di Batiato sprofonda nel silenzio, i catenacci alle porte sono stati tirati, le luci spente, e i gladiatori si dispongono al sonno nei loro giacigli, Spartaco scivola accanto a loro. Parla, racconta della trasformazione che è avvenuta in lui e perora con passione un’idea che gli è maturata dentro: unirsi a lui nella fuga. Si, partire insieme! Lasciare l’Italia in cerca di un paese libero. Fondare una colonia! Vivere. insomma! Di fronte a queste proposte ognuno reagisce a modo suo e secondo il suo temperamento. C’è chi si mostra reticente, convinto che un’avventura simile non ha alcuna possibilità di riuscita, altri danno via libera alla loro immaginazione. Ma intanto il clima nella scuola è visibilmente cambiato. Quei morti sopravvissuti obbediscono con meno facilità. Batiato, vecchia volpe, fiuta il pericolo. Da un giorno all’altro scompaiono spade e lance, sostituite, per le esercitazioni, con armi di legno. I guardiani sono invitati a intensificare la vigilanza, e i risultati si vedono subito: il fronte dei gladiatori subisce delle sfaldature. Su duecento, centotrenta si tirano indietro, rinunciano: decisamente il piano di Spartaco si presenta irto di troppe difficoltà. Se si tratta di farsi uccidere, come è probabile, tanto vale aspettare il proprio turno nell’anfiteatro, piuttosto che subito, torturati e appesi dai guardiani.
A questo punto, i pusillanimi vengono abbandonati alla loro sorte. Ciò che conta è la restante settantina di uomini che hanno abbracciato il piano di Spartaco, e si fidano di lui. Hanno capito che egli non è più lo stesso uomo; la trasformazione profonda che è avvenuta in lui ha fatto dello schiavo di prima un capo. La cosa più singolare è che tutti, nella scuola, ormai, riconoscono la sua autorità. Da abile stratega Spartaco capisce che la prima cosa da fare è dissipare la diffidenza di Batiato. Ormai si obbedisce senza battere ciglio, si mostra una docilità a tutta prova. Batiato si sente rassicurato: non si è trattato che di una turbolenza momentanea, di una velleità priva di sbocchi. Dopo tutto è normale che qualche volta la sete di libertà si faccia sentire. Ma, quando un padrone ci sa fare, tutto rientra nell’ordine. La stretta torna a riallentarsi. Ed è proprio ciò che Spartaco aspettava.
I settanta fuggiaschi si muovono come ombre nell’oscurità della notte estiva: con estrema circospezione hanno tirato i catenacci e aperto le porte: nessun guardiano si è svegliato, nessuno si è accorto di nulla. Sono ormai all’esterno, ma questo non significa ancora la libertà. Appena ci si accorgerà della loro fuga, Batiato scatenerà tutta la milizia di Capua sulle loro tracce. L’importante è guadagnare tempo. «Sperdersi il più presto possibile nella campagna circostante, imboscarsi»: era stata la consegna di Spartaco. Avanzano di gran lena verso Capua, fiutando l’aria calda della notte. Il dramma è che sono privi di armi. La scuola ne aveva in abbondanza, avrebbero potuto impossessarsene, ma Spartaco non aveva voluto rischiare di attirare l’attenzione. In buon ordine accelerano la marcia. Passano davanti alla bottega di un oste, riconoscibile dall’insegna. A un cenno di Spartaco ci si ferma, si forza la porta. Nella cucina trovano spiedi, taglieri, coltelli: ci si accontenta, in mancanza di meglio. Ripartono. Spartaco sa dove dirigersi. Pochi passi e ci si ferma di nuovo, questa volta davanti all’entrata di un lupanare. Spartaco vi entra e ne esce con la ragazza tracia che ama. Di nuovo di corsa fino alle ultime case della città. Ecco la campagna, con i suoi forti umori e il canto onnipresente dei grilli, che pensavano di aver dimenticato. Di fronte a loro la strada sembra perdersi nell’infinito. Su di essa viene avanti una massa scura. Si ode un rotolar di ruote sul lastricato, uno scalpiccio di cavalli trainanti. Un gesto di Spartaco, e gli uomini si rimpiattano ai due lati della strada. Quando il carro è a portata di mano, lo assaltano, immobilizzano i conducenti, vi si precipitano sopra. Evviva! Si tratta di un carico di armi, proveniente da Roma e diretto, come si viene a sapere dai conducenti, non molto allarmati, nientemeno che alla scuola di Gneo Lentulo Batiato. Dovevano servire per il combattimento di gladiatori che avrebbe avuto luogo l’indomani! La scoperta è accolta da uno scoppio di esultanza. Decisamente gli dei sono con loro. Lasciano che il carro vuoto proceda verso Capua e si rimettono in marcia.
