Perché si studia la storia, secondo il Ministero dell’Educazione Nazionale italiano

Sarebbe interessante sapere chi ha redatto un simile manifesto dell’arroganza eurocentrica e soprattutto con quale obiettivo.

E quindi ci risiamo. Cambiano i governi, passano i ministri, si avvicendano le riforme, ma il vizietto di rimaneggiare la scuola per piegarla ai propri obiettivi ideologici non passa mai di moda. Stavolta tocca alle “Nuove Indicazioni per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo di istruzione 2025”, un documento che si propone di rivedere il curricolo scolastico e che, con il solito tono professorale, spiega agli insegnanti – quegli stessi insegnanti che ogni giorno cercano di tenere in piedi un’istituzione massacrata da tagli e riforme cervellotiche – cosa sia la Storia e quale ruolo debba avere nella formazione dei cittadini di domani.

Ora, se uno non fosse abituato alle furbizie di chi redige questi documenti, potrebbe quasi pensare che l’intenzione sia quella di nobilitare lo studio della storia, enfatizzandone il valore per la costruzione del pensiero critico. E invece, a leggerlo con attenzione, emerge tutt’altro: una visione eurocentrica, paternalistica e sottilmente revisionista, che racconta la storia come una prerogativa esclusiva dell’Occidente. Lo si capisce fin dalle prime righe, quando si afferma, senza il minimo pudore, che solo l’Occidente “conosce la Storia” e che altre civiltà al massimo si sono avvicinate a una qualche forma di cronaca, senza mai sviluppare un vero metodo storico. Insomma, gli storici cinesi, arabi, persiani, indiani, africani, giapponesi, per non parlare delle culture indigene delle Americhe, sarebbero poco più che scribacchini incapaci di pensare i fatti in profondità.

A questo punto sarebbe interessante sapere chi ha redatto un simile manifesto dell’arroganza eurocentrica e soprattutto con quale obiettivo. Perché se lo scopo era quello di fornire agli studenti una chiave di lettura per comprendere il mondo in cui vivono, il risultato è esattamente l’opposto: un’impostazione culturale vecchia di secoli, che ignora volutamente le acquisizioni più avanzate della storiografia contemporanea.

E non basta: la storia, così come viene delineata in questo documento, è soprattutto un meccanismo di legittimazione del potere. La narrazione si sofferma sulla stretta relazione tra storia e politica, presentando quest’ultima come il naturale sbocco della coscienza storica. Nulla di sbagliato in teoria, se non fosse che l’accento viene posto su una visione della politica come lotta tra forze organizzate, con un’attenzione quasi maniacale agli assetti di potere e alle strutture istituzionali. Peccato che di popoli, di movimenti dal basso, di trasformazioni sociali guidate dalle masse, si parli poco o nulla.

Non c’è traccia, per esempio, del ruolo delle lotte operaie nel plasmare i diritti sociali. Non una parola sulle rivoluzioni anticoloniali, sulle battaglie per il suffragio universale, sui movimenti femministi, sull’emancipazione dei popoli oppressi. L’unico progresso che viene riconosciuto è quello della civiltà occidentale, che avrebbe illuminato il mondo con il suo pensiero razionale e il suo cristianesimo. Un’idea che neanche l’Illuminismo più ingenuo si sarebbe azzardato a proporre senza un minimo di contestualizzazione critica.

