Due date racchiudono simbolicamente il biennio della rivoluzione nazionale italiana: il 12 gennaio 1848, con l’insurrezione palermitana che costrinse il Borbone a concedere la costituzione, e il 25 agosto 1849, con la resa di Venezia, ultimo baluardo della rivoluzione.
Le vicende di quel biennio si intrecciano con quelle della vasta ondata rivoluzionaria che dal febbraio 1848 toccò Parigi, Berlino, Vienna e Budapest e fece vacillare mezza Europa.
Ma se è vero che i fatti europei influenzarono quelli italiani (in particolare le notizie che arrivavano da Vienna), sarebbe un errore considerare il Quarantotto europeo un fenomeno unitario e univoco. Soprattutto sarebbe sbagliato cercare di spiegare le vicende italiane solo alla luce delle contemporanee vicende europee. Diversi furono, nazione per nazione (e a volte città per città), i motivi e gli obiettivi di quelle rivoluzioni, diversi gli uomini che vi parteciparono e diversi i risultati che ottennero. Inoltre il Quarantotto italiano, al di là delle peculiarità dello sviluppo del movimento nazionale, presenta caratteristiche sue proprie. In primo luogo l’assenza di rivendicazioni sociali (se non in casi sporadici e ben circoscritti), presenti invece in Francia e, in misura minore, nella rivoluzione viennese; poi il fatto che gran parie della lotta per l’indipendenza fosse costruita su costituzioni che ricalcavano il modello francese, concesse proprio quando la monarchia di luglio – che su quella costituzione si fondava – veniva abbattuta dagli insorti parigini; ancora, la conduzione di una guerra regia di liberazione dallo straniero; infine l’inusitata durata di quella rivoluzione, che in Italia vide l’iniziativa passare ai democratici proprio mentre altrove in Europa i focolai rivoluzionari si stavano spegnendo. Pur nelle differenze notevoli che caratterizzarono i vari Stati italiani si possono distinguere nella rivoluzione nazionale due fasi. La prima vide i moderati cercare di tenere le redini della rivoluzione e si esaurì con la sconfitta di Custoza e il tramonto della politica neoguelfa di una federazione fra i sovrani. La seconda vide l’iniziativa passare ai democratici e dimostrò che il Risorgimento non sarebbe stato rivoluzionario e nazionale”. Perseguire questa doppia anima del 1848 – e del Risorgimento – conviene dunque ripercorrere a grandi linee l’affermazione dei due partiti, il moderato e il democratico, nell’Italia della Restaurazione.
PENSIERO E AZIONE
Nell’estate del 1831 la diffusione in copie litografiche della Istruzione generale per gli affratellati della Giovine Italia annunciava la nascita di una nuova organizzazione. Il fondatore era Giuseppe Mazzini, un giovane esule genovese di ventisei anni. Gli obiettivi della Giovine Italia si riassumevano in tre parole: unità, indipendenza, repubblica. Il compito degli affratellati era chiaro: raggiungere con tutte le loro forze quegli obiettivi che dovevano far saltare l’ordine italiano così come era uscito dalla sconfitta di Napoleone e dal Congresso di Vienna. I mezzi a loro disposizione erano essenzialmente due: l’educazione e l’insurrezione. E proprio nel binomio educazione-insurrezione era la nota determinante del pensiero mazziniano rispetto al passato. Il problema italiano era un problema di educazione nazionale; là, tra il 1820 e il 1831 avevano fallito i moti di Napoli, di Torino e di Modena e le società segrete si erano da sole condannate alla sconfitta.
Per Mazzini l’Italia era vicina alla rivolta e gli uomini della Giovine Italia dovevano instillare l’idea insurrezionale, provocare la scintilla della rivolta e operare in modo da assumerne la direzione. Una volta diffusa l’idea nazionale, l’insurrezione sarebbe nata spontaneamente; la Giovine Italia doveva creare le condizioni perché essa scoppiasse.
E questa volta l’insurrezione avrebbe finalmente avuto un carattere popolare e nazionale, senza appagarsi, come era accaduto fino ad allora, dell’appoggio di una sola classe. Un’insurrezione che aveva come obiettivo l’indipendenza, ma anche il principio della rivoluzione, e che doveva essere essa stessa motivo di educazione popolare. Fare l’Italia e fare gli italiani, insomma, non erano che le due facce di uno stesso problema.
La Giovine Italia voleva essere un partito in esilio e come tale voleva agire. Il primo obiettivo era far parlare di sé, in ogni modo: la propaganda, il continuo invio di pubblicazioni clandestine verso i porti italiani, avrebbero assorbito gran parte delle energie del gruppo di esuli.
Mazzini in realtà sopravvalutava, e sopravvalutò sempre, la reale capacità di penetrazione del proprio messaggio e della propaganda che la Giovine Italia, coi mezzi rudimentali a sua disposizione, poteva fare. Così come sempre sopravvalutò, ma con lui tutto il movimento rivoluzionario italiano, le possibilità di suscitare la scintilla dell’insurrezione attraverso un pugno di uomini decisi a tutto. I risultati che la Giovine Italia raggiunse fra il 1832 e il 1833 furono straordinari se solo si pensa al modo in cui quegli uomini erano costretti a lavorare. Rimasero però insufficienti – e gravemente – per gli obiettivi che Mazzini indicava.
MAZZINI HA SUCCESSO IN CITTÀ, MA LE CAMPAGNE GLI RIMANGONO ESTRANEE
La Giovine Italia si diffuse in Piemonte, in Toscana, nei territori pontifici; dalla Svizzera penetrò nel Lombardo-Veneto; la sua organizzazione collegò gli universitari di Pisa e Pavia, la piccola borghesia delle Marche e i professionisti della Romagna, i portuali di Genova e di Livorno a quelli di Venezia; a Roma trovò risposta nei quartieri popolari di Trastevere e fra gli artigiani dei rioni Ponte e Regola; si sovrappose alla vecchia rete settaria, assorbendo elementi tradizionalmente vicini alle società segrete. Ma fu una diffusione a macchia di leopardo, legata alla città.
La Giovine Italia superò per entusiasmo e chiarezza di intenti le vecchie organizzazioni: il suo programma, sintetizzato nei termini essenziali di unità, indipendenza, repubblica, si fece conoscere rapidamente. Ma raggiunse presto quelli che erano i limiti fisiologici della sua espansione: studenti, piccola borghesia, artigiani e, dove c’erano, i primi operai specializzati. Una popolazione cittadina che spesso intrecciava alle speranze di un rivolgimento politico le proprie ambizioni personali e i propri sentimenti di rivalsa. In questo l’astrattezza di fondo del pensiero mazziniano si rivelava in tutta la sua gravità.
Era soprattutto lo scarso interesse di Mazzini per i problemi sodali ed economici dell’Italia a relegare l’opera di propaganda della Giovine Italia alla cinta urbana. La mancanza di una chiara parola d’ordine sociale impedì sempre che il mazzinianesimo, e con esso gran parte del movimento democratico del Risorgimento, saldasse in un fronte unico la piccola borghesia e i contadini. Un’operazione difficile, che poteva avvenire solo temporaneamente e solo a determinate condizioni, sulla base di un comune malcontento; ma un’operazione necessaria per la rivoluzione.
NELLA RETE DI CARLO ALBERTO: DAI PROCESSI IN PIEMONTE AL FALLIMENTO IN SAVOIA
Nell’aprile del 1833 la Giovine Italia incappò nelle maglie della occhiuta polizia sabauda. L’indagine nelle maggiori piazze militari del Piemonte di Carlo Alberto scoperchiò il formicaio repubblicano: a Genova, ad Alessandria, a Chambéry, a Torino, ovunque saltarono fuori fogli clandestini a firma di Mazzini, armi, nomi, indirizzi. L’indagine toccò Cuneo, Vercelli, Mondovì e poi si estese a Nizza e al versante francese del Regno di Sardegna; la polizia del ministro Tonduti dell’Escarena mandò in pezzi l’intera struttura della Giovine Italia: sessantasette persone furono arrestate e oltre duecento dovettero sottrarsi all’arresto riparando oltre il confine.
Fu un colpo terribile, che minò a lungo la capacità d’azione dei repubblicani. Ai militari che conducevano le indagini fu chiesto di agire col massimo zelo e lo stesso re fece in modo di intervenire presso i giudici per ottenere condanne esemplari. I processi si trasformarono in una farsa. Alla fine le sentenze esemplari contro una rivoluzione che non c’era mai stata ci furono: nel giugno del 1833 furono eseguite undici sentenze capitali e altre quattordici condanne a morte furono inflitte in contumacia, fra cui quella contro Mazzini.
A completare il naufragio della Giovine Italia venne, l’anno dopo, la fallimentare spedizione in Savoia. Dalla Svizzera, dove s’era rifugiato dopo i fatti del Regno di Sardegna, allorché la sua posizione in Francia era diventata insostenibile, Mazzini intendeva penetrare con una colonna di fuorusciti italiani, polacchi, tedeschi e francesi in Italia, suscitando l’insurrezione in Savoia; a Genova, l’ammutinamento di alcuni equipaggi della flotta sarda avrebbe dato il segnale della rivolta alla città. Male organizzato e condotto ancora peggio, quel tentativo si risolse in un fiasco colossale.