La fuga dei gladiatori è stata scoperta. Un ammutinamento di schiavi è quanto di meno tollerabile si possa immaginare per la società romana. Sono i tempi in cui certi romani di vecchio stampo dichiarano che uno schiavo deve essere frustato ogni giorno, in modo da tener ben desto il suo istinto di sottomissione e di servizio. I magistrati non perdono tempo: mettono la milizia — cavalleria e fanteria — alle calcagna dei fuggiaschi. Indizi non ne mancano. La gente li ha visti passare, porte e finestre si sono aperte al loro passaggio. Dopo il colpo di mano contro il carro, dopo che i gladiatori si sono impossessati delle armi distribuendole secondo le specialità di ognuno, il gruppo ha assunto parvenza terrificante. Immaginiamo questi uomini che brandiscono spade, scudi, tridenti, magli di ferro. La milizia non ci ha messo molto a individuare in quale direzione si sono lanciati, e poiché hanno ormai un certo vantaggio, il compito di riacciuffarli spetta alla cavalleria. Il resto della truppa arrancherà dietro, a piedi. Il primo contatto viene stabilito qualche ora più tardi. Eccoli faccia a faccia, la forza pubblica e i gladiatori. Nemmeno per un istante questi ultimi hanno pensato o si sono illusi di sottrarsi allo scontro. Al contrario, quando Spartaco ha udito avvicinarsi gli inseguitori, ha disposto la sua piccola truppa in assetto di guerra. La cavalleria carica, i legionari si lanciano all’attacco. I gladiatori li aspettano. Lo scontro è terribile. Ma cosa sono questi cavalieri, questi soldati, di fronte a dei gladiatori che da mesi, alcuni da anni, si addestrano quotidianamente a ogni tipo di esercizio con le armi? I gladiatori schiacciano letteralmente la forza pubblica che deve battere in ritirata, sconfitta. Vittoria di Spartaco, dunque? Egli è troppo intelligente per credere che la partita sia chiusa. A Capua, infatti, la reazione è violenta. Ci si rende conto che si tratta di un pericolo effettivo, da non minimizzare, e si comincia a capire che non si ha a che fare con uno sparuto gruppo di schiavi datisi alla macchia, ma con un piccolo esercito ben addestrato. Un esercito che ha un capo, ed è così che nascono le rivoluzioni, e si fa strada il disordine. E di disordine non c’è proprio bisogno. La società romana sta attraversando un momento difficile, appena uscita com’è da una guerra civile che ha visto affrontarsi a lungo Mario e Silla. Imperversa la ricchezza facile, molti cittadini romani indulgono all’ozio e alla mollezza. Si è presa l’abitudine di trasformare i prigionieri in schiavi, e poiché, dati i frequenti conflitti, si fanno molti prigionieri, ne consegue un’enorme massa di schiavi. Gli uomini responsabili pensano spesso al pericolo costituito dalla presenza di questi uomini in stato di servitù, sparsi su tutto il territorio della Repubblica. Basterebbe una scintilla per dar fuoco a questo potenziale esercito. Fino a quel momento si erano avute soltanto delle rivolte isolate, che, malgrado il loro successo effimero, erano state rapidamente sedate. Ma questa volta? Questo Spartaco ha forse un suo piano, persegue un suo ideale? E se il suo gesto si rivelasse contagioso? Bisogna soprattutto far si che l’evasione dei gladiatori di Capua non si propaghi a macchia d’olio. Occorre catturarli al più presto, tutti, e crocifiggerli, in modo che la loro fine incuta paura a tutti gli altri.
Adesso anche i centotrenta gladiatori che erano rimasti nella scuola fuggono sotto il comando di un certo Criso. Battono la campagna. Il loro intento è certamente quello di raggiungere Spartaco. Che cosa non possono fare questi uomini ben armati e animati da una feroce volontà?
Per fronteggiare il pericolo il propretore Claudio Glabro riunisce tremila soldati. Una forza enorme, se confrontata con i settanta o anche con tutti i duecento. Spartaco si rende ben conto che, questa volta, non sarà in grado di resistere. L’unica possibilità di salvezza è quella di trincerarsi in un luogo fortificato. Ma dove trovarlo? Spartaco ha un’idea veramente geniale: rifugiarsi nel cratere del Vesuvio. Detto fatto, prendono di petto le pendici del vulcano, si calano nel cratere. Bisogna immaginare che cosa può essere un vulcano nel bei mezzo di luglio, con la terra ardente, i vapori che salgono dal fondo, sopra le teste un sole accecante e, naturalmente, niente acqua. Glabro ha raggiunto e circondato il cratere con le sue truppe. Sa che la fame, la sete costringeranno gli assediati a venire allo scoperto. Anche Spartaco lo sa. Passano i giorni, e le notti. La speranza — l’unica che resta — in un po’ di pioggia si fa spasmodica. Ma il cielo rimane impassibile, e la sete tortura i gladiatori. Alcuni cominciano a vacillare, e sarebbero pronti a rinnegare Spartaco, a darsi per vinti. È allora che interviene la ragazza tracia. Rincuora gli uomini, il fuoco sacro delle profetesse sembra pervadere le sue parole: «State calmi, Spartaco ha già fatto dei miracoli, e altri ne farà».