E qui veniamo al punto centrale: il rapporto tra storia e morale. Il documento insiste molto sul fatto che la storia non sia solo una sequenza di eventi, ma una narrazione che porta con sé un giudizio morale. Ma chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi stabilisce quali eventi debbano essere presentati come esempi positivi e quali come deviazioni dalla retta via del progresso? La risposta è implicita in tutto il testo: la storia è quella che serve a giustificare l’ordine costituito, la superiorità dell’Occidente, la centralità della politica istituzionale rispetto ai movimenti sociali.
Ora, che la scuola debba insegnare agli studenti a leggere criticamente la storia è sacrosanto. Ma è proprio questo il problema: il documento non punta affatto a sviluppare il senso critico, bensì a inculcare una visione rigida, monolitica, priva di contraddizioni. Un’impostazione che, in fin dei conti, è l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere la scuola: un luogo di confronto, di dibattito, di apertura. E invece ci troviamo di fronte all’ennesimo tentativo di trasformare l’istruzione in uno strumento di indottrinamento, con la storia ridotta a una lezione di obbedienza civile, a un racconto in cui l’Occidente ha sempre ragione e il resto del mondo, al massimo, può imparare da noi.
E poi ci chiediamo perché gli studenti non si appassionano alla storia. Se la scuola deve trasformarsi in un’agenzia di propaganda, allora tanto vale risparmiare la fatica di insegnarla. Ma se invece vogliamo davvero che la storia abbia un ruolo nella formazione dei cittadini di domani, allora bisognerebbe avere il coraggio di insegnarla per quello che è: un campo di battaglia di idee, una narrazione aperta, problematica, in cui non esistono verità assolute ma solo interpretazioni da mettere alla prova. Una scuola così farebbe paura a molti, perché formerebbe cittadini capaci di pensare con la propria testa. Ed è esattamente per questo che documenti come questo vengono scritti: per impedire che ciò accada.

Alberto Piroddi

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Pubblicato il testo delle “Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione 2025” – Materiali per il dibattito pubblico

Martedì, 11 marzo 2025

La Commissione incaricata della redazione del nuovo testo delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione ha terminato i lavori di redazione della bozza di documento che è oggetto della presente pubblicazione.

La pubblicazione del documento è finalizzata ad avviare nei prossimi giorni la fase di consultazione che la stessa Commissione effettuerà mediante incontri con le associazioni professionali e disciplinari, con le associazioni dei genitori e degli studenti e con le organizzazioni sindacali della scuola.

Il confronto sarà utile per avviare l’iter formale di adozione delle Nuove Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione che andranno a sostituire dall’anno scolastico 2026/2027 quelle adottate nel novembre 2012.

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Nuove Indicazioni 2025
Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione
Materiali per il dibattito pubblico

Solo l’Occidente conosce la Storia. Ha scritto Marc Bloch: «I greci e i latini, nostri primi maestri, erano popoli
scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici. […] è nella durata, dunque nella storia, che si
svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione».

Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia, come compilazioni
annalistiche di dinastie o di fatti eminenti succedutisi nel tempo; allo stesso modo, per un certo periodo della
loro vicenda secolare anche altre civiltà, altre culture, hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le
caratteristiche della scrittura storica. Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su se stesso e non
dando vita ad alcuno sviluppo; quindi non segnando in alcun modo la propria cultura così come invece la
dimensione della Storia ha segnato la nostra.

La Storia, come da oltre due millenni l’Occidente l’intende, non consiste nella raccolta dei fatti e nel metterli
in ordine cronologico. Non dovrebbe essere necessario ricordarlo: la Storia consiste nel pensare i fatti. Nel
pensarli nella loro origine, nei loro nessi, nelle loro conseguenze. E d’altro canto pensare la loro origine non
vuol dire certo solamente indagare chi ne è stato materialmente il protagonista e le sue personali motivazioni.
Vuol dire anche questo: ma vuol dire specialmente indagare le cause più o meno remote che è ragionevole
immaginare siano state indirettamente la causa di quanto è accaduto. Vuol dire studiare l’ambiente sociale o
di qualsiasi altro tipo – per esempio culturale, religioso, economico, geografico – che può averne favorito il
prodursi o influenzato i tratti, e da ultimo in qual modo e misura tutto ciò sia avvenuto. Vuol dire, altresì,
cercare di capire quale influsso ogni singolo evento ha avuto a sua volta nel mutare molto o poco gli ambiti
ora detti, e quindi in che misura esso può aver contribuito a quanto è accaduto in seguito. È attraverso questa
disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine da essa prodotti che la cultura occidentale è stata in grado di
farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di
modellarlo.

