di Marta Camilla Foglia, Milena Gabanelli e Francesco Tortora
Tutti i governi sono sempre stati d’accordo: il futuro di un Paese si costruisce sull’istruzione e quindi è indispensabile investire in una scuola che accompagni gli studenti verso la conoscenza e premi il merito. Ma si fa il contrario: rispetto alla media dei Paesi Ue siamo sotto quasi di un punto di Pil. E ogni anno all’apertura delle scuole scoppia puntuale la crisi degli insegnanti precari: dalle primarie alle superiori mancano i docenti. A pagare il prezzo sono gli studenti, ai quali è negata la possibilità di avere riferimenti fissi nel percorso di crescita. Non ci si mette d’accordo neppure sui numeri. Sul portale unico della scuola si legge che su 943 mila docenti in servizio sono 234 mila quelli con un contratto a termine. I sindacati delineano un quadro ancora più fosco: «Quest’anno – taglia corto Flc Cgil – avremo ben 250 mila precari». Il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara bolla come «fake news» gli allarmi e riduce le cattedre vacanti «a 165 mila». Punto uno: 165 mila è comunque un numero enorme. Punto due: quel numero il ministro lo ricava probabilmente contando solo le cattedre coperte da supplenti con incarichi annuali, escludendo dal conteggio i precari con contratti non a orario pieno.
E tutto questo è in contrasto con le promesse fatte nell’ultimo decennio. In Italia gli insegnanti restano precari, in media, fino a 45 anni e sono tra i più anziani d’Europa: oltre metà del corpo docente ha più di 50 anni, contro il 37% della media dell’area Ocse.
La procedura d’infrazione
Dal 2019 siamo sotto procedura di infrazione della Ue per uso prolungato e sistematico dei contratti a tempo determinato, in violazione delle direttive sul lavoro che impongono la stabilizzazione dopo 3 anni di servizio. Per tentare di archiviare la procedura il governo Meloni a inizio settembre ha inserito nel decreto «Salva-infrazioni» un indennizzo da 4 a 24 mesi a favore dei precari storici della pubblica amministrazione (qui art.12). Se questa «toppa» sarà accettata a Bruxelles è tutto da vedere. Ma come abbiamo fatto ad accumulare un numero così alto di precari? Per capirlo bisogna analizzare il sistema italiano di assunzione dei professori. Sembra studiato apposta per sconsigliare questa professione.
Come ostacolare l’aspirante prof
L’assunzione a tempo indeterminato passa dal concorso pubblico che può essere:
a) Ordinario: aperto a chi possiede la laurea magistrale, dai 30 ai 60 Crediti Formativi Universitari (CFU), e un tirocinio pratico.
b) Straordinario: riservato a docenti con almeno 3 anni di servizio e l’abilitazione all’insegnamento. Gli ultimi concorsi straordinari sono stati fatti nel 2021 con la ministra Azzolina.
Chi supera i concorsi entra in una graduatoria a scorrimento. Le nomine sono su base nazionale quindi se accetti di insegnare nelle regioni del Nord, dove ci sono molti più posti disponibili, è più facile ottenere la cattedra. E poi dipende da «cosa» insegni. Un insegnante di matematica o di inglese avrà meno difficoltà ad avere il posto fisso rispetto a un collega di musica o di educazione fisica, perché dovendo coprire un numero maggiore di ore su tutte le classi, servono più docenti.
c) Un altro modo per essere assunti è far parte delle «Graduatorie ad esaurimento» lista di precari storici con alle spalle decenni di insegnamento, chiusa nel 2007.
E poi ci sono le Graduatorie che servono a tappare i buchi: quelle Provinciali (GPS) utilizzate per assegnare le supplenze annuali (un anno qui, e uno là) e le Graduatorie d’Istituto per le supplenze brevi (un mese qui, e tre settimane là).