Spartaco si avvede che Glabro ha bloccato tutte le discese, ma ne ha lasciata scoperta una che scende a picco, poiché appare impercorribile. Occorrerebbero delle scale e delle corde, e i gladiatori ne sono sprovvisti. Ma Spartaco non si dà per vinto e finalmente ha un’idea. Sulle pareti del Vesuvio si coltiva tradizionalmente la vite. I suoi uomini si avventurano sui pendii suscitando da lontano l’ilarità dei soldati di Glabro: che ci vanno a fare lassù? Forse a vendemmiare? Nel mese di luglio? L’ilarità raggiunge il colmo quando li vedono tagliare dei viticci e riportarli nel cratere. Vogliono accendere un fuoco? E per cucinare che cosa? Ciò che non possono indovinare è che Spartaco, grazie a quei tralci, riuscirà a far confezionare le scale di cui abbisognano. Appena sono pronte, aspettano la notte e le lanciano nel vuoto. Spartaco è il primo a discendere, gli altri lo seguono a uno a uno, finché si ritrovano tutti in basso dall’altra parte del Vesuvio. Col favore della notte Spartaco li conduce fino all’accampamento di Glabro. La sorpresa è tale che nessuno fa in tempo a dare l’allarme. Un grido, un ordine secco, e brandendo spade, sciabole, tridenti, i gladiatori irrompono nel campo e massacrano i soldati immersi nel sonno. Scorre il sangue, i pochi che riescono a sopravvivere fuggono terrorizzati. Tra questi lo stesso Glabro, che salta su un cavallo e si allontana al galoppo. Non tornerà indietro. Il campo è ora in mano agli uomini di Spartaco, con le sue scorte di carne, di vino, di grano e di denaro.
Nelle campagne, dappertutto, si sparge la notizia di questa impresa che ha del leggendario. Gli schiavi si esaltano, spezzano le loro catene, spinti da un unico desiderio: unirsi a Spartaco. Grazie a Glabro, le armi per rifornirli non mancano. La giovane tracia accoglie i nuovi arrivati e col suo linguaggio vaticinante giura sulla loro invincibilità, ed essi le credono.
L’idea iniziale di Spartaco era quella di marciare su Napoli, sequestrare le navi che occorressero e quindi prendere il largo. Era il sogno mai spento di andare lontano, il più lontano possibile, verso una terra dove poter vivere liberi, fuori del giogo romano. Di fronte a questa massa umana accorsa sotto le sue insegne, sente che il progetto diventa irrealizzabile. Ogni giorno sono centinaia di uomini che vengono ad aggiungersi. Oltre a fuggiaschi isolati, sono alle volte tutti gli schiavi di una città che si riuniscono in gruppo, dopo aver ucciso il loro padrone. Quanti saranno, ora? Spartaco non riesce a contarli! Si tratta, in ogni caso, di migliaia di persone. E, assieme agli schiavi, naturalmente i gladiatori. Hanno udito il richiamo di Capua. A Preneste, a Ravenna, a Pompei, hanno infranto le loro catene, e sono accorsi. È un incrociarsi di tutte le lingue dell’impero, da quelle della Germania a quelle della Gallia, dell’Africa, della Persia, della Macedonia. Questi gruppi spesso si sono dati dei capi, i quali hanno il loro punto di riferimento in Spartaco, che a sua volta esige un’obbedienza assoluta. Criso, che, come previsto, l’ha raggiunto a Capua, sarà il primo luogotenente affiancato da un altro, un tale Onomeo. Ciò che Spartaco ha capito è che, per fare di quella moltitudine informe un esercito, occorre una disciplina assoluta, e si dà da fare, con successo, in questo senso.