Lo specifico modo di osservare e raccontare la realtà che chiamiamo storia risale perlomeno al V secolo a.C.
– in particolare all’opera fondamentale di due autori greci, Erodoto e Tucidide: ed immensa è stata la sua
importanza. Quel tipo di osservazione e di racconto, arricchito dall’esperienza della storiografia romana (si
pensi esemplarmente a Tito Livio o a Tacito), ha definito alcune caratteristiche basilari con cui la cultura
occidentale da allora in avanti si è abituata a giudicare e narrare i fatti riguardanti le collettività umane, in
genere la sfera sociale. Da lì ha preso avvio l’attenzione alla struttura del potere, a valutare realisticamente i
rapporti di forza tra gli attori in campo, ai nessi intercorrenti tra i diversi ambiti dell’agire sociale. Così come
già in quelle lontane pagine ci imbattiamo nella partecipazione da parte dello storico narratore alle vicende
narrate, nella franca manifestazione del proprio giudizio su di esse, che così diviene uno dei centri animatori
del racconto. Ed è per l’appunto questo modello narrativo che implica quel carattere di implicito
ammaestramento per l’azione che fin dall’inizio la storia ha posseduto nella nostra cultura: determinando per
ciò stesso il suo strettissimo rapporto con la politica.

Tali caratteristiche erano destinate ad essere vieppiù rafforzate e precisate in conseguenza dell’avvento del
Cristianesimo. Che procurò di aggiungerne altre di pari importanza.

Per il Cristianesimo, facendosi uomo, Dio aveva voluto manifestare la sua presenza nella vicenda umana. Ma
la sua venuta costituiva in tale vicenda una frattura, un punto di non ritorno. Che come prima cosa era destinata
a cancellare per sempre l’idea (nell’antichità largamente dominante) circa una presunta ciclicità della storia.
Il Cristianesimo pose così termine a una concezione profondamente pessimistica sulle possibilità che la
vicenda storica conoscesse un sostanziale cambiamento/miglioramento, e finì per sostituirne una del tutto
opposta. Dopo la venuta di Cristo, infatti, la storia umana acquistava il carattere di una sorta di percorso di
prova che l’umanità era chiamata a intraprendere sulla via di quella salvezza che il suo redentore le aveva
promesso. In tal modo essa non solo si apriva a una speranza, ma al tempo stesso acquisiva ciò che fino a quel
momento non aveva mai avuto: un senso.

Si affermò così l’idea di una storia dal tempo lineare, fatta interamente dagli uomini (cioè con l’ovvia
esclusione di qualunque intervento esterno di natura magica da parte di individui o cose dotati di poteri
straordinari) e avente un fine eminentemente positivo quale la salvezza. Un fine positivo che, grazie al processo
di laicizzazione che la cultura occidentale comincerà a conoscere dal Seicento, muterà la propria natura cessando di essere quello della salvezza ultraterrena per divenire il fine del progresso.

Il processo così si conclude e giunge fino a noi. Nella cultura dell’Occidente cristiano e laico la storia diviene
lo specchio dei progressi dello spirito umano – come appunto s’intitolerà il celebre saggio di Condorcet, vero
manifesto dei tempi nuovi inaugurati dall’Illuminismo -. Un progresso, almeno secondo l’autore, destinato ad
essere materiale ma insieme e forse ancor più morale, essendo alla fine null’altro che il frutto della sete di
conoscenza, di libertà, di emancipazione, a cui la natura ha destinato gli esseri umani. La storia come specchio
dei progressi dello spirito umano ma al tempo stesso, necessariamente, anche degli ostacoli che ad esso si
frappongono. Dunque strumento principe per la conoscenza dei meccanismi che governano le società, per
comprendere come si dispongono gli interessi dei diversi gruppi sociali, che cosa li muove, come essi si
muovono entro le reti istituzionali. Per capire altresì come agendo sugli animi le idee suscitatrici di grandi
emozioni, di grandi speranze, possono determinare il corso degli eventi.

Ma nella coscienza europea ed occidentale del XIX secolo la storia, la propria storia, – che proprio allora assiste
alla vasta diffusione dei diritti dell’uomo e dei principi costituzionali, alla straordinaria crescita economica e
del benessere, a risultati strabilianti nell’ambito della scienza e della tecnologia – assurge altresì a motivo
decisivo per la formulazione di una presunta superiorità nei confronti di ogni altra popolazione e cultura della
terra. Di quelle popolazioni e culture che nulla sanno di quanto sopra perché la loro storia ha seguito un
tracciato assolutamente diverso non rivestendo perciò ad occhi occidentali alcun significato, potendo essere
quindi tranquillamente ignorata. Come ogni sapere umano pure la storia, insomma, offre il destro di essere
piegata al pregiudizio e alla discriminazione.