La colonna di mazziniani (guidata da Gerolamo Ramorino, ex ufficiale napoleonico ed ex ufficiale della rivoluzione polacca, la cui sciabola era al servizio di ogni rivoluzione) si aggirò per qualche ora lungo i confini della Savoia; poi, visto che tutto rimaneva calmo e si annunciava l’arrivo dell’esercito regio, Ramorino rimandò tutti a casa. A Genova, tutto era rimasto tranquillo.
I processi di giugno avevano dissolto la rete mazziniana in Piemonte, i repubblicani genovesi erano in ginocchio, l’esercito sardo epurato e fedele alla monarchia: la spedizione in Savoia non meriterebbe neppure di essere ricordata, con la sua mesta conclusione; ma essa fu paradigmatica del modo in cui si sarebbero svolti i successivi tentativi mazziniani di provocare l’insurrezione e scatenare la scintilla. Tutti falliti nel peggiore dei modi.
Il risultato più importante di quel disastro si sarebbe visto solo a distanza di anni. Fu in occasione del fallito tentativo di sollevare gli equipaggi della flotta di Genova che Giuseppe Garibaldi, allora marinaio della fregata De-Geneys, dovette abbandonare l’Italia.
IL SUCCESSO PIÙ IMPORTANTE: COSTRINGERE I MODERATI A USCIRE ALLO SCOPERTO
Mazzini era battuto. Nell’aprile del 1834 aveva ancora la forza di fondare a Berna, insieme al gruppo degli esuli tedeschi e polacchi, la Giovine Europa; era un tentativo di riaffermare l’esistenza di un’Europa dei popoli capace di opporsi all’Europa dei sovrani, che pur nell’altezza ideale rimase senza alcun seguito pratico.
Mazzini rimase ancora qualche tempo in Svizzera; poi, nel 1837 approdò in Inghilterra da dove avrebbe ripreso il suo infaticabile lavorìo fra gli esuli, tenendo contatti con Malta, con Parigi, con le Americhe; avrebbe fondato nuovi giornali, cercato appoggi fra i radicali inglesi, svolto una propaganda incessante in favore della causa repubblicana e nazionale. Ma sempre più lontano dal suo Paese, sempre meno capace di afferrare il bandolo della matassa italiana.
Mazzini aveva dato all’idea nazionale, fino ad allora informe e vaga, una coerenza e un vigore sconosciuti. Con lui i democratici avevano trovato un capo che, se non era il più lucido, possedeva un carisma sconosciuto a quanti vennero dopo. Aveva intuito che la questione nazionale chiedeva nuovi metodi di lotta e che essa si sarebbe combattuta anche sul terreno della educazione degli italiani. Tutto questo non era bastato. La sconfitta della Giovine Italia era netta e dall’Italia non erano arrivati segnali di risposta. Eppure in Italia ormai tutti conoscevano le idee dei democratici, anche se erano in pochi a essere repubblicani. Si sapeva che esisteva un movimento democratico che lavorava per un obiettivo nazionale e unitario, e che esso poteva costituire un pericolo non solo per i conservatori e gli austriaci, ma anche per i moderati.
Mazzini usciva sconfitto e in modo grave. Ma la corrente democratica da allora avrebbe rappresentato una costante alternativa all’Italia “dei governi”; e il nascente partito moderato ne prese subito atto. In questo senso l’opera di Mazzini risultò determinante, giacché essa fu di stimolo costante all’evoluzione in senso liberale della borghesia e dell’aristocrazia italiane. Le energie così rapidamente e-vocate da Mazzini si sarebbero dirette diversamente da come egli aveva creduto; ma c’erano, e di esse non si poteva più fare a meno.
LE SPERANZE D’ITALIA
Tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta dell’Ottocento si assisté in Italia alla formazione di un forte partito moderato, che poneva tra i suoi obiettivi l’indipendenza dall’Austria, ampie riforme costituzionali e una maggiore unità, economica se non politica, fra gli Stati italiani. A quel fenomeno, determinante per la storia del Risorgimento, contribuirono in varia misura fattori diversi.
Innanzi tutto la crescita economica, che durò almeno fino al 1846, fece sì che la borghesia italiana sentisse in pieno l’insufficienza delle strutture della Restaurazione e il bisogno di maggiori libertà politiche. Poi una campagna culturale e letteraria in vari Stati italiani, che intrecciava il motivo dell’indipendenza con quello del progresso, riuscì a coinvolgere nel movimento nazionale fasce pili ampie della popolazione, tra cui i i cattolici. Infine il persistere dei tentativi mazziniani negli anni Quaranta, mantenendo viva la minaccia “da sinistra”, contribuì in modo determinante alla formazione di una solida componente liberale, antiaustriaca e antirivoluzionaria.
LA CRESCITA DELLA BORGHESIA NELL’ITALIA A DUE MARCE DIVISA FRA NORD E SUD
L’Italia era un paese ancora essenzialmente agricolo: era però sempre meno un paese di contadini. Sulle campagne si erano infatti riversati i capitali della borghesia, fino ad allora rimasti inutilizzati o reinvestiti solo in parte nel commercio, un’attività ormai in crisi. Il fenomeno, generalizzato e non solo italiano, che fino al 1846 trasse ulteriore impulso da una favorevole congiuntura europea, ebbe effetti diversi sulle varie regioni italiane. Dappertutto comunque una nuova classe di proprietari affiancò la vecchia, in parte soppiantandola, in parte integrandosi con essa. L’afflusso di nuovi capitali si tradusse, di fatto, in un generale peggioramento delle condizioni di vita dei contadini, che si ritrovarono a essere affittuari di terreni a canoni altissimi, che mai sarebbero riusciti a pagare, e sprofondati in una situazione di cronica dipendenza economica.
Nella Francia dell’Ottantanove l’alleanza temporanea fra la borghesia e i contadini era stata determinante per il successo della rivoluzione. Nell’Italia dell’Ottocento quell’alleanza non era più possibile: la borghesia aveva radicato nelle campagne i propri interessi e non aveva più motivo di chiedere una ridistribuzione delle terre, oltre a quella dalla quale aveva ottenuto già, senza rivoluzione, ciò che voleva. Le strade della borghesia e dei contadini ormai divergevano: quella della borghesia portava alla Costituzione e, in prospettiva, all’Unità, ma senza passare per la riforma agraria. Mazzini non aveva torto a temere che una rivoluzione sociale sarebbe sfociata inevitabilmente nella guerra civile.
Il ricambio nella classe dei proprietari, la conquista di un ruolo preminente da patte della borghesia, erano avvenuti nel Regno in modo ben diverso che altrove. Nel Lombardo-Veneto (in Lombardia più che nel Veneto), in Piemonte e, in misura minore, in Toscana, l’integrazione fra vecchi e nuovi proprietari aveva portato l’aristocrazia ad accettare i nuovi criteri di produzione della borghesia che, a sua volta, aveva assorbito il gusto e l’interesse per la terra e per gli affari di governo dei vecchi proprietari. Lo dimostrava chiaramente l’attenzione della nobiltà liberale per il modello politico inglese e ancor più per quello della Francia di Luigi Filippo e Guizot: era in qualche modo un’integrazione verso il basso.
Al contrario, nell’Italia meridionale quell’integrazione aveva spinto la borghesia verso l’alto, su posizioni di conservatorismo economico. I nuovi proprietari erano rivolti a perpetuare una conduzione agricola stancamente ripetitiva ed estensiva, uniformando la propria condotta su quella della nobiltà che avevano preso a modello. Si instaurò così una solidarietà di fondo tra la borghesia meridionale e l’aristocrazia che avrebbe segnato il destino dei Borbone, quando nel 1860 i “galantuomini” voltarono le spalle al re e sposarono in blocco la politica moderata, dopo aver avuto assicurazioni sulle reali intenzioni quanto a una riforma agraria del nuovo Stato.
Nel 1818 il primo piroscafo che aveva solcato il Mediterraneo era un vapore della marina borbonica; nel 1835, diciassette anni dopo, i piroscafi entrati in linea erano soltanto tre. Il 3 ottobre 1839 fu inaugurata la prima tratta ferroviaria italiana, dal ponte Carrione al Granatello; erano passati solo nove anni dalla prima ferrovia Liverpool-Manchester. Ma il traffico ferroviario fra la capitale e Castellammare fu aperto solo nel 1844 e nel 1860 Napoli era collegata solo con Salerno e Caserta. Primo in Italia il Regno aveva avuto l’illuminazione stradale a gas, la ferrovia, il vapore; erano solo successi di facciata, dietro ai quali c’era il vuoto.
IL PRIMATO DI GIOBERTI AFFRANCA I CATTOLICI DAL PARTITO DEI CODINI
Pur se in questi limiti, la crescita dell’Italia fu determinante per la costituzione di un forte partito moderato interessato a un cambiamento in senso costituzionale e liberale negli Stati italiani. In Italia come in Europa la borghesia cercava ormai un riconoscimento politico alle vittorie economiche che il sistema della Restaurazione non poteva dare.
È su questo fertile e indistinto terreno che si inserirono alcuni elementi che agirono sul partito moderato come un potente catalizzatore: la pubblicazione del Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti, il fallimento dell’iniziativa mazziniana, la virata antiaustriaca della monarchia sabauda.
Il Primato morale e civile degli italiani fu pubblicato nel maggio 1843 a Bruxelles; farraginoso e ripetitivo, aveva un grande merito: faceva appello all’opinione cattolica, collegando progresso e cattolicesimo, Chiesa e liberalismo, papato e sentimento nazionale. Il libro non faceva parola della presenza austriaca in Italia e rimandava a tempo indeterminato la creazione di una possibile federazione fra gli Stati italiani guidata dal pontefice.