La notizia è corsa per tutta l’Italia, ha raggiunto Roma, ha messo in agitazione il Senato. Sicuramente, per far fronte alla minaccia, occorre un esercito, e occorre un capo. Ma i pareri sono discordi. Non è ancora spento il ricordo della dittatura di Silla e non si vogliono più correre rischi di quel genere. E, tuttavia, il problema esiste e va affrontato. così si ripiega sulla scelta di un capo che non presenti problemi e lo si trova nel mediocre Varinio. Si calcola che Spartaco disponga di settemila uomini. Uno scherzo, per Varinio. Le sue legioni avanzano in buon ordine lungo le strade romane. Non ci vorrà molto, egli pensa, ad aver ragione di questa banda di briganti. Arrivato in zona, Varinio invia il suo luogotenente Cassinio a prendere posizione tra Pompei ed Ercolano. All’altro luogotenente, Furio, viene affidato il compito di prendere i gladiatori dall’altro fianco e spingerli contro di lui, Varinio, che mantiene sotto il suo controllo il grosso dell’esercito. Varinio non ha dubbi: schiaccerà ciò che resta di questi ribelli. E anche tra i suoi soldati dilaga l’ottimismo. Cassinio è così tranquillo che, in attesa dello scontro, nella piccola città termale di Salina, si concede alle sue cure abituali. E proprio mentre si sta facendo massaggiare nel suo bagno, gli annunciano che gli uomini di Spartaco, eludendo il piano di Varinio, hanno attaccato per primi, battuto Furio, e stanno ora sfondando le sue linee. Cassinio balza fuori dell’acqua, si copre alla meglio con un accappatoio e fugge per le vie della cittadina. Va ad incappare proprio in un reparto di gladiatori: riconosciuto, viene giustiziato seduta stante.
Quando Varinio riceve la notizia si allarma: vuoi dire dunque che questi ribelli sono una faccenda da prendersi sul serio? Fa disporre le truppe in assetto di guerra, e decide di passarle in rivista. Con sua grande meraviglia si accorge dei vuoti che si sono creati tra i ranghi. Che è successo? Gli spiegano che i soldati, spaventati dalla fama che circonda i gladiatori, hanno disertato in massa. Varinio sente che non è forte abbastanza, e ordina la ritirata. Ma Spartaco non gli da tregua, lo incalza, lo raggiunge, lo sbaraglia. Varinio stesso è costretto a una fuga precipitosa per non finire nelle mani del suo inseguitore. Si rifugia a Cuma. La notizia arriva al Senato, che cade nella costernazione. Chi avrebbe potuto prevedere una cosa simile? E mentre i senatori, come al solito, anziché decidere, discutono, Spartaco guadagna tempo, e si inoltra all’interno della regione montuosa che sta a nord della Campania: una posizione formidabile. Mano a mano che il suo esercito avanza, decine di migliaia di schiavi insorgono al suo passaggio, e vanno ad ingrossare le sue file. Guardano a lui con simpatia anche i piccoli contadini, che covano sogni di riforma agraria. Spartaco come novello Gracco?
Questo è senza dubbio correre un po’ troppo. Per il momento Spartaco si sente prigioniero di questa moltitudine che si è raccolta attorno a lui, e che si aggira ormai intorno ai cinquantamila uomini. Certo, schiavi da liberare ne rimangono ancora, a migliaia. Spartaco ci pensa, ma intende rimanere coi piedi ben saldi sul terreno della concretezza. Il progetto originario è ben vivo dentro di lui e il proposito che ostinatamente ricorre sulle sue labbra è sempre quello: marciare verso il nord, lasciare questa Italia insidiosa e crudele. Nelle riunioni coi suoi luogotenenti domina l’esitazione. Curiosa questa doppia e opposta esitazione, a Roma da una parte, sul campo di Spartaco dall’altra. Criso e Onomeo sono decisamente contrari. Alla fine prevale la decisione di separarsi. La maggioranza, cioè trentamila uomini, seguirà Spartaco, il resto si schiererà sotto il comando di Criso e di Onomeo. Spartaco, fedele alla sua primitiva decisione, marcia verso il nord, lungo la dorsale appenninica, Criso muove verso le Puglie.
A Roma, il Senato si è messo d’accordo: ha deciso che siano i due consoli stessi, L. Gelio Publicola e Cornelio Lentulo Clodiano, ad assumersi il comando dell’esercito, assieme al propretore L. Ario. Otto le legioni messe in campo.
Il primo obiettivo è Criso, che ha al suo seguito diecimila uomini: senz’altro i peggiori elementi dell’esercito di Spartaco, quelli che, mal sopportando la disciplina del trace, hanno scelto la via più facile. Criso li autorizza a depredare, a far razzie, a saccheggiare le città, a massacrare chiunque attraversi la loro strada o mostri qualche parvenza di resistenza. Si vive alla giornata, senza un minimo di strategia. Avanzano in disordine, non curandosi di nulla. Arrivati in una città, arraffano tutto ciò che trovano, quindi l’abbandonano, e via in cerca di altra preda. Quando le aquile romane appaiono, Criso è incapace di opporre loro una resistenza coerente. Quanto a lui, certo si batte, e anche il piccolo manipolo di gladiatori attorno a lui si batte; ma il resto, tutta quella massa abborracciata di predatori, di poveri diavoli, di banditi da strapazzo? Dopo i primi colpi sono ridotti allo sbando. Criso si ricorda della lezione di Spartaco, dell’impresa del Vesuvio. Li vicino c’è una montagna, il Monte Gargano. Perché non cercarvi rifugio e da li sfidare l’assalto romano? Ma non si ripete due volte lo stesso miracolo. Spartaco aveva il controllo pieno delle sue forze. Non è il caso di Criso. I suoi uomini affrontano la salita disordinatamente disperdendosi lungo i fianchi del monte, incalzati da vicino — e presto raggiunti e schiacciati — dalle soverchianti forze romane: trentaduemila uomini. Per l’esercito di Criso è la disfatta. Il loro capo, attorniato da qualche gladiatore, ha potuto raggiungere la vetta, ma i romani non danno loro tregua. Criso, ferito a morte, getta la sua spada infranta in faccia a un soldato che si avvicina per colpirlo, e si abbatte al suolo. I consoli sono ben coscienti che il più difficile resta da fare. Coi suoi trentamila uomini, quanti sono quelli rimasti con lui, Spartaco può mettere in campo una forza pari a quella romana. Inoltre non avranno a che fare con una massa disordinata e confusionaria come quella di Criso, ma con degli uomini armati e ben governati.
