Miss Mondo
TOKYO. È stato un lungo pellegrinaggio alla ricerca della Coppa mancante, che la Juventus ha infine concluso qui, all’altra parte del mondo, scalando vette impossibili, riemergendo da situazioni disperate. Un inno al formidabile carattere di questa squadra costituzionalmente incapace di arrendersi. Ma anche un’esperienza singolare, un arricchimento che non ha avuto risvolti esclusivamente calcistici. Un’impresa che merita una rivisitazione, in chiave di flash-back.
LA ROTTA POLARE. L’avventura comincia lunedì 2 dicembre dal Charles de Gaulle di Parigi, dove la comitiva juventina sale sul Jumbo delle linee aeree giapponesi, puntato su Tokyo attraverso la rotta polare. È una lunga corsa incontro alla luce, che il crudele gioco dei fusi orari mette costantemente davanti a noi. Ventidue ore di volo, con una suggestiva sosta tecnica ad Anchorage, in Alaska, dove l’aereo magistralmente infila lo stretto pertugio della pista, unico nastro praticabile (per via delle serpentine sotterranee di riscaldamento) fra imponenti lastroni di ghiaccio. Turbina la neve fresca come un volo di coriandoli, festoso presagio natalizio. Anchorage è un’oasi di vita nella calotta polare, che abbiamo ammirato imponente, bianca e inanimata nel lungo approccio a bassa quota. Deve la sua fortuna alla proibizione, valida per molte compagnie, di sorvolare il territorio sovietico e di fare scalo a Mosca, cosa che abbrevierebbe il viaggio di tre-quattro ore. Ma è già ora di ripartire, per l’ultimo tuffo, sette ore e mezzo (mattina, sera, chi ci capisce più niente?) che ci scarica in assoluta puntualità a Narita, perfetto, emblematico avamposto di quel formicaio che è Tokyo.
BONIPERTI. La guida un Boniperti raggiante, con la famiglia al seguito, tutto proteso all’unica conquista che ancora non adorni il suo zaino di maresciallo. Era grandissima la Juventus di Boniperti giocatore, ma come metteva il naso fuori dai sacri confini fioccavano botte da orbi. Ed era così fiorita la leggenda (non d’altro poteva trattarsi, a giudicare con un minimo di serietà critica) di una Signora inguaribilmente casalinga, negata alle glorie internazionali. Bene, Giampiero, e l’impareggiabile Trap con lui, hanno impiegato poco a spazzar via il fastidioso pregiudizio. In otto anni, dalla Coppa Uefa del ’77, alla Coppa Campioni dell’85, passando attraverso la Coppa delle Coppe dell’84 e la Supercoppa ancora dell’85, Madama delle vittorie ha sbancato l’Europa. Sicché ora fatalmente si trova a spostare in avanti le sue frontiere. Qui a Tokyo, per l’ultima laurea.
TOKYO: È VITA? Tokyo raggruppa i suoi dodici milioni di abitanti, col comprensorio, in una superficie relativamente ristretta. Qui la densità abitativa è autenticamente mostruosa. I suoi abitanti sciamano a plotoni affiancati e complementari, in un inno all’efficienza operativa e, insieme, alla rinuncia alla vivibilità. Il traffico è perennemente paralizzato, ma sono turisti quelli che congestionano, sui 45.000 taxi della città, il modernissimo e futuribile intreccio di strade e sopraelevate. Capisco come dietro il perenne miracolo economico l’inflazione a quota zero o quasi, si agitino forti tensioni e s’incrementi il terrorismo, anch’esso tecnologico, ovviamente. Produrre e lavorare, lavorare e produrre: ma nel meccanismo infernale, la vita è uscita stritolata.
PLATINI. L’incertezza che Michel Platini coltiva sul proprio futuro agonistico, che non è solo frutto di civetteria, alimenta voci romanzesche. Dall’Italia rimbalzano inquietanti congetture sul proposito di Michel — soltanto ventilato, si badi bene — di lasciare il nostro calcio dopo questa stagione. Addirittura un giallo, con minacce di sequestri e di ricatti. Per via del fuso galeotto, gli inviati italiani vengono invitati a verificare nel cuore della notte. Ovviamente si sposta tutto alla mattina seguente: la frotta agitatissima dei giornalisti raggiunge Platini, mentre sta finendo di deliziare i colleghi giapponesi e argentini in una conferenza stampa. Il commento è sintetico ed efficace, non per niente Cambronne era nato dalle sue stesse parti. Forse sono proprio episodi come questi (la risonanza enfatizzata, non la realtà dei fatti) a spingere Michel, dopo quattro anni, esaltanti, lontano dai nostri stress e dalle nostre esasperazioni.