Anche in questo modo nella cultura dell’Occidente la storia è divenuta, ed è restata fino ad oggi, l’arena per
eccellenza dove post factum si affrontano il bene e il male variamente intesi. Dove rimane memoria delle
imprese degli individui e dei popoli, e si compie in qualche modo il loro destino finale: una sorta d’
inappellabile tribunale dell’umanità.

È stata per l’appunto una tale crescente centralità culturale che – in un reciproco scambio di causa ed effetto –
ha reso inevitabile l’analoga centralità che dapprima in Occidente e poi dappertutto nel mondo, ha acquistato
la dimensione della politica. La politica intesa in due accezioni: da un lato come insieme dei modi dell’agire
personale e sociale degli individui in vista di questo o quel fine, e quindi come passione per il “tenere per una
parte”, dall’altro lato come riflessione teorica sui caratteri, i contenuti e le conseguenze di tale agire e di tale
parteggiare, come riflessione sugli istituti che ne nascono e ne accompagnano le vicende. Insomma la politica
degli uomini comuni e dei politici da un lato, la politica di Machiavelli dall’altro.

La storia, cioè la conoscenza e il giudizio sul passato, sono divenuti per questa via fonte decisiva per il pensiero
e l’educazione politica dei popoli del mondo occidentale e in seguito di tutti i Paesi della terra. In particolare,
anche grazie alla storia e alla politica, i popoli – dapprima quelli dell’Occidente poi quelli del mondo intero –
hanno potuto prendere coscienza di sé, abituarsi a considerare la propria esistenza collegata a quella di milioni
di propri simili, sono divenuti consapevoli di ciò che li univa – ad esempio una lingua o un passato comuni,
una condizione sociale comune – e maturare così la volontà di acquisire un più ampio e organico protagonismo.
L’esistenza e la vita delle nazioni, delle grandi ideologie moderne e dei loro partiti, è dalla storia e dalla sua
conoscenza che hanno tratto ispirazione e alimento decisivi.

Tanto più ciò sembra valere per un Paese come il nostro in cui si può dire che in generale la storia abbia
rappresentato l’alimento decisivo che nel corso della modernità ha dato al pensiero italiano quella caratteristica
assolutamente sua e peculiare che un filosofo ha chiamato “pensiero vivente”. Per un Paese come il nostro
dove lo “storicismo” – vale a dire l’affermazione circa il carattere storico di ogni conoscenza umana e
l’assorbimento nella dimensione della prassi di ogni significato o prodotto della conoscenza stessa – lo
storicismo, dicevamo, vuoi nella sua versione idealistica crociana che in quella dell’attualismo di Giovanni
Gentile, vuoi nella versione marxista di Antonio Gramsci, ha influenzato in misura decisiva l’intero corso del
Novecento.

Da tutto quanto si è appena detto è facile intendere le ragioni dell’insegnamento della storia, le ragioni del
ruolo cruciale che questo ha nei curricula scolastici. La storia costituisce il principale strumento tanto per
conoscere come si è formata la nostra civiltà, per comprenderne le caratteristiche di fondo e i valori, che per
inquadrare al tempo stesso le vicende della scena mondiale e i rapporti di questa con l’Occidente. Ma non si
tratta solo di questo. La storia, come si mostra nei grandi testi che l’hanno raccontata, intesa cioè come indagine
e ragionamento intorno agli avvenimenti, al loro svolgimento, alle forze che li hanno prodotti e alle qualità dei
loro protagonisti, si è sempre accompagnata anche a un giudizio morale su quanto era oggetto del suo racconto.
In questo modo essa ha rappresentato una pagina decisiva del modo come si è costruita non solo la nostra
comprensione del mondo ma la stessa nostra consapevolezza del bene e del male.

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