Ma dov’è ora Spartaco? Attraverso le montagne d’Abruzzo egli ha raggiunto il Sannio. Siamo in pieno inverno, e il freddo infierisce. Spesso si marcia nella neve. Spartaco, che vede quanto i suoi uomini siano provati, vorrebbe far sosta in qualche città. Ma i movimenti dei romani, sui quali è tenuto costantemente informato grazie a delle spie, lo dissuadono. Infatti le legioni stanno avanzando contro di lui. Perciò decide di continuare la marcia. Quella romana è una manovra di accerchiamento: a nord le truppe al comando di Publicola e di Ario moltiplicano i loro sforzi nel tentativo di sbarrargli la strada, mentre Clodiano lo stringe dal sud. La situazione sembrerebbe disperata, e chiunque altro perderebbe la testa. Ma Spartaco, confermando le sue innate doti di stratega, intuisce subito qual è il punto debole dell’avversario: l’aver diviso le proprie forze. Cosa che egli si guarda bene dal fare; anzi fa esattamente il contrario di quel che ci si aspetterebbe da lui, sventando così l’insidia tesagli. Si getta dapprima con tutto il peso delle sue truppe contro Clodiano, e lo schiaccia. Quindi si lancia verso il nord e sbaraglia le legioni di Publicola. Una volta ancora la vittoria è dalla sua, insieme a un buon numero di prigionieri. Questi si aspettano di essere massacrati, ma hanno la sorpresa di aver salva la vita.
Sono tremila, e vengono raccolti in una valle degli Abruzzi, dove, con grande solennità, Spartaco annuncia alla «sua gente» che, secondo l’antica costumanza, saranno celebrati i giochi funebri in onore di Criso. A tale scopo viene allestito un circo, un grande circo di legno, grande come quello di Capua. I legionari prigionieri cominciano ad allarmarsi, mentre sulle gradinate prendono posto gli uomini di Spartaco. Il tracio alza la mano, e un uomo avanza nell’arena. Fungerà da soprintendente dei giochi. Questi vecchi gladiatori sanno bene come si organizzano queste cose: le hanno provate sulla loro pelle! L’improvvisato soprintendente annuncia che i giochi sono dedicati alla memoria del gladiatore Criso e degli altri gladiatori caduti in combattimento. Si vedono apparire due cavalieri con il capo coperto, che si dedicano alle rituali schermaglie. Seguono due acuti squilli di tromba. I prigionieri romani, che intanto sono stati ammassati sul posto, vengono spinti a due a due nell’arena. Si mettono loro in mano delle armi. Dietro ciascuno dei combattenti improvvisati stanno dei portatori di lance e di torce pronti ad incoraggiarli e pungolarli, caso mai dessero segni di voler sottrarsi al cimento. Piaccia o meno, devono battersi. A poco a poco l’arena si riempie di coppie di soldati costretti ad affrontarsi, chi col tridente, chi con la reticella, chi con l’una o l’altra delle armi tipiche di tali giochi. Quale rivincita per questi gladiatori, poter concedersi oggi il lusso e il gusto di far da spettatori, mentre gli spettatori di ieri sono giù nell’arena! Ogni volta che un soldato romano cade, si rimuove il cadavere e lo si rimpiazza con un altro. I combattimenti vanno avanti per delle ore, finché non ci sarà più un solo prigioniero romano in vita.
Spartaco riprende la via del nord. Perché il nord? Perché è in quella direzione che egli pensa di trovare un paese dove rifugiarsi, sia esso la Germania, o la Gallia, o l’Illiria. Un paese dove vivere in pace, trasformare i suoi guerrieri in agricoltori, essere liberi. Questo rimane sempre il suo profondo desiderio. Ciò che è rimasto dell’esercito romano è un corpo d’armata relativamente forte, diecimila uomini, comandati dal proconsole Cassio Longino. Lo scontro avverrà nei pressi di Modena. Nuova vittoria di Spartaco, e fuga del proconsole.