STAMPA E RAI. A proposito di giornalisti, ne sono presenti sedici italiani (con due fotografi del Guerino, Guido Zucchi e Salvatore Giglio) e sei argentini. Ci sono i commentatori di Canale 5, Albertini e Bettega e anche il collega di una radio privata di Torino. Assenza totale, invece, per la RAI-TV italiana. Secondo un’ormai consolidata e discutibile tradizione, un avvenimento, quando è trasmesso dalla principale concorrente nazionale, per il nostro ente di Stato automaticamente cessa di esistere. Eppure è in pratica la finalissima mondiale per squadre di club, cui è pervenuta una formazione italiana. Eppure l’avvenimento è teletrasmesso in 60 Paesi. Mah. Se un giorno Berlusconi dovesse aggiudicarsi i campionati del mondo, che farebbe la RAI, ne ignorerebbe l’esistenza? In assenza di un corrispondente RAI da Tokyo i collegamenti sono curati dalla signora Annamaria Volpi, gentilmente prestata dalla Radio nazionale giapponese.
IL CONIGLIO. Soltanto il sabato la Juventus prende visione del terreno di gioco, il National Olimpie Stadium, dove per l’appunto nel 1964 si disputarono i Giochi Olimpici (ricordate la commovente vittoria di Abdon Pamich?), i primi ad avanzata sofisticazione tecnologica, così come quattro anni prima a Roma si erano esauriti quelli a misura d’uomo. Il fondo è irregolare, la palla vi schizza sopra con imprevedibili saltelli che sfuggono ai più celebrati maestri del palleggio. Splendida immagine offerta da Trapattoni: «Su questo campo, la palla rimbalza come fosse un coniglio». E per fortuna è arrivata la pioggia che ha almeno ammorbidito la crosta.
BRIO E PELÉ. In una vigilia imprevedibilmente nervosa, si inserisce un patetico sfogo di Sergio Brio, il gigante della difesa bianconera, affezionato al suo look di modestia, di nobile gregariato di seconda schiera. È capitato che un collega, scambiando la domanda per la risposta, ha attribuito a Brio debitamente virgolettata questa impegnativa dichiarazione: «Contro la Fiorentina ho segnato un gol alla Pelé». Se ne dispiace pubblicamente Brio, con preoccupazioni che gli fanno onore: «Cosa penserà di me la gente, crederà che sono diventato matto all’improvviso. Eppure lo sapete, ho scelto una linea e voglio rimanervi fedele sino in fondo, non sono tipo da ribalta, io. E poi, pensate un po’ se Pelé lo venisse a sapere…». Nervosismo, dicevo, e non tutti sono amabili e candidi come Brio. Platini non ha mandato giù che gli venisse attribuito un certo giudizio sul Brasile, Tacconi ha qualcosa da ribattere a chi lo ha inserito ai primi posti della classifica fumatori. Certo, giocatori suscettibili. Ma anche giornalisti fantasiosi: mi è capitato di leggere, con titolone di rito, che gli juventini si erano allenati sull’aereo, durante il viaggio d’andata. Giuro, per aver avuto costantemente gli occhi spalancati dall’insonnia da fuso, che la massima espressione agonistica si è limitata a qualche partita di scopone. Però giocata in tuta, questo sì.
MOSER E REGGI. C’è una ristretta, ma qualificata rappresentanza dell’Italia sportiva a sorreggere la fatica della Juve. Il sabato sera arriva Francesco Moser, qui portato dai suoi molteplici impegni promozionali che l’hanno ormai trasformato in infaticabile ambasciatore di se stesso. Per l’occasione, ma soltanto per un giorno, Francesco fa pubblica abiura della sua fede nerazzurra e per motivi patriottici sposa la causa bianconera. Nello stesso albergo, il Tokyo Prince, sede ufficiale della Toyota Cup e che quindi ospita Juventus e Argentinos Juniors, scende Raffaella Reggi, giovane portacolori del nostro tennis femminile, impegnata in un torneo. Mauro, Bonini e Cabrini, i più inclini allo sport della racchetta, le strappano la promessa di un palleggio d’esibizione. Moser arriva trafelato anche allo stadio, appena reduce da un giro dimostrativo nei viali del Palazzo Imperiale, alla guida di un’ottantina di ciclisti giapponesi: ma poi guardate com’è crudele il destino degli uomini, sia pure ad altissimo livello. Trascinato dai suoi sponsor, Francesco deve lasciare la tribuna prima dei supplementari.
