La lingua può anche consentire di METTERSI NEI PANNI degli altri.
Ce l’ha mostrato Dante con alcuni neologismi, coniando “parole su misura” come, per esempio, verbi derivati da pronomi personali. Potenza della lingua che sa rappresentare identificazioni con l’altro da sé e in cui l’io si congiunge in felice simbiosi con il tu o con il lui o il lei, in benevola reciprocità!
Per fare questo, però, occorre salire direttamente in Paradiso. Qualche esempio? Tre attestazioni ricorrono nel canto IX del Paradiso, nel discorso che Dante rivolge a un beato, Folchetto di Marsiglia: “inluiarsi”, “intuarsi” e “inmiarsi”:
«Dio vede tutto, e tuo veder S’INLUIA» (v. 73): cioè “Dio vede ogni cosa, e la tua vista entra in LUI”;
e poco più sotto: «Già non attendere’ io tua dimanda, / s’io M’INTUASSI come tu T’INMII» (vv. 80-1): ”Io certo non aspetterei ancora la tua domanda, se potessi entrare in te come tu entri nei miei pensieri (dato che potrei leggere nel pensiero)”.
Un altro verbo, questa volta ricavato dal pronome “lei”, compare nel canto XXII del Paradiso, “inleiarsi”, nelle parole che Beatrice rivolge a Dante:
“(…) prima che tu più T’INLEI” (v.127) ovvero “(…) prima che tu entri più profondamente in essa”. In questo caso la posta in gioco è ancora più alta: entrare in lei significa entrare nella beatitudine suprema di Dio.
Questi termini sono “pezzi unici”, oggi del tutto scomparsi. Lasciano un retrogusto di intima immedesimazione con realtà altre da sé. Un po’ come quando la poetessa Wislawa Szymborska scrive:
“Ascolta / come MI batte forte il TUO cuore”.