Mazzini commentò: «Ho veduto il libro del Gioberti. Non credo ben fatto parlarne. E un dargli importanza: lo leggeranno in pochissimi per la veste filosofica di che lo ha rivolto». Le 1500 copie in cui il Primato fu stampato andarono invece subito esaurite e Mazzini si sbagliava di grosso sull’impatto che esso poteva avere in Italia dove, salvo che nel Lombardo-Veneto, l’opera di Gioberti poteva circolare liberamente. E quel che più conta, al di là della reale diffusione del programma neoguelfo (come da allora si chiamò la tendenza a creare uno Stato federativo italiano guidato moralmente se non politicamente dal pontefice), è che le idee esposte dal Gioberti, moltiplicate e distorte nei caffè e nei circoli letterari, anche da chi il libro non aveva letto, qualificavano politicamente il cattolicesimo in un Paese profondamente cattolico.
Ora anche l’opinione cattolica italiana aveva un motivo per collegarsi al movimento moderato nell’invocare una riforma politica e nel coltivare l’idea nazionale. La delusione del pontificato di Pio IX avrebbe presto frantumato il sogno di un Risorgimento nel segno di Roma; ma il distacco definitivo di parte dei cattolici dal partito reazionario e austriacante e la loro definitiva conquista alla parte moderata furono un elemento determinante per le successive vittorie della causa nazionale.
LA PAURA DI MAZZINI SPINGE I MODERATI A CERCARE UN’ALTERNATIVA
Un’ulteriore quanto involontaria spinta alla formazione di un’opinione moderata venne da Mazzini e dai repubblicani. Lontano dall’Italia, Mazzini doveva affidarsi a una serie di collegamenti segreti e a una complicata rete di esuli e rivoluzionari spesso inefficienti quanto inaffidabili. I moti che Mazzini cercava di suscitare, il più delle volte destinati di per sé all’insuccesso, finivano nel nulla per l’incapacità degli stessi organizzatori e a volte il meccanismo insurrezionale si metteva in moto senza che Mazzini ne sapesse nulla o addirittura senza il suo consenso.
Nel 1843 un complicato disegno di insurrezione, che aveva il suo centro in Romagna e doveva collegarsi al Regno delle Due Sicilie e alla Toscana, finì in un fiasco; la reazione pontificia fu più dura del solito e oltre a un centinaio di condanne alla prigionia si contarono sette condanne a morte, tutte eseguite.
Non era passato nemmeno un anno che, nel luglio 1844, Attilio ed Emilio Bandiera venivano fucilati, insieme a sette compagni, nel vallone di Rovito, nei pressi di Cosenza. I due, che avevano disertato dalla Marina austriaca e si erano rifugiati a Corfù, avevano cercato con non più di venti uomini di sollevare la Calabria contro il governo borbonico. Quell’improbabile tentativo si era svolto nella più totale indifferenza della popolazione.
Mazzini aveva disapprovato sia l’organizzazione dei moti romagnoli del 1843 che la sconsiderata impresa dei Bandiera; ma quei morti ricaddero comunque su di lui. Le responsabilità dell’insuccesso vennero infatti attribuite per intero al solo Mazzini, accusato di mandare i suoi “al massacro mentre egli rimaneva al sicuro a Londra. Quei fallimenti e quella lunga catena di morti convinsero però i moderati che per evitare la rivoluzione non bastava più l’uso della forza, ma si doveva trovare una strada per toglier l’iniziativa ai democratici. Il tamburo di Mazzini aveva ottenuto, suo malgrado, il risultato più importante: costringere i moderati a uscire allo scoperto.
LE SPERANZE DEI MODERATI: UN REGNO DELL’ALTA ITALIA IN UNA FEDERAZIONE DI RE
Il terzo elemento che svolse la funzione di catalizzatore dell’opinione moderata fu la progressiva virata verso una politica nazionale e antiaustriaca (il che non vuol dire liberale) del Regno di Sardegna. Nel 1844 veniva pubblicato Le speranze d’Italia, di Cesare Balbo. Il libro, accolto da un successo pari a quello del Primato, viene generalmente ricordato per l’aver prospettato una soluzione al problema nazionale attraverso un compromesso internazionale, che compensasse l’Austria delle perdite in Italia con alcune acquisizioni territoriali nei Balcani. Ma, come per il Primato di Gioberti, l’importanza de Le speranze d’Italia va ben al di là delle tesi espresse dal suo autore.
Due erano infatti i punti essenziali del suo pensiero e sui quali si sarebbe incentrata la discussione negli anni a venire. Innanzi tutto per Balbo l’Austria in Italia era il principale avversario di qualunque cambiamento, in quanto custode dell’ordine del 1815 e in quanto la sua presenza era un freno all’autonomia dei sovrani italiani. Quell’ordine, stabilito a Vienna trent’anni prima, andava cambiato con un nuovo assetto europeo. Il problema italiano era dunque innanzi tutto una questione di indipendenza dallo straniero; non cioè come in Mazzini, e in generale per il movimento democratico, una questione di rinnovamento intimo della nazione.
Inoltre Balbo additava nella ripresa di una politica più dinamica del Regno di Sardegna la condizione necessaria per creare un futuro Regno dell’Alta Italia, capace di guidare una confederazione fra gli Stati italiani: il programma nazionale diventava così anche programma monarchico e sabaudo.
Nel 1845 Massimo d’Azeglio, noto fino ad allora come pittore e autore di romanzi storici di successo (Ettore Fieramosca e Niccolò de’ Lapi), oltre che per aver sposato prima la figlia e poi la cognata del Manzoni, compì un viaggio in Romagna. D’Azeglio era amico di Balbo e vicino alla politica dei moderati piemontesi; quel viaggio aveva lo scopo di prendere contatto con l’opposizione nei territori pontifici per sondare le possibilità di successo della propaganda moderata.
Il terreno si rivelò favorevole al di là di ogni previsione: le Romagne erano pronte a insorgere ancora, ma erano stanche e sfiduciate per gli insuccessi dell’organizzazione mazziniana; il vuoto che si stava formando avrebbe potuto essere facilmente colmato.
Quando, proprio nel 1845, un nuovo tentativo di insurrezione toccò Faenza, Rimini e Bagnacavallo, si vide il terreno che la causa moderata aveva ormai guadagnato. Gli insorti diffusero infatti un “Manifesto delle popolazioni dello Stato romano ai principi e ai popoli d’Europa” in cui chiedevano al papa di-accettare una serie di riforme riguardo all’amministrazione dello Stato pontificio e una revisione dei codici penali in cambio della piena accettazione della sovranità del pontefice. Quelle richieste non avevano nulla di rivoluzionario ed era ormai chiaro che anche parte dello schieramento democratico era pronta ad accettare un programma minimo di riforme, accantonando la pregiudiziale unitaria, per non dire di quella repubblicana.
Il moto fu rapidamente disperso ma offrì a D’Azeglio l’occasione di scrivere quello che può essere considerato il vero manifesto del moderatismo alla vigilia del 1848: Degli ultimi casi di Romagna. Il libretto, prima della sua uscita, venne discusso dagli ambienti moderati toscani, piemontesi e dello Stato Pontificio, che lo corressero e fornirono suggerimenti all’autore.
FARE LE RIFORME PER NEUTRALIZZARE MAZZINI E PREPARARE L’INDIPENDENZA
Degli ultimi casi di Romagna sosteneva la necessità di rinunciare all’insurrezione armata in favore di una «congiura alla luce del sole». Si doveva cioè puntare sulla formazione di un vasto movimento di opinione pubblica capace di ottenere le riforme amministrative; solo così il movimento nazionale italiano avrebbe ottenuto la simpatia delle potenze europee e avrebbe potuto sperare in una favorevole congiuntura internazionale.
In pratica significava subordinarlo scontro con l’Austria alle riforme; una volta che queste fossero state ottenute, la lotta per l’indipendenza sarebbe venuta di conseguenza e sarebbe stata una guerra fra Stati, da pari a pari e col favore delle potenze europee. E dunque sarebbe stata anche una guerra di sovrani “italiani”.
Era quanto, in fondo, Carlo Alberto aveva detto al D’Azeglio che aveva chiesto udienza al sovrano nel novembre 1845 al ritorno dalla missione nelle Romagne.
Carlo Alberto, del resto, mostrava da qualche anno un rinnovato interesse per il movimento moderato e per le sue posizioni antiaustriache. Quell’interesse, in realtà, non era del tutto scevro da preoccupazioni: Carlo Alberto infatti non aveva alcuna intenzione di imboccare la strada costituzionale che i moderati gli suggerivano. Le riforme che a partire dalla metà degli anni Trenta avevano modernizzato il Regno di Sardegna non avevano infatti intaccato alcuna prerogativa sovrana. Ma il re, che guardava al Lombardo-Veneto come naturale direttrice dell’espansionismo sabaudo, poteva comunque trovare l’appoggio moderato a una politica estera più dinamica, magari avendo cura di coprirsi le spalle con un appoggio diplomatico francese.
Così Carlo Alberto prese a indulgere in schermaglie diplomatiche con l’Austria, che crearono intorno al sovrano un’aura antiaustriaca (e per errata deduzione, filoitaliana). Tali e tante erano le aspettative suscitate nel giro di pochi anni e tale il bisogno di una figura di sovrano “nazionale” che Carlo Alberto poté giocare sull’equivoco. D’altra parte un equivoco ben più tragico si stava profilando in quel clima di eccitata aspettazione.