Il Pnrr Scuola e i nuovi concorsi
Per ridurre il precariato, il governo in accordo con la Commissione europea ha introdotto il Decreto PNRR Scuola che ha fissato l’obiettivo di assumere 70 mila docenti a tempo indeterminato entro giugno 2026. Però la procedura è quella di indire nuovi concorsi, aperti a tutti i laureati e precari. Il primo è stato fatto a fine 2023, e da settembre a fine dicembre saranno immessi in ruolo 44 mila docenti. Tra i vincitori però solo chi ha già l’abilitazione ottiene subito la cattedra a tempo indeterminato. Chi non ce l’ha, è assunto a tempo determinato con l’obbligo di conseguire entro un anno i 30 o 60 crediti formativi universitari richiesti e di svolgere un tirocinio formativo, anche coloro che a scuola insegnano già da diversi anni. E chi fornisce le abilitazioni? Le università tradizionali e telematiche, e costano fino a 2.500 euro. Più altri 150 euro per l’esame finale. Chi alla fine rispetta i tempi ottiene finalmente il posto fisso, chi invece non ce la fa, è fuori.
Per l’inizio del nuovo anno scolastico, a fronte dei 64.156 posti disponibili, il Ministero ha autorizzato solo 45.124 nuove assunzioni. Il governo infatti ha deciso di accantonare 18.561 posti per un secondo concorso Pnrr che sarà bandito tra ottobre e novembre. Significa che i vincitori dei concorsi Pnrr monopolizzeranno le immissioni in ruolo di quest’anno. E qui scoppia il finimondo perché il decreto ministeriale n. 158 parla chiaro: priorità di assunzione per gli insegnanti delle graduatorie a esaurimento (la famosa lista chiusa nel 2007), per chi ha superato i precedenti concorsi del 2016, 2018 e 2020 e sta ancora aspettando, e infine i vincitori del concorso 2023. Ma cosa c’è che non va? Un dettaglio non da poco, e riguarda i 30 mila insegnanti risultati idonei al Concorso Ordinario 2020, che sono già abilitati, e dovevano essere immessi in ruolo proprio quest’anno. Ebbene questi 30 mila si vedono scavalcati dai vincitori del concorso 2023 e passeranno in coda.
Motivo? Chi ha passato il concorso Pnrr deve essere assunto subito altrimenti si rischia di perdere l’ultima rata da 24 miliardi del piano europeo.
La carenza degli insegnanti al Nord
Questo caos si innesta su una carenza cronica di insegnanti al Nord, perché il costo della vita mal si adatta a uno stipendio di ingresso per un professore delle superiori di 1.460 euro, con la prospettiva di restare precario per qualche decennio. Resta alta invece l’offerta al Sud: spesso gli insegnanti preferiscono rimanere supplenti piuttosto che prendere un contratto stabile al Nord dove si è liberata una cattedra. E chi sceglie di spostarsi dopo tre anni, può chiedere il trasferimento. Criteri prioritari per avere il cambio di sede sono il ricongiungimento familiare o i benefici di leggi speciali come la 104 del 1992 (disabilità o assistenza ad un familiare disabile), di cui viene fatto ampio abuso. Un’idea del fenomeno sta in uno studio di Cisl-scuola per il 2024-25: il 73,3% dei trasferimenti sono insegnanti del Sud che lasciano il Centro-Nord per la regione d’origine.
La discontinuità didattica
La continua rotazione di cattedre associata al perenne precariato rafforza la discontinuità didattica che impatta sulla formazione degli studenti italiani. Uno studio dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza sulla dispersione scolastica evidenzia come, nonostante i progressi, l’Italia mantenga uno dei tassi di abbandono scolastico più alti d’Europa, con il 13,1% nel 2022, contro una media Ue del 9,9%. La dispersione colpisce soprattutto i ragazzi, con picchi nelle regioni del Sud come Sicilia e Campania, e incide in modo ancora più significativo tra gli studenti stranieri. Secondo il recente rapporto «Education at a Glance 2024» gli stipendi dei nostri insegnanti sono, a parità di potere d’acquisto, tra i più bassi d’Europa, nonostante l’aumento dell’ultimo rinnovo contrattuale. Quindi precarietà salariale più precarietà contrattuale generano una demotivazione diffusa, che a sua volta si traduce anche nella difficoltà di trasmettere ai ragazzi quella consapevolezza necessaria a indirizzare il loro futuro e a costruire una società più giusta. Per dirla con le parole del linguista Tullio De Mauro, che alla necessità di una riforma scolastica ha dedicato molti studi: «Il partito della scuola esiste ma non ha la forza di imporsi come partito trasversale che dica al governo, al Parlamento, all’opinione pubblica: se volete scuole che funzionino, bisogna metter mano al portafoglio. Altrimenti non si va avanti, se non in una direzione di progressiva dequalificazione».
Corriere della Sera, 18 settembre 2024