“Fa niente” o “non fa niente”

La lingua, con le sue apparenti dissonanze, rivela sempre qualcosa di più profondo di quanto crediamo.

di Alberto Piroddi

L’arte della lingua, come ogni forma di cultura, non è mai una struttura fissa, un monolite intoccabile che resiste al tempo, ma piuttosto un organismo vivente, un tessuto che si espande, si contrae, muta, si logora e si rigenera secondo dinamiche imprevedibili. Ogni idioma conosce i suoi momenti di ordine e i suoi slanci di caos, e ciò che oggi ci appare come una regola inviolabile potrebbe un giorno dissolversi nell’inevitabile entropia del mutamento linguistico. Tuttavia, non tutto il disordine è progresso e non tutto il mutamento è evoluzione. È in questa intersezione tra norma e deriva, tra grammatica e uso, che si situa la questione apparentemente banale, ma in realtà assai rivelatrice, della costruzione “fa niente” rispetto alla forma canonica “non fa niente”.

Chiunque sia dotato di una sensibilità linguistica anche solo rudimentale si accorgerà immediatamente di una tensione irrisolta tra queste due espressioni. “Non fa niente” è, nella lingua standard, la forma corretta, quella che rispetta la struttura logico-sintattica dell’italiano contemporaneo. Essa segue la regola che impone la presenza della doppia negazione quando il pronome indefinito (niente o nulla) si colloca dopo il verbo. “Fa niente”, invece, è una costruzione che oggi si trova frequentemente nel parlato informale e che, a un’analisi superficiale, potrebbe apparire come un semplice errore di omissione. Ma l’errore, in linguistica, non è mai un fenomeno isolato né privo di cause, ed è proprio l’analisi delle sue radici a fornirci una prospettiva sulla natura stessa dell’italiano, sui suoi processi di semplificazione e sulle forze centrifughe che continuamente lo spingono ai margini della sua struttura normativa.

Il problema non è nuovo. L’italiano, come ogni lingua derivata dal latino, ha attraversato molteplici fasi di trasformazione nella costruzione della negazione. Se risaliamo al latino classico, vediamo che la negazione era semplice e diretta: non facit significava esattamente “non fa”. Eppure, già nel latino volgare si avverte la tendenza a rafforzare la negazione attraverso elementi aggiuntivi, come avviene nelle lingue romanze moderne. Il francese, ad esempio, ha sviluppato la forma ne… pas, nella quale il secondo elemento (pas) era in origine un rafforzativo che si riferiva a qualcosa di piccolo e concreto (“non un passo”), ma che col tempo ha assunto valore puramente negativo. Allo stesso modo, in italiano l’uso di niente o nulla dopo il verbo non nasce come un elemento di negazione autonoma, bensì come un rafforzativo della negazione già espressa da non.

Tuttavia, le lingue non si muovono sempre nella direzione dell’accumulo: a volte, il processo si inverte e si assiste a una sottrazione progressiva di elementi ritenuti ridondanti. La tendenza alla semplificazione, che attraversa tutte le fasi della storia linguistica, ha portato, in certi contesti, all’eliminazione della prima negazione, lasciando in posizione preponderante l’elemento che in origine era solo un rafforzativo. In molte varietà dialettali italiane, specialmente settentrionali, questo fenomeno è stato ampiamente documentato. Il veneziano, ad esempio, usa spesso costruzioni come ghe xe gnente (letteralmente: “c’è niente”) senza l’ausilio del non. Analogamente, in molte parlate del nord Italia si sente dire fa niente con la stessa naturalezza con cui l’italiano standard richiede non fa niente.

Il dialetto, dunque, è il primo sospettato nella diffusione di questa forma ridotta. Ma ridurre il fenomeno a una semplice interferenza dialettale sarebbe superficiale. Le influenze regionali sulla lingua standard sono sempre esistite e non tutte hanno avuto la forza di imporsi su larga scala. Se fa niente si è diffuso oltre la sua area di origine, significa che ha incontrato una predisposizione naturale dell’italiano contemporaneo alla semplificazione della negazione. Il vero problema, allora, è capire perché la nostra lingua sembri disposta ad accettare questa erosione.

In parte, la risposta sta in quel fenomeno che si potrebbe definire “risparmio linguistico”, un principio di economia espressiva che tende a eliminare elementi percepiti come superflui, specialmente nel parlato. Se due parole svolgono la stessa funzione, una delle due è destinata a scomparire. Ciò che in origine era un’eccezione dialettale, dunque, si è innestato in una più generale tendenza alla contrazione. È la stessa logica che ha portato all’abbreviazione di forme come televisione in tele, o alla riduzione delle doppie negazioni nell’inglese contemporaneo (I don’t know nothing è oggi meno frequente rispetto alla forma standard I don’t know anything).

Ma esiste un’altra chiave di lettura, meno immediata ma forse più profonda, che riguarda la nostra percezione del nulla. “Non fa niente” è una frase che contiene al suo interno una doppia negazione implicita: si nega il fare, e si nega anche la presenza di qualcosa di determinato. È una frase che contiene un’ombra di pensiero metafisico, quasi a evocare il problema antico del nulla come assenza dell’essere. Dire “fa niente”, al contrario, è un paradosso logico, perché attribuisce a niente un’azione positiva, un ruolo attivo. Il “niente” non è più un complemento dell’assenza, ma diventa qualcosa che fa, che agisce, che esiste in quanto soggetto di un’azione.

Se vogliamo spingerci in una lettura filosofica, potremmo dire che “fa niente” è l’espressione perfetta di una civiltà che tende a rendere operativa l’inesistenza, a trasformare il vuoto in un’entità dotata di una sua funzione. È, se vogliamo, una forma inconsapevole di nichilismo quotidiano, una piccola rivoluzione sintattica che esprime un mutamento nella percezione dell’essere. Non è un caso che Jean-Paul Sartre, nella sua Nausea, scrivesse che “il nulla s’insinua dappertutto, come l’acqua tra le fessure di un vecchio muro”.

Il linguaggio non è mai neutro, e ogni trasformazione, anche minima, porta con sé una variazione di pensiero. Quando diciamo “non fa niente”, stiamo ancora ragionando in termini aristotelici, dove il principio di non contraddizione domina la nostra visione della realtà. Quando diciamo “fa niente”, abbiamo già compiuto un passo verso una logica più sfumata, meno vincolata alle categorie della negazione assoluta. In un certo senso, abbiamo accettato che il nulla possa essere attivo, che il vuoto possa produrre effetti, che l’assenza possa trasformarsi in un fenomeno operante.

Forse è per questo che la forma “fa niente” si diffonde con naturalezza nel parlato: non è solo una questione di dialetti o di pigrizia espressiva, ma il sintomo di un più generale slittamento nella percezione del mondo. La lingua, con le sue apparenti dissonanze, rivela sempre qualcosa di più profondo di quanto crediamo. E così, dietro una semplice espressione quotidiana, si cela il riflesso di una mutazione culturale che riguarda non solo la grammatica, ma il nostro stesso modo di pensare il reale.

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