1846: UNA FUMATA BIANCA ANNUNCIA LA GRANDE ILLUSIONE DI UN PAPA LIBERALE
La sera del 16 giugno 1846 la tradizionale fumata bianca annunciava da San Pietro l’elezione del successore di Gregorio XVI e la fine di un conclave che aveva attirato l’attenzione della gente come non accadeva da secoli.
Gioberti e il neoguelfismo avevano scaricato sul pontefice la responsabilità di assumere la guida del movimento nazionale e una larga parte dell’opinione cattolica aspettava dal papa un chiaro segno di liberalismo. Inoltre i fatti di Romagna tra il 1843 e il 1845 avevano reso lo Stato Pontificio un banco di prova dell’Italia da cambiare. La gente voleva un papa liberale, un papa riformista, un papa da osannare: il conclave scelse Giovanni Maria Mastai Ferretti, che non era nulla di tutto ciò, ma non era nemmeno un oltranzista; e questo bastò.
Ogni gesto del nuovo pontefice cominciò a essere interpretato come il gesto di un papa “italiano”. Un mese dopo la sua elezione Pio IX concesse un’amnistia ai condannati politici e agli esiliati. Il provvedimento di clemenza non era molto diverso da quelli di altri sovrani nel giorno della loro incoronazione, ma Roma impazzì di gioia vedendo in quel gesto l’annuncio di un’epoca nuova. Per tutta l’estate le fiaccolate risalirono il Corso verso la residenza pontificia del Quirinale e la gente dei rioni scese per le strade a festeggiare Pio IX.
L’8 agosto 1846 Pio IX nominò segretario di Stato il cardinale Gizzi, noto per le sue tendenze liberali, e si cominciò a parlare di una commissione pontificia per le riforme, di una più ampia libertà di stampa e perfino dell’istituzione della guardia civica.
UN’ITALIA IMPAZZITA IN CORSA SENZA FRENI VERSO L’INSURREZIONE
«A me pare che gli italiani siano impazziti», scriveva Mazzini alla madre l’11 settembre 1846. Nel dicembre 1846 le manifestazioni per il centenario della rivolta genovese di Balilla si trasformarono in una dimostrazione antiaustriaca. Nei primi mesi del 1847 a Roma, a Firenze e a Torino sorsero diversi nuovi giornali e il 12 marzo di quell’anno il Gizzi emanò un decreto che concedeva una più ampia libertà di stampa. Quando il 17 luglio 1847 l’Austria cercò di intimidire il pontefice rinforzando la guarnigione militare di Ferrara, la dura reazione di Pio IX suscitò una nuova ondata di entusiasmo. Se la capitale del più arretrato fra gli Stati italiani si muoveva, se il pontefice si mostrava favorevole alle riforme, cos’altro si doveva aspettare?
Anche gli altri Stati posero mano alle riforme, cercando di tener dietro alle richieste sempre più pressanti e chiassose. Tutto l’anno passò in questo rincorrersi fra governi e manifestanti. Ma ogni volta che le riforme arrivavano erano già state superate dai fatti: a un anno dalla sua elezione, Pio IX sembrava già prigioniero della sua stessa popolarità.
La Proposta di un programma per l’opinione nazionale in Italia, che D’Azeglio scrisse proprio nel 1847, ribadiva l’idea dei moderati che l’unico sbocco incruento stesse ancora nel riformismo dei sovrani e nella loro iniziativa. Ma gli abboccamenti per una lega degli Stati stentavano a decollare e solo nel novembre 1847 gli emissari del Granducato di Toscana, dello Stato Pontificio e del Regno di Sardegna firmarono l’accordo per una proposta di unione doganale. A quell’accordo però non aderiva il Regno delle Due Sicilie, il che ne rendeva praticamente nulla l’importanza.
Quel che ancora serviva ai moderati era il tempo necessario a calibrare le riforme, a portare in fondo un complesso tessuto di mediazioni con le corti italiane; ma il tempo era proprio ciò che essi non avevano più. I democratici si erano riorganizzati e a guidare le manifestazioni per le strade c’erano i mazziniani, adattatisi a sfruttare anche la crescente popolarità del pontefice. Il “golem” dell’opinione nazionale, tante volte evocato prima da Mazzini e poi dai moderati, si era messo in movimento; non si sarebbe fermato fino al 1849. E nessuno, per quanto si sforzasse, avrebbe potuto dire di controllarlo fino in fondo.
IL TEMPO DELLA MONARCHIA
La miccia che fece saltare le – ultime difese dello Stato assoluto fu accesa a Palermo nel giorno del compleanno del re Ferdinando, il 12 gennaio. Anche quella volta l’insurrezione era stata preparata in un modo così precario che c’erano tutte le premesse di un fallimento. Eppure, per quella strana combinazione di fortuna, coraggio e sconsideratezza necessari a ogni rivoluzione, e soprattutto perché la situazione italiana era ormai tesa fino al limite, l’insurrezione autonomista e antiborbonica ebbe successo e gli eventi precipitarono.
Di fronte all’impossibilità di controllare la situazione in Sicilia, Ferdinando II capì che per evitare il peggio conveniva rompere gli indugi e il 29 gennaio concesse la costituzione nell’intento di legare a sé i moderati e scongiurare il pericolo di una rivoluzione democratica anche a Napoli. La mossa non era priva di logica e, alla lunga, avrebbe a suo modo ripagato il sovrano. Nell’immediato l’effetto fu un terremoto politico che si propagò in tutta la penisola.
DA PARIGI A VIENNA A MILANO: RULLA IL TAMBURO DELLA RIVOLUZIONE
L’8 febbraio Carlo Alberto prometteva la costituzione ai torinesi scesi in piazza; il 17 di quello stesso mese Leopoldo II, di fronte alle manifestazioni che da Livorno si erano allargate a Firenze, trasformava il Granducato in uno Stato costituzionale; il 14 marzo, infine, anche Pio IX concedeva una carta costituzionale. Nel giro di un mese e mezzo l’Italia si era trasformata in un Paese costituzionale e in sei settimane i moderati avevano ottenuto un obiettivo che inseguivano da anni.
La situazione era in realtà anomala. L’insurrezione siciliana era autonomista e antiborbonica più che nazionale. Inoltre l’avvio al processo costituzionale era venuto dallo Stato che meno era stato toccato dall’offensiva moderata. Infine, nonostante la rapidità con cui erano state concesse, le costituzioni arrivavano comunque troppo tardi. I giovani assetti costituzionali vennero infatti subito investiti dal contraccolpo di una nuova rivoluzione che veniva dalla Francia.
Tra il 22 e il 24 febbraio 1848, a Parigi le opposizioni rovesciavano il governo Guizot e costringevano Luigi Filippo ad abdicare. Quella rivoluzione significava la fine della monarchia borghese, alla quale tutti i moderati italiani avevano guardato come a un modello, e della sua costituzione, sulla quale le costituzioni concesse in Italia erano esemplate. Nel nuovo governo repubblicano, che riuniva moderati, democratici e socialisti, c’era posto anche per un operaio meccanico. Quel governo non avrebbe visto l’estate, ma le conseguenze del febbraio parigino si fecero subito sentire in Europa.
Il 13 marzo, studenti, artigiani e borghesi di Vienna erano per le strade chiedendo la convocazione di una costituente: l’impero asburgico fu colto totalmente impreparato e il primo a cadere fu naturalmente Metternich. Due giorni dopo l’imperatore Ferdinando prometteva la costituzione, mentre dal 14 anche l’Ungheria era in fiamme. Il 18 marzo le barricate erano alzate a Berlino.
L’epidemia contagiò i possedimenti italiani dell’Austria. Già il 17 marzo, a Venezia, la folla in Piazza San Marco avviò un braccio di ferro con il governatore della città per la liberazione dei detenuti politici e l’istituzione di una guardia civica. Il 18 toccava a Milano, dove la partita fu giocata direttamente contro il maresciallo Radetzky, governatore della città, giacché il viceré del Lombardo-Veneto, ‘arciduca Ranieri, era rientrato precipitosamente in Austria, non appena avuta notizia dei fatti di Vienna.
Il 23 marzo, dopo cinque giorni di combattimenti condotti da un improvvisato Consiglio di Guerra, organizzato da Carlo Cattaneo, i milanesi erano padroni della città; il giorno prima, di fronte all’occupazione dell’Arsenale da parte degli operai e all’insurrezione dei soldati di nazionalità italiana, aveva capitolato anche la guarnigione austriaca di Venezia. Radetzky si vide costretto a ritirarsi sulle piazzeforti del Quadrilatero (Mantova, Peschiera, Legnago e Verona) dove radunò i 45.000 uomini che rimanevano a sua disposizione nel Lombardo-Veneto. Fra il Ticino e Milano non c’era più un solo soldato austriaco: la via all’intervento militare del Regno di Sardegna era spalancata.
SUONA L’ORA DI CARLO ALBERTO: MA LA PAURA FRENA LA GUERRA DEI SAVOIA
Non appena erano arrivate le notizie sulla caduta di Metternich, in tutta l’Italia le manifestazioni antiaustriache avevano preso nuovo vigore e fin dal 19 marzo contingenti irregolari di volontari avevano cominciato a radunarsi in Toscana e nelle Legazioni pontificie; lo stesso accadeva a Genova e a Torino.