Ecco ora Spartaco nella pianura padana. Infuria sempre l’inverno. Il problema più urgente è quello dell’approvvigionamento, visto che l’esercito di Spartaco si è nel frattempo ingrossato a dismisura: conta ora centoventimila uomini. Gli schiavi che l’hanno raggiunto sono spesso fuggiti bruciando le fattorie, distruggendo le scorte. Anche il bestiame è stato falcidiato dalla mancanza di foraggio. I piccoli proprietari si sono rifugiati con i loro liberti nelle città. È una situazione paradossale: se tutti gli schiavi si fossero sollevati, in tre giorni gli schiavi avrebbero spazzato via Roma e la sua potenza. Ma non tutti sono insorti. Però formano una massa enorme. Non bisogna dimenticare che centoventimila uomini pongono problemi pressoché insormontabili.
In primo luogo, la fame. Come si può in simili condizioni proseguire la marcia verso il nord? Come passare le Alpi senza adeguati approvvigionamenti? Certo, Spartaco potrebbe decidere di partire con quello che è il suo «vero esercito», i suoi gladiatori, i vecchi compagni di Capua innanzitutto, e gli altri, e abbandonare al suo destino quella massa ingombrante di uomini disarmati, di donne, di bambini. Ma che avverrebbe di loro? Spartaco non se la sente, si rifiuta. E qui si rivela la sua vera grandezza.
Ma una decisione si impone, ed egli decide di ridiscendere verso il sud, verso le terre non rapinate, verso la primavera. Alla notizia del suo dietrofront a Roma si diffonde il panico. Vuole forse prendere la Città Eterna? Potrebbe farlo, ma non lo fa. Sa fin troppo bene quale pericolo rappresenterebbe per lui questa facile vittoria.
Si manda contro Spartaco il pretore Manlio, ma anche lui subisce la stessa sorte degli altri. Che fare? Finalmente al Senato una voce si leva. È quella di Crasso, l’uomo più ricco d’Italia, Crasso «il ricco», come viene denominato. Quest’uomo ha un’unica passione: il denaro. Poiché i suoi beni sono in pericolo, e poiché lo sono quelli dei suoi pari, Crasso ha deciso di affrontare Spartaco. Per fare ciò chiede i pieni poteri.
Per descrivere l’uomo basti dire che un giorno egli era stato accusato di aver corteggiato una vestale, un reato che la legge romana puniva con la morte. Il suo avvocato si era precipitato a dichiarare che si trattava di un malinteso. Il fatto stava in questi termini: la vestale era proprietaria di un vasto e bel parco. Era questo il vero oggetto delle brame di Crasso. Se corteggiava la ragazza era solo perché questa gli vendesse il parco alle migliori condizioni. La reputazione di Crasso era così solida che i giudici non faticarono ad accettare tale spiegazione. Finì che Crasso non solo uscì indenne dalla brutta avventura, ma riuscì ad avere anche il parco.
Il suo impero economico è immenso: grandi proprietà, ricche miniere, un fiorente traffico di schiavi. È stato alleato di Silla, e la guerra civile è stata per lui una fonte di facili profitti. Geloso di Pompeo, ha aiutato Cesare, ma è poi diventato geloso anche di costui. Ora Pompeo e Cesare sono all’estero. Quale migliore occasione per soddisfare la sua ambizione? In questo contesto egli si offre per marciare su Spartaco. I senatori si lasciano facilmente convincere e gli decretano i pieni poteri. Senza dubbio confidano nella sua ben nota spietatezza. Una volta, dopo un combattimento, aveva voluto l’esecuzione di ottomila prigionieri.
Crasso non perde tempo e mette in piedi un corpo di spedizione composto da dieci legioni. Quattro sono formate da soldati di mestiere, le altre sei sono un coacervo di recluto sommariamente addestrate. Anche le truppe di Spartaco sono un ammasso di gente raccogliticcia, ma con la differenza che è mossa e tenuta insieme da una spinta ideale, diciamo da una fede. Crasso manda innanzi il legato Mummio, che si fa regolarmente battere. Due legioni sono in rotta. Crasso le raggiunge di persona, preleva cinquecento uomini, che suddivide in cinquanta decine. In ogni decina si tira a sorte un uomo, che viene messo a morte. È il metodo della disciplina ottenuta attraverso il terrore. Al tempo stesso, studia la tattica di Spartaco, e nota che il gran numero di persone al suo seguito non gli permette più di muoversi con la celerità di un tempo. Ed è vero. Spartaco, che prosegue la sua marcia verso il sud, avverte che non ce la farà mai se l’orda che gli sta dietro gli rimane attaccata. Allora si decide a fare ciò che non ha mai fatto: divide le sue forze in tanti tronconi, che affida ai suoi luogotenenti. È facile per Crasso gettare su di essi il peso delle sue legioni e batterli. Per la prima volta l’esercito di Spartaco subisce uno smacco. Il tracio capisce la lezione. Raggiunge Turi, città fortificata del sud della Puglia, e vi stabilisce un campo trincerato. Sa di poter contare sul meglio delle sue truppe. Prima di affrontare Crasso, si dedica a un intenso lavoro di addestramento militare: ogni giorno esercitazioni, marce, manovre. Deve assolutamente avere ai suoi ordini una forza che sia come il ferro di una lancia, consapevole com’è — e come lo sono i suoi uomini — di avere a che fare con un uomo implacabile. Tutti gli schiavi che Crasso ha sconfitto e catturato, li ha messi a morte. Non uno è sopravvissuto.