IL TRIONFO. E siamo all’ultimo atto. L’avventura si chiude in un crepitare d’emozioni, in una doccia scozzese di sconforti e resurrezioni, non è soltanto una partita di calcio, è una breve ma intensissima trancia di vita. Splendidi avversari nobilitano l’ultima conquista bianconera, Boniperti allenta i suoi solitamente perfetti freni inibitori, è proprio vero che vincere non basta mai, non crea assuefazione. In un angolo, Claudio Daniel Borghi, un autentico fenomeno (cosa sarà ai Mondiali al fianco di Maradona!) mi parla senza tristezza del sogno sfumato, dei suoi sette fratelli a Buenos Aires, della sua incrollabile decisione di arrivare prima o poi, meglio prima, al calcio italiano, il migliore del mondo. A fianco esulta Tacconi, il match winner, che ritiene di aver finalmente concluso la sua traversata del deserto, il lungo approccio alla mentalità Juventus. I giapponesi osservano educatamente sbalorditi questo crogiolo di sentimenti. Sayonara, fine del viaggio.
Adalberto Bortolotti
La cronaca della partita
Juve-Argentinos è una partita drammatica, dai contenuti intensissimi. Vanno in gol per primi i sudamericani, al 55′: rapido contropiede manovrato, Commisso lancia Ereros che, sull’uscita, supera Tacconi con un pallonetto. Replica Platini, trasformando un calcio di rigore concesso dall’arbitro Roth per l’atterramento in area di Serena causato da Olguin. Tornano in vantaggio gli argentini, al 75′, con Castro servito da Borghi. Ma a 8′ dalla fine, pareggia Laudrup. La rete dì Laudrup è preziosa. Il danese parte da fuori area servendo Platini al limite. Circondato da alcuni avversari, Michel restituisce il pallone al compagno con un uno-due largo che lo libera in area. Laudrup raccoglie e salta anche Vidallé. Il portiere argentino tenta di sbilanciarlo ma non vi riesce. E da una posizione difficilissima lo juventino centra il bersaglio. «Un gol impossibile per un giocatore normale», lo definisce un giornale di Copenaghen.
I rigori arrivano dopo due ore di gioco, di emozioni, di calcio vero, stellare. Va alla battuta Brio: Vidallé intuisce la traiettoria del pallone ma viene ugualmente superato. Per gli argentini calcia Olguin. E realizza. Tocca a Cabrini: il portiere della formazione sudamericana è nuovamente battuto. Il primo errore dagli undici metri è opera di Batista, che non sorprende Tacconi. Sul 4 a 3 per la Juve, si porta al tiro Serena: 5 a 3, con una esecuzione perfetta. Lopez rimette in corsa i suoi con un tocco deciso. E sul 5 a 4 per Madama sbaglia Laudrup che si dispera. Va in pedana Pavoni. Tacconi para. Platini batte e segna il rigore decisivo. La gioia del francese, – addirittura in ginocchio davanti all’arbitro Roth – è immensa e conclude la lotteria dei penalty.
Coppa Intercontinentale 1985-1986 – Finale
Tokyo, domenica 8 dicembre 1985
ARGENTINOS JUNIORS-JUVENTUS 2-2 – Dopo i calci di rigore (4-6)
MARCATORI: Ereros 55’, Platini rigore 63’, Castro 75’, Laudrup 82’
ARGENTINOS JUNIORS: Vidallè, Pavoni, Domenech, Villalba, Batista, Olguin, Castro, Videla, Borghi, Commisso (Corsi 86’), Ereros (Lopez 117’). – Allenatore Yudica
JUVENTUS: Tacconi, Favero, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea (Pioli 64’), Mauro (Briaschi 78’), Manfredonia, Serena, Platini, Laudrup. – Allenatore Trapattoni
ARBITRO: Roth (Germania Ovest)
Fonte: Guerin Sportivo n.51-52, 1985