Nel corso dell’ultimo anno i moderati italiani avevano speso molto e bene il nome di Carlo Alberto. Ora si aspettava da lui che mantenesse la promessa fatta al D’Azeglio nel 1847. Il 23 marzo, dopo che da giorni i giornali liberali chiedevano l’intervento a sostegno dell’insurrezione milanese, sul giornale torinese “Risorgimento” uscì un articolo, poi divenuto celebre, di Camillo Benso, conte di Cavour: «L’ora suprema per la monarchia sarda è suonata […]. In cospetto degli avvenimenti di Lombardia e di Vienna, l’esitazione, il dubbio, gl’indugi non sono più possibili; essi sarebbero la più funesta delle politiche». Era uno scrollone per la monarchia sabauda e, si badi bene, un invito a salvare la monarchia stessa e la causa moderata attraverso l’azione.
Cavour sapeva che se a Palermo, a Venezia, a Milano c’era stata l’insurrezione, questo era soprattutto un merito dei democratici. E che se i moderati volevano mantenere l’iniziativa, non c’era tempo da perdere, giacché prima o poi i democratici potevano presentare il conto. Carlo Alberto si accinse dunque di malavoglia alla guerra, con obiettivi limitati alla liberazione della Lombardia, intimorito dal gran parlare di una guerra “nazionale”, dalla formazione di corpi di volontari lungo il Po e, soprattutto, dalla presenza dei repubblicani a Milano. Le prime truppe piemontesi passarono il confine con il Lombardo-Veneto solo la sera del 25 marzo e arrivarono a Milano il 26, verso mezzogiorno.
In realtà a Milano i democratici avevano già perso la partita politica; proprio durante l’ultima giornata di combattimenti il Consiglio di Guerra di Carlo Cattaneo era stato messo in minoranza dal nuovo governo provvisorio della città, formato da Gabrio Casati e composto da moderati favorevoli alla monarchia sabauda e all’annessione immediata al Regno di Sardegna. La proposta di Cattaneo di condurre una guerra federata, per evitare che la lotta fosse egemonizzata dal re di Sardegna, era stata accantonata e il problema di quale assetto dare all’Italia indipendente era stato rimandato a dopo la vittoria.
Carlo Alberto tuttavia si fidava troppo poco della situazione politica italiana per condurre la guerra con l’energia necessaria. Soprattutto non voleva lasciarsi alle spalle Milano senza che la sorte della Lombardia fosse stata decisa. Tanto più che dal 7 aprile in città c’era anche Mazzini, che era stato accolto da una folla giubilante. Mazzini aveva già affermato che non avrebbe anteposto alcuna opposizione alla fusione tra Lombardia e Piemonte, e invitava Cattaneo, Ferrari e il partito democratico milanese a fare altrettanto, abbandonando per allora la pregiudiziale repubblicana. Ma in qualunque momento, per il re, le cose sarebbero potute cambiare.
Così la diplomazia piemontese raddoppiava i suoi sforzi e le pressioni sul governo provvisorio di Milano affinché indicesse un plebiscito per proclamare la fusione. E lo stesso accadeva nell’Italia centrale, dove dalla fine di marzo gli austriaci avevano abbandonato Modena e Parma, seguiti dai duchi Francesco V e Carlo III, ridotti al ruolo di fantocci. Anche là si puntava all’annessione immediata al Piemonte. Del resto il sogno di una guerra federale e nazionale, condotta con l’appoggio dei sovrani italiani, era già tramontato.
ARRIVANO DA ROMA E DA NAPOLI DUE COLPI MORTALI AL FEDERALISMO MODERATO
Il 29 aprile, il giorno prima della battaglia di Pastrengo, Pio IX aveva pronunciato un’allocuzione in cui respingeva chiaramente qualsiasi progetto sulla sua persona, riguardo a una futura federazione italiana. Non solo, il papa dichiarava anche la propria indisponibilità ad appoggiare la guerra all’Austria cattolica. Il conservatorismo moderato di Pio IX aveva finalmente trovato il modo di farsi capire. Le reali intenzioni del papa erano state fraintese e ora il pontefice in persona dichiarava chiaro e forte che non intendeva spingersi oltre; ogni ulteriore passo sarebbe avvenuto senza il pontefice o, peggio, contro di lui.
Il secondo colpo ai moderati venne pochi giorni dopo da Napoli. Il nuovo governo costituzionale del Regno doveva fronteggiare la secessione siciliana: il 13 aprile il governo siciliano di Ruggero Settimo aveva proclamato la completa autonomia dell’isola da Napoli, dichiarando decaduto il Borbone e non riconoscendo la costituzione napoletana.
La scissione aveva indebolito l’autorità del governo moderato di Napoli che, dopo aver a lungo cercato la mediazione, si doveva difendere ora dall’accusa di inefficienza mossagli dai conservatori. Inoltre doveva fronteggiare la crescente pressione dei democratici, la cui propaganda toccava studenti, artigiani e operai di Napoli, che chiedevano un impegno più deciso a fianco del Piemonte nella guerra contro l’Austria. A Napoli la situazione si faceva di giorno in giorno più tesa: dalle campagne arrivavano notizie di focolai di ribellione contadina mentre la città brulicava di volontari armati che chiedevano di imbarcarsi per la guerra.
Il 15 maggio, giorno di apertura del Parlamento, Ferdinando II ritenne giunto il momento di una prova di forza militare. L’esercito occupò le strade della città, il re sciolse la Camera, impose un nuovo governo chiaramente moderato e bandì nuove elezioni. Non era né un colpo di Stato né la soppressione della costituzione; ma era chiaro che la monarchia costituzionale era ormai prossima alla fine e che il re di Napoli, come già il pontefice, aveva preso le distanze da ogni ulteriore sviluppo dell’idea federalista e nazionale.
Primo a concedere la costituzione, Ferdinando era stato anche il primo a rinnegarla non appena le condizioni glielo avevano permesso. L’illusione che i sovrani italiani procedessero spontaneamente a una fusione dei loro domini, superando il concetto dinastico che costituiva la base stessa del loro potere e della loro legittimità, era svanita per sempre. A completare il naufragio del movimento moderato arrivò la notizia della sconfitta militare di Carlo Alberto sul campo di Custoza tra il 24 e il 27 luglio.
IL PARADOSSO MODERATO: LA RIVOLUZIONE BORGHESE HA TROPPO BISOGNO DEI RE
La guerra all’Austria aveva mostrato i limiti del federalismo moderato, basato sugli assetti degli Stati regionali: i legami dinastici con gli Asburgo impedivano alle dinastie dell’Italia centrale una politica autonoma di qualunque respiro; Pio IX non poteva rinunciare all’appoggio dell’Austria cattolica; la tradizione sabauda era troppo forte perché Carlo Alberto potesse rinunciare al ruolo guida del Regno di Sardegna.
Soprattutto, scarsissima era la dimestichezza di quei sovrani con il modello costituzionale. L’esempio di Napoli lo aveva dimostrato. Gli apparati di governo erano ancora fermi al modello del dispotismo più o meno illuminato di fine Settecento. Troppo forte era, dappertutto, la tentazione per il partito di corte di fare a meno di un Parlamento del quale comprendeva poco l’utilità. Anche dopo il Quarantotto, del resto, quando il Regno di Sardegna avrebbe mantenuto – solo in Italia – lo Statuto, Cavour avrebbe dovuto combattere la sua battaglia più difficile contro Vittorio Emanuele II e il partito militare vicino alla corte.
Intanto, mentre il Piemonte firmava l’armistizio, la mano passava ai democratici.
IL TEMPO DELLA REPUBBLICA
L’allocuzione di Pio IX, i fatti del maggio napoletano e infine la sconfitta dell’esercito piemontese avevano seriamente incrinato l’idea di una lega fra gli Stati. Eppure il progetto federale aveva ancora una sua validità: i volontari toscani a Curtatone e i pontifici di Dandolo a Verona avevano combattuto per una guerra federale, nonostante Carlo Alberto. Soprattutto erano ancora in vigore gli statuti concessi all’inizio della rivoluzione. Fu su queste basi che i democratici ripresero con determinazione (e altrettanta confusione) il programma della rivoluzione nazionale L’8 ottobre 1848, mentre in tutta Italia si svolgevano manifestazioni di mazziniani e di democratici contro l’armistizio e l’abbandono della Lombardia agli austriaci, Giuseppe Montanelli rilanciava il progetto di una Costituente italiana: una assemblea permanente eletta a suffragio universale avrebbe dovuto elaborare un progetto di costituzione e guidare la federazione di Stati. Era un’idea che circolava negli ambienti democratici da qualche tempo, con il proposito di togliere l’iniziativa ai moderati. Il fatto che il 27 ottobre il granduca, di fronte all’impossibilità di mantenere l’ordine, decidesse di affidare il governo proprio a Montanelli e Guerrazzi, campioni della democrazia di piazza a Firenze e a Livorno, sembrò per un momento consacrare quell’idea.
Ma convocare una dieta significava che le monarchie avrebbero dovuto da sole scegliere di affidare la propria sorte a un’assemblea democratica. E soprattutto prevedeva una unità di intenti nella nebulosa democratica che in realtà non esisteva. La rivoluzione democratica si risolse così in una serie di iniziative slegate tra loro; e per quanto abbia segnato uno fra i momenti più alti del Risorgimento italiano con la proclamazione della Repubblica romana, mostrò che in Italia la rivoluzione non poteva esserci.