Il piano di Spartaco è semplice. Appena saranno pronti, raggiungeranno la Sicilia, e là si trincereranno in modo tale che le legioni non potranno nemmeno sbarcarvi. È là che troveranno quella libertà a cui tutti così ardentemente aspirano.
L’esercito di Spartaco lascia Turi, avanza alla volta di Bruzio. Al tempo stesso, il trace ha inviato degli emissari ai capi dei pirati che, da sempre, terrorizzano il Mediterraneo. Poiché, per raggiungere la Sicilia, bisogna attraversare lo stretto di Messina, occorrono delle navi; ed è evidente che le imbarcazioni dei pescatori, di cui ci si potrà impadronire nei vari porti, saranno insufficienti per trasportare diverse decine di migliaia di uomini. Nel Mediterraneo, c’è una sola flotta che possa tener testa ai romani: quella dei pirati. Ciò che Spartaco vuole è stabilire con loro un accordo, in modo che trasportino lui e i suoi in Sicilia. Intanto sono arrivati a Reggio (l’attuale Reggio Calabria). Attendono con impazienza i pirati: i loro capi si sono impegnati. Da un giorno all’altro le loro navi dovrebbero apparire all’orizzonte. In realtà, non arriveranno mai. Che è accaduto? Il propretore di Sicilia, Verre, celebre per le invettive che Cicerone promuoverà più tardi contro di lui, intrattiene benevoli rapporti con i pirati. Cicerone d’altronde non mancherà di rinfacciarglielo, mostrandosi in ciò molto ingiusto, visto che proprio grazie a tali rapporti Verre aveva potuto salvare la Sicilia. Quando Verre viene a sapere che i pirati erano disposti a trasportare in Sicilia i ribelli di Spartaco, parla con i loro capi, gli spiega che non è nel loro interesse aiutare i ribelli, e che, se vi avessero rinunciato, egli, Verre, avrebbe saputo esser loro riconoscente. Era come fargli capire che avrebbero potuto continuare impunemente nelle loro scorrerie. I capi dei pirati non hanno esitazioni, rinnegano la parola data a Spartaco. Egli non li vedrà mai gettare l’ancora davanti a Reggio. Sfortunatamente, in attesa delle navi, l’esercito al completo si è accalcato nell’istmo, un istmo angusto. Crasso, che nel frattempo si è avvicinato, si rende subito conto che per la prima volta Spartaco è alla sua mercé. Fa sbarrare l’istmo mediante un fossato munitissimo, con fascine, torri e parapetti, per cinquantacinque chilometri di lunghezza e quattro metri e cinquanta di larghezza. Spartaco è bloccato.
Passa così l’inverno 72-71. Spartaco ha trovato rifugio nelle alture boscose dell’Aspromonte. Incombe lo spettro della carestia, e con essa serpeggia la rivolta. Spartaco arringa i suoi uomini: morire di fame sarebbe disonorevole, bisogna attaccare, tentare una sortita. La massa, ancora considerevole, dell’esercito di Spartaco si lancia contro il fossato e le sue fortificazioni. È un tentativo disperato. Dodicimila schiavi rimangono sul terreno. Spartaco ha fallito la sua ultima manovra. Ripone ora tutte le sue speranze in un incontro con Crasso. Crasso acconsente a riceverlo. È uno strano incontro, questo che vede faccia a faccia due uomini così diversi, così contrastanti: l’ex schiavo, l’ex gladiatore che si è rivelato un trascinatore di folla, che ha fatto tremare Roma, e l’uomo più ricco della Repubblica, e il più inesorabile. Ciò che Spartaco vuole ottenere, è che si lascino uscire le sue truppe dall’Italia. Fuori d’Italia, troveranno certamente delle terre vergini e vi fonderanno uno Stato. Perché Crasso non dovrebbe accettare le sue proposte? Ciò che Crasso voleva non era forse di liberare l’Italia dagli schiavi ribelli? Lui, Spartaco, si farà garante di condurli molto lontano. Crasso ha ascoltato con una indifferenza venata di disprezzo. Non tratta forse con dei ribelli, e quegli schiavi sono dei ribelli. Tutto ciò che Crasso può proporre è che si arrendano. Si vedrà poi quale potrà essere la loro sorte. Una sconfitta, dunque, e totale. Spartaco ritorna nell’istmo. Riflette. Bisogna uscire da quella stretta. Deve assolutamente trovare il modo. Non è possibile che in una difesa che si estende per una cinquantina di chilometri non esista un punto debole, una falla. Si tratta di scoprirla, e Spartaco si mette a cercarla. Sguinzaglia per questo le sue spie. E infine trova un punto dove il fossato si presenta meno protetto. Con del materiale improvvisato, e col favore della notte e del freddo, un distaccamento tenta il passaggio, e ce la fa. Una volta dall’altra parte, avanza in silenzio fino agli avamposti di Crasso. I romani, sorpresi, vengono colti dal panico. Crasso crede che tutto l’esercito di Spartaco abbia attraversato il fossato. Mobilita i suoi uomini, sguarnisce le difese, si lancia verso l’interno. Spartaco, vedendo il fossato libero dalle protezioni, vi fa passare tutto il suo esercito, lo riunisce, si ricollega al primo distaccamento, si getta sulle legioni di Crasso e le schiaccia. La vittoria è di nuovo dalla sua.