La ripresa democratica si svolse peraltro in una situazione internazionale che vedeva ormai la vittoria delle forze conservatrici. In giugno, a Parigi, veniva stroncata un’insurrezione dei radicali e degli operai, che avevano di nuovo alzato le barricate. I radicali e i socialisti furono esclusi dal governo e tutte le misure a carattere democratico prese in febbraio vennero revocate. In novembre fu promulgata una nuova costituzione, che prevedeva l’elezione di un presidente con mandato quadriennale; le successive elezioni del dicembre videro la vittoria del candidato del blocco borghese e clericale, Luigi Napoleone Bonaparte, che rappresentava una garanzia di restaurazione dell’ordine sociale. Le elezioni si erano svolte a suffragio universale e la vittoria di Napoleone rivelò alla borghesia che il suffragio universale era tutt’altro che una porta aperta sul baratro del socialismo.
Nell’impero asburgico, in quegli stessi mesi, i militari rimettevano sul trono una monarchia che pareva in ginocchio. Nel giugno 1848 il principe Windischgrätz aveva represso nel sangue l’insurrezione di Praga; il 6 ottobre lo stesso Windischgrätz marciava su Vienna alla testa dei suoi soldati croati per soffocarvi un’insurrezione di operai e studenti contrari alla monarchia asburgica. Le condizioni che il partito della reazione presentò agli Asburgo per conservare il trono furono durissime: i militari imposero l’abdicazione di Ferdinando I e l’ascesa al trono del diciottenne Francesco Giuseppe, educato dal Metternich alla pratica del più assoluto legittimismo. Il nuovo primo ministro, principe Schwarzemberg, si accinse a liquidare la rivoluzione ungherese.
FUGGONO I SOVRANI: SI RIANIMA LA SPERANZA DELLA COSTITUENTE
In Italia questa volta la rivoluzione fu fatta contro i sovrani. Ma anche in questa occasione fu un fenomeno eminentemente cittadino e i democratici si dimostrarono incapaci di coinvolgere le masse contadine quanto e forse più dei moderati, condannandosi al fallimento nel giro di qualche mese. Ancora una volta la crisi fu messa in moto da Roma.
Pio IX aveva affidato il governo a Pellegrino Rossi, ex ambasciatore della Francia di Guizot a Roma, disoccupato dopo la caduta della monarchia di luglio. Questi, non appena formato il governo, aveva cominciato a ostentare le maniere forti per riportare l’ordine in una città che stentava ad assorbire le disillusioni del 1848. E improbabile che Rossi pensasse al colpo di Stato anticostituzionale, ma dette l’impressione di farlo; e in una Roma amareggiata dalle troppe delusioni firmò la propria condanna. Il 15 novembre, mentre si recava all’apertura del Parlamento, il ministro di Pio IX cadde sotto il pugnale di una congiura organizzata nell’ambiente dei reduci dalla guerra d’indipendenza: quell’assassinio fece precipitare la situazione.
Il 24 novembre 1848 Pio IX fuggiva a Gaeta, ospite di Ferdinando, lasciando una Roma dove era ormai prigioniero della folla, che il popolano Ciceruacchio aizzava nel nome di Mazzini sulla piazza del Quirinale. Quella fuga scavava un solco profondo tra Pio IX e i suoi sudditi. Gli ultimi venti anni del potere temporale del pontefice, da allora fino a Porta Pia, sarebbero trascorsi nella più totale indifferenza degli abitanti di Roma verso il loro sovrano.
Nel febbraio 1849 anche il granduca di Toscana raggiungeva Gaeta a bordo di un piroscafo britannico, togliendo definitivamente il proprio appoggio al progetto di Costituente e al tentativo di Montanelli di rianimare il cadavere di una lega fra Stati.
Nella nuova situazione, sgretolato il federalismo moderato, re Ferdinando poteva atteggiarsi a campione del legittimismo. Fin dal settembre del 1848, del resto, egli aveva avviato la riconquista della Sicilia, bombardando Messina e meritandosi il nomignolo di Re Bomba; il governo costituzionale di Napoli non era più che un pallido simulacro.
SUL CAMPO DI NOVARA CARLO ALBERTO GIOCA LE SUE ULTIME CARTE
Le ripercussioni della fuga di Pio IX e di Leopoldo furono immediate. L’8 febbraio si insediava il governo provvisorio a Firenze e il giorno dopo la repubblica era proclamata anche a Roma, dove la nuova Assemblea, eletta a suffragio universale, dichiarò decaduto il potere temporale dei papi.
A Torino la nuova situazione mise in crisi Vincenzo Gioberti, che dal dicembre 1848 cercava di guidare un nuovo governo, destreggiandosi fra una maggioranza della Camera democratica e le pressioni della destra e del partito militare. Di fronte al crollo delle monarchie costituzionali Gioberti si imbarcò in una complicata manovra politica e arrivò a considerare seriamente la possibilità di un intervento militare piemontese per restaurare il papa e il granduca. La scoperta del piano fece cadere fragorosamente il gabinetto Gioberti e aprì la strada a un governo democratico guidato da Urbano Rattazzi. E di fronte all’estendersi delle manifestazioni antiaustriache in tutta Italia, anche a Carlo Alberto apparve chiaro che l’unica speranza di salvare il trono stava in una ripresa della guerra.
La guerra fu breve e cruenta. Le ostilità vennero riaperte il 20 marzo: tre giorni dopo l’esercito sardo, riorganizzato alla meglio dopo Custoza dal generale polacco Chrzanowsky, si dissolveva a Novara. La sera stessa Carlo Alberto abdicava per evitare al Regno di Sardegna condizioni di pace umilianti. Sarebbe toccato al figlio Vittorio Emanuele II sottoscrivere l’armistizio a Vignale il 26 marzo 1849. Suonava la campana a morto per i vari governi provvisori della penisola.
Brescia rifiutò la capitolazione e resistette agli austriaci per dieci giorni, fino al primo aprile. Il granduca Leopoldo fu riportato in Toscana dalle truppe austriache, che imposero con le armi l’ordine a un Paese che le discordie fra moderati e democratici avevano portato sull’orlo della guerra civile. E tra l’aprile e l’agosto del 1849 si consumarono gli ultimi fuochi democratici a Roma e a Venezia, in una situazione internazionale che vedeva i governi europei volti ormai a riassorbire i traumi della rivoluzione nel modo più indolore possibile.
SUI COLLI DEL GIANICOLO MUOIONO LE SPERANZE DEL RISORGIMENTO DEMOCRATICO
Proprio la difesa di Roma chiuse definitivamente un’epoca, segnando il fallimento dell’insurrezione repubblicana, e vide il prepotente ingresso nella politica europea di quella Francia di Napoleone III che sarebbe stata uno dei protagonisti dei venti anni a seguire e uno dei maggiori fattori di destabilizzazione degli equilibri di Vienna.
L’intervento francese contro la Repubblica romana nel 1849 fu certamente dovuto al desiderio del presidente di legare strettamente a sé il partito cattolico; ma doveva anche dimostrare all’Europa che la Francia aveva superato il disordine delle barricate ed era pronta a riprendere la propria politica di potenza. Per questo il corpo di spedizione di Oudinot sbarcò a Civitavecchia il 24 aprile del 1849 con il compito di restaurare Pio IX. L’Italia rientrava in tal modo nella tradizionale sfera di influenza francese e vi sarebbe rimasta fino alla caduta del Secondo Impero. Contraltare alla presenza austriaca in Italia, le mosse di Napoleone si sarebbero rivelate decisive per il nostro Risorgimento.
Alla difesa di Roma, nelle ville intorno al Gianicolo perdute e riprese in estenuanti assalti alla baionetta, il meglio del mondo democratico italiano scrisse una delle pagine più alte della sua storia. Sotto la guida politica di Mazzini e quella militare di Garibaldi (peraltro spesso in contrasto tra loro) la resistenza, ostinata fino all’insensatezza, andò avanti fino al 4 luglio 1849, quando venne ordinata la resa. L’ultimo atto politico dell’agonizzante repubblica fu la proclamazione da parte dell’Assemblea Costituente della nuova costituzione, la più avanzata tra tutte quelle del nostro Risorgimento, proprio mentre i francesi del generale Oudinot entravano in città.
L’ultima coda insurrezionale avrebbe visto ancora l’odissea di Garibaldi nel disperato tentativo di raggiungere Venezia e l’ultima difesa della città, spenta dagli austriaci dopo un durissimo assedio il 25 agosto. Due settimane prima i russi, intervenuti in Ungheria al fianco di Francesco Giuseppe, avevano stroncato a Vilagos la resistenza della repubblica magiara di Kossuth.
La rivoluzione nazionale era battuta. I democratici, che avevano condotto la lotta a oltranza anche con l’appoggio della popolazione cittadina – da Venezia a Livorno, da Brescia a Roma – uscivano con un grosso prestigio morale. Ma erano divisi. Già nel corso della rivoluzione la galassia repubblicana, da Correnti a Ferrari a Pisacane a Cattaneo, si era mostrata insofferente della leadership mazziniana. Negli anni a venire le divisioni si sarebbero accentuate, senza che tuttavia nessuno riuscisse a sostituirsi a Mazzini o a fare a meno di lui.
Il Quarantotto, d’altra parte, aveva mostrato che la strada federalista, apparentemente facile e in grado di assorbire la tradizione degli Stati regionali, sfociava troppo spesso nel particolarismo. Le divisioni in campo democratico impedirono, quanto e forse più della guerra, che si arrivasse a un unico programma e a un collegamento fra i vari centri dell’insurrezione.
Qualcosa restava. I democratici avevano trovato una sciabola. Il mito di Garibaldi comincia da lì. Avrebbero ricominciato a lottare. Spesso sarebbero stati sconfitti: a Milano nel 1853, a Sapri nel 1857, a Mentana nel 1867. Una volta, nel 1860, avrebbero colto la vittoria più bella e – per loro – più inutile.
Ai moderati restava invece una costituzione, quella del Regno di Sardegna: l’unica a non essere abolita nel 1849 (anche perché l’Austria sperava in tal modo di acquietare le velleità piemontesi). Da quella costituzione Cavour avrebbe dovuto cominciare per riannodare le fila dell’opinione moderata.
Dopo il fallimento del biennio 1848-1849 le due anime del Risorgimento avrebbero continuato a scorrere parallele e alternative fra loro. Fino all’Unità senza rivoluzione.
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SCHEDE DI APPROFONDIMENTO
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OBIETTIVO NAZIONALE E RISCATTO SOCIALE NEL PENSIERO MAZZINIANO
EGUALITARISMO SENZA LOTTA DI CLASSE
L’obiettivo unitario e nazionale – aveva bisogno, per Mazzini, di uno sforzo concorde di tutta la popolazione, senza distinzione di classe. «La Giovine Italia» scriveva nel 1833 «tende in generale all’abolizione di tutti i privilegi che non derivino dalla legge eterna della capacità applicata al bene; a diminuire gradatamente la classe degli uomini che si vendono e di quelli che si comprano; in altri termini a ravvicinare le classi, costruire il popolo, ottenere lo sviluppo maggiore possibile delle facoltà individuali; a ottenere un sistema di legislazione accomodata ai bisogni; a promuovere illimitatamente l’educazione nazionale». Ma, subito dopo, Mazzini aggiungeva: «Finché il primo perno della rivoluzione, ossia l’indipendenza, non sia ottenuto, essa riconosce che tutto deve essere rivolto a quello scopo». L’egualitarismo repubblicano e il nazionalismo romantico – i due cardini attorno ai quali ruotavano il pensiero e l’azione di Mazzini – avevano creato un nodo di Gordio che il genovese non seppe (o non volle) mai tagliare.
Subordinando la rivoluzione all’indipendenza, cercando l’appoggio di tutte le classi, la Giovine Italia rinunciava infatti a svolgere fino in fondo e fin dal principio, sul piano sociale ed economico, i profondi motivi democratici ed eversivi propri del repubblicanesimo. Mazzini si sottraeva in questo modo alle accuse di giacobinismo e di comunismo, ma arrestava inevitabilmente il suo programma su vaghe promesse di redenzione e affermazioni di uguali doveri,, ancor prima che uguali diritti. La sua repubblica era già abbastanza per spaventare i fautori di una monarchia liberale, evocando fantasmi rivoluzionari; non era però sufficiente a suscitare un vasto movimento popolare che, in assenza di forti concentrazioni operaie, avrebbe per forza dovuto toccare le campagne.
Senza la prospettiva di una contrapposizione di classe, che fu sempre estranea al pensiero mazziniano, o meglio senza una bandiera che non fosse esclusivamente politica, l’insurrezione non poteva scoppiare con i caratteri auspicati da Mazzini. Giacché il movimento che egli invano attese per tutta la vita, in un Paese come l’Italia, non poteva essere che un moto di contadini affamati di terra. E chi poteva garantire che una simile rivolta non si sarebbe trasformata in una guerra civile? Non per caso nel 1860, di fronte al problema della riforma agraria e al rischio di una rottura con i moderati siciliani, Garibaldi si sarebbe trovato chiuso nel vicolo cieco che portava alla repressione di Bronte.
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DALL’ANTOLOGIA DEL VIEUSSEUX Al CONGRESSI DEGLI SCIENZIATI
TRACCE DI MODERATISMO
Se il movimento moderato uscì alla ribalta tra il 1843 e il 1846, le tracce della sua gestazione e del suo consolidarsi si scoprono in una serie di iniziative degli anni Trenta del secolo; e ancor più in là, se consideriamo la funzione che l’Antologia, la rivista fondata nel 1821 da Giovan Pietro Vieusseux, aveva svolto nel decennio precedente in un’Italia che subiva l’indurimento della censura dopo i moti del 1820-1821.
Il modello dell”Antologia era una rivista inglese, la Edinburgh Review, e al modello britannico gli uomini della rivista fiorentina strizzavano l’occhio anche politicamente. La rivista aveva continuato le pubblicazioni fino al 1833, occupandosi degli argomenti più diversi: economia, geografia, statistica, agricoltura, viaggi, pedagogia e, naturalmente, letteratura. E sulle sue pagine erano passate un po’ tutte le migliori firme dell’Italia del periodo, compreso lo stesso Mazzini. Poi l”Antologia era stata soppressa, vittima del nuovo giro di vite dei governi di fronte ai moti del 1831 e alla successiva iniziativa mazziniana. Ma intanto aveva fatto in tempo a costituire un punto di riferimento per gli intellettuali italiani.
Dopo la chiusura dell’Antologia, le tracce del pensiero moderato riaffiorano a Napoli, con il “Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti”, rivista fondata nel 1832 da Giuseppe Ricciardi, che ebbe vita breve e dovette chiudere per l’arresto dello stesso Ricciardi nel 1834. E poi a Milano, sugli Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio (diretti da Romagnosi fino alla morte, nel 1835), che furono la culla di un gruppo di giovani di tendenza più spiccatamente democratica come Cesare Correnti, Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. E ancora, fra il 1838 e il 1839, sempre a Milano, sulle neonate Rivista europea di Giacinto Battaglia e Politecnico di Carlo Cattaneo.
Nel 1839 inoltre cominciarono a essere organizzati i Congressi degli scienziati, che dovevano riunire periodicamente gli scienziati di tutta Italia: al primo, riunito a Pisa nell’ottobre del 1839, seguirono altri otto congressi, uno ogni anno, fino al 1847.
Come si vede non si tratta di iniziative politiche in senso stretto, e non c’è nulla che possa paragonarsi a un manifesto politico. È però un processo importante di ossigenazione delle correnti moderate, che passa attraverso una maggiore circolazione delle idee, il confronto con la situazione straniera – in particolare di Francia e Inghilterra – e, soprattutto, la conoscenza delle condizioni dei vari Stati italiani.
Al principio degli anni Quaranta le élite italiane erano certamente più vicine tra loro di quanto non lo fossero venti anni prima, le aspettative costituzionali inappagate non avevano perso nulla della loro forza, il sentimento nazionale era più diffuso, e soprattutto più forte era il sentimento antiaustriaco.
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LE ASPETTATIVE COSTITUZIONALI DI DEMOCRATICI E MODERATI
A CIASCUNO IL SUO MODELLO
L’aspettativa costituzionale nell’Italia della Restaurazione fu comune sia ai moderati che ai democratici. Diversi erano però i modelli di riferimento.
Per i democratici quella aspettativa aveva radici nell’esperienza francese del 1789, ma tra il 1812 e il 1815 aveva trovato nuovo alimento. Nel 1812, in Spagna, mentre infuriava la guerriglia contro Napoleone, la borghesia liberale riuscì, con l’appoggio degli inglesi, a convincere il re Ferdinando VII a convocare a Cadice le Cortes, che elaborarono una costituzione ispirata alle idee egualitarie della Francia rivoluzionaria. Essa dichiarava aboliti i diritti e i privilegi feudali, sopprimeva l’Inquisizione, decretava la confisca dei beni ecclesiastici, introduceva il principio che la sovranità risiedeva nella nazione. La costituzione di Cadice non ebbe lunga vita: fu abolita non appena i francesi ebbero varcato i Pirenei. Un’altra costituzione che lasciò un segno duraturo fu quella siciliana del 1812. Dopo ii ritorno dei francesi, nel 1806, il re Ferdinando si era rifugiato a Palermo sotto la protezione degli inglesi. Il ministro inglese Bentinck aveva allora pensato di opporsi ai francesi con le loro stesse armi. Riuscì a far concedere una costituzione capace di avvicinare agli inglesi la borghesia e la nobiltà del Regno, deluse dell’assolutismo di Bonaparte. Londra richiamò Bentinck nel 1814, ma il ricordo di quella costituzione (abolita con il rientro dei Borbone a Napoli) avrebbe dato esca per tutto il Risorgimento alle rivolte siciliane. Una terza costituzione si aggiunse infine alle altre: quella francese dei 1814, che le potenze coalizzate imposero a Luigi XVIII dopo la caduta di Napoleone. Si trattava, come quella siciliana, di una carta octroyée, cioè di una costituzione concessa per volere sovrano e non elaborata da una costituente. Ma era il segno che in Francia non si poteva cancellare la rivoluzione.
Lo si capì qualche anno dopo. Nel 1830,quattro ordinanze del re Carlo X e del suo ministro Polignac sospesero le libertà costituzionali. Parigi rispose con la rivoluzione, stavolta incruenta e dunque “gloriosa”. Il grido di «Vive la Chartel» unì studenti e operai, borghesi e artigiani, e il 3 agosto Carlo X dovette lasciare il Paese. Al suo posto il Parlamento proclamò re Luigi Filippo d’Orléans, l’uomo dei liberali che come Thiers e Guizot avevano guidato la rivoluzione. Luigi Filippo era sovrano «per grazia di Dio», ma anche e soprattutto «per volontà della nazione». La sua Francia sarebbe stata ii nuovo modello per i moderati europei.