Al Senato, Crasso riconosce la sua sconfitta, e chiede di richiamare Pompeo dalla Spagna e Lucullo dalla Macedonia. Quanto a Spartaco si è stabilito in Calabria. Lì, almeno, si mangia a volontà, ci si distende, si ricordano le avventure passate, i tanti sforzi. Sforzi per arrivare a che cosa? Quali sono le intenzioni di Spartaco? Che cosa si ripromette di fare, che progetti ha sul loro futuro? La disciplina si rilassa. Voci ostili cominciano a farsi sentire, cresce il malcontento. Risultato: una nuova scissione. Due luogotenenti di Spartaco, Casto e il germanico Gannico, si rivoltano. Vogliono riprendersi la loro libertà. Pieno di amarezza, Spartaco li lascia fare ed essi si allontanano portandosi dietro quelle truppe che hanno deciso di seguirli. Non passa molto tempo e le bande dissidenti vengono schiacciate a una a una da Crasso, finché di loro non rimane più nulla. Crasso manda il legato Quinzio contro Spartaco stesso che, una volta ancora, lo annienta. Una certa paura comincia a invadere l’animo di Crasso. È dunque decisamente invincibile, questo Spartaco? Crasso invia dei messaggeri a Lucullo, che provenendo dalla Macedonia nel frattempo è sbarcato, gli chiede dei rinforzi, mette le sue truppe in stato di difesa. I due eserciti, quello di Crasso e quello di Spartaco, si osservano. Frattanto giunge la notizia che Pompeo sta per rientrare in Italia dalla Spagna con il suo esercito, il che significa che a Spartaco è ormai preclusa ogni via di scampo. Crasso dovrebbe rallegrarsene, ma non è così. Al contrario, il pensiero che Pompeo si attribuirà tutto il merito della vittoria lo manda in collera. Non gli resta che affrettarsi ad attaccare Spartaco, senza indugio.
Questa volta Crasso rinuncia a manovrare secondo le buone regole militari. Poiché la specialità di Spartaco è l’irruenza degli assalti, Crasso decide di comportarsi allo stesso modo. È una lotta senza esclusione di colpi, all’ultimo sangue. Fin dal primo assalto, Spartaco è ferito a una coscia per una freccia. Non si abbatte, sprona i suoi, corre da un capo all’altro. È continuamente esposto al pericolo, continuamente lo prendono di mira. Lo accerchiano. Si libera, fa a pezzi i suoi nemici. Alla fine, il suo esercito cede, si sfascia. Un gruppo di legionari lo circonda. Appoggia un ginocchio a terra, poiché, sfinito, non riesce più a reggersi in piedi. I colpi grandinano su di lui. La mischia è stata così cruenta che non si ritroverà più neanche il suo cadavere.
Crasso ha fatto seimila prigionieri. Seimila croci celebreranno il suo ritorno lungo la strada da Capua a Roma. E sopra queste croci verranno inchiodati i seimila prigionieri. Pompeo finirà di annientare le poche bande superstiti. Il Senato voterà per lui il trionfo, mentre Crasso avrà diritto all’ovazione.
Come ha riconosciuto Tacito, di Spartaco si parlerà a lungo in Italia: la sua memoria sarà viva sia tra gli oppressori — che avevano tremato —, sia tra gli oppressi, che avevano creduto alla loro liberazione. Gli schiavi continueranno a subire, ad attendere, talvolta a sperare. Colui che un giorno avrebbe pronunciato nei loro riguardi parole d’amore, il Cristo, troverà tra gli schiavi i suoi primi fedeli e i suoi migliori proseliti.
(Traduzione di Mirka Soltoggio)