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LE OPERAZIONI MILITARI NELLA GUERRA D’INDIPENDENZA
DAL TICINO A CUSTOZA
A fianco dell’esercito piemontese si batterono nella prima guerra d’indipendenza le truppe pontificie guidate da Giovanni Durando e quelle napoletane di Guglielmo Pepe; inoltre parteciparono agli scontri vari corpi franchi di volontari lombardi, dello Stato Pontificio e di studenti dell’Università di Pisa.
Il peso della guerra contro gli austriaci ricadde però pressoché interamente sull’esercito sardo, strumento di guerra non particolarmente brillante, ma solido e comunque adatto a una campagna breve, su un teatro limitato e contro un avversario impegnato contemporaneamente in Ungheria e in Boemia.
Quella che poi, nell’agiografia risorgimentale, sarebbe divenuta la prima guerra d’indipendenza, fu tuttavia dominata dalla preoccupazione dei sovrano di distinguere l’impegno sabaudo dalle rivoluzioni che l’avevano provocato. Più che una guerra di indi-pendenza, quella di Carlo Alberto doveva essere una guerra dinastica, più che una guerra nazionale e romantica, doveva essere una guerra “settecentesca”. Così, invece che compiere un’azione decisa oltre il Mincio e lungo l’Adige, si preferì manovrare lentamente in Lombardia, accontentandosi di impegnare con successo gli austriaci a Goito, Mozambano e Valeggio, tra l’8 e l’11 aprile.
Poi un’offensiva più decisa oltre il Garda si arrestò proprio nel momento di sfruttare i successi di Pastrengo (30 aprile 1848) e Santa Lucia (6 maggio); fu persa così l’occasione di bloccare la strada che da Trento portava i rifornimenti necessari a Verona e a Radetzky asserragliato nel Quadrilatero.
Alla fine di maggio, quando ormai i fatti italiani – la presa di distanza di Pio IX dalla guerra e il “colpo” di re Ferdinando a Napoli – avevano dato ragione al re di Sardegna e al suo scarso entusiasmo per le possibilità di una guerra federale, i piemontesi avevano ancora la forza di battere Radetzky. Il 29 maggio, infatti, un’offensiva austriaca incappò nell’ostinata resistenza della divisione toscana a Curtatone e Montanara e ci volle un’intera giornata di combattimenti prima che gli studenti sgombrassero il campo di fronte a forze quattro volte superiori; il giorno dopo i piemontesi potevano cogliere a Goito il frutto di quella resistenza battendo gli austriaci. La stessa sera del 30 maggio arrivava la notizia che Peschiera era caduta: fu l’ultimo successo di quella guerra.
Il 10 giugno Radetzky, sganciatosi dai piemontesi, investiva Vicenza, difesa da Durando e dai pontifici che avevano scelto di non rientrare a Roma nonostante l’allocuzione di Pio IX. Il giorno dopo la città capitolava e agli uomini di Durando veniva concesso l’onore delle armi e la via della ritirata, con l’impegno di non combattere per i successivi tre mesi. La guerra del resto sarebbe durata molto meno.
Nel giro di un mese il Veneto tornò in mano agli austriaci, tranne Venezia, chiusa d’assedio. Con le spalle finalmente coperte e ricevuti i rinforzi che aspettava, in luglio Radetzky si volse ancora contro la Lombardia e tra il 24 e il 27 i piemontesi furono battuti a Custoza. La sconfitta si trasformò in una rotta disastrosa: il 28 l’esercito sardo ripassava l’Oglio, poi l’Adda, infine si attestava a difesa di Milano. Dopo una breve resistenza, Carlo Alberto inviò parlamentari per trattare la capitolazione della città e avere via libera verso il Piemonte. Il 6 agosto gli austriaci entravano a Milano e tre giorni dopo il generale Salasco firmava l’armistizio, concordato con il generale Hess, capo di Stato maggiore di Radetzky.
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LA DIFESA DELLA REPUBBLICA ROMANA
GLI ITALIANI SI BATTONO!
A mezzogiorno del 9 febbraio, in Campidoglio, veniva solennemente proclamata la Repubblica romana. L’avventura della repubblica, in una Roma orfana di Pio IX, era cominciata.
Mazzini arrivò a Roma il 5 marzo successivo, eletto alla Costituente, e il 29 di quel mese venne nominato triumviro. Roma doveva diventare nelle intenzioni del genovese – che visse in quei mesi la sola esperienza di governo della sua vita – il principale centro di resistenza della rivoluzione nazionale, puntando tutte le energie sulla guerra. Ma presto fu chiaro che ancor prima che sperare in un collegamento con gli altri centri democratici, dalla Toscana a Venezia, la Repubblica avrebbe dovuto pensare alla sua difesa estrema. Non solo contro le truppe napoletane e austriache, ma anche contro quelle francesi: l’anima clericale e autoritaria della Francia aveva prevalso su quella rivoluzionaria e repubblicana e il 25 aprile un primo contingente francese sbarcava a Civitavecchia al comando del generale Oudinot per puntare su Roma. «Gli italiani non si battono» si dice rispondesse Oudinot a chi gli faceva presente la possibilità di una resistenza. Il 30 aprile i 6000 francesi di Oudinot battevano in ritirata di fronte alla resistenza opposta tra Porta Cavalleggeri e Porta San Pancrazio, incalzati sull’Aurelia dalla Legione italiana di Garibaldi.
Il mese di maggio andò avanti in febbrili trattative coi francesi, mentre i napoletani avanzavano a sud, appoggiati da un contingente spagnolo, e gli austriaci occupavano la Romagna e le Marche. Il primo giugno, Oudinot ruppe gli indugi e la tregua.
Il corpo di spedizione contava circa 35.000 uomini, appoggiati da 75 cannoni. A Roma c’erano non più di 19.000 soldati, 7000 dei quali volontari. Erano arrivati da tutta Italia, seguendo il ritirarsi della marea rivoluzionaria: da Dandolo a Mameli, da Garibaldi a Bixio, da Pisacane a Medici.
Lo scontro decisivo avvenne sul Gianicolo, dove oggi il monumento a Garibaldi guarda i rioni di Roma, per tenere Villa Pamphili, il Casino dei Quattro Venti, il Vascello. I soldati di Garibaldi andarono alla carica alla baionetta, incarnando lo spirito della rivoluzione romantica, la stessa dei Bandiera nel 1844 e di Pisacane nel 1853. Anni dopo, sulle terrazze di Calatafimi, le baionette avrebbero spezzato le linee dell’esercito borbonico. Nel 1849, sul Gianicolo si trovarono di fronte i veterani francesi d’Algeria e non ci fu nulla da fare. Villa Corsini fu presa e perduta per tre volte.
Il 30 un attacco generale sfondò la seconda linea difensiva. Era la fine. Il 2 luglio, a sera, Garibaldi usciva dalla città attraverso Porta San Giovanni con 4000 volontari per continuare la guerra fuori dalla morsa romana.
Il giorno dopo, a mezzogiorno, in Campidoglio, veniva proclamata la costituzione, approvata dall’Assemblea il primo del mese. In essa si ritrovava l’impronta sia dell’esperienza giacobina che del mazzinianesimo (anche Mazzini, scettico sul valore della costituzione, aveva lavorato ben poco all’elaborazione); fra l’altro essa era la sola fra quelle approvate nel periodo 1848-1849 a non dichiarare il cattolicesimo religione di Stato.
Nel pomeriggio i francesi entravano in città.
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LEGGERE LA RIVOLUZIONE MANCATA
G. Candeloro, Storia dell’ltalia moderna, volume I: Le origini del Risorgimento (1700-1815), Feltrinelli, Milano 1989; volume II: Dalla Restaurazione alla Rivoluzione nazionale (1815-1846), Feltrinelli, Milano 1990; volume III: La Rivoluzione nazionale (1846-1849), Feltrinelli, Milano 1979; volume IV: Dalla Rivoluzione nazionale all’Unità (1849-1860), Feltrinelli 1990. R. Romeo, Cavour e il suo tempo, 3 volumi, Laterza, Roma-Bari 1894.
R. Romeo, Vita di Cavour, Laterza, Roma-Bari 1990.
P. Ginsborg, Risorgimento rivoluzionario, in “Storia e Dossier” n. 47.
E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, Laterza, Roma-Bari, 1988;
E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia, Laterza, Roma-Bari 1989.
S. La Salvia, Garibaldi, Giunti & Lisciani, Firenze 1995.
E. Liberti, Tecniche della guerra partigiana nel Risorgimento, Giunti, Firenze 1972;
D. Mack Smith, Il Risorgimento italiano. Storia e testi, Laterza, Roma-Bari 1984.
D. Mack Smith, Mazzini, Rizzoli, Milano 1993.
G. Mazzini, Note autobiografiche, Rizzoli, Milano 1986.
G. Monsagrati, Mazzini, Giunti & Lisciai, Firenze 1995.
R Pieri, Storia militare del Risorgimento, Emudi,Tonno 1969.
G. Tramarono, Risorgimento mazziniano, Le Monnier, Firenze 1985. J.White Mario, Vita di Garibaldi, Studio Tesi, Roma 1989.
S. J. Woolf, Il Risorgimento italiano, Einaudi, Torino 1981.
Fonte: Gianluca Formichi, Storia e dossier – A. X, n. 96, luglio-agosto 1995; p. 73-97