La lettera di Antonio Gramsci alla sorella Teresina, scritta dal carcere, riflette un equilibrio sottile tra affetto familiare e considerazioni profonde sulla lingua, l’educazione e l’identità culturale. Nonostante le difficoltà della prigionia, Gramsci manifesta una vivida attenzione ai dettagli della vita quotidiana, come le fotografie dei nipoti e le loro somiglianze, dimostrando quanto fosse radicato il legame con la famiglia.
Il tema linguistico emerge come uno dei fulcri del testo. Gramsci si sofferma sull’importanza del sardo, che definisce non come un semplice dialetto, ma come una lingua autonoma. Questa sottolineatura non è casuale: rispecchia la sua visione della lingua come elemento fondamentale per la formazione intellettuale e per il radicamento identitario. Gramsci critica la tendenza a reprimere l’uso del sardo nei bambini, individuando in questa pratica un errore pedagogico che impoverisce la creatività e limita il contatto con il loro ambiente naturale. Tale osservazione è emblematicamente legata alla sua idea che le lingue non siano solo strumenti di comunicazione, ma anche portatrici di una visione del mondo. Il monito rivolto a Teresina si basa sull’esperienza personale, riconoscendo come l’imposizione dell’italiano su Edmea abbia danneggiato la sua libertà espressiva.
La riflessione si estende anche al bilinguismo. Gramsci ritiene che i bambini possano apprendere più lingue senza difficoltà, se lasciati liberi di esplorare e di svilupparsi in modo spontaneo. Questo approccio educativo, inclusivo e rispettoso delle radici culturali, rivela una modernità sorprendente, anticipando dibattiti pedagogici ancora attuali. La contrapposizione tra la lingua della famiglia e quella della società rappresenta, per Gramsci, un rischio di alienazione, un problema che può essere superato solo favorendo un’interazione armoniosa tra le diverse sfere linguistiche.
Anche il riferimento ai propri figli, Delio e Giuliano, e al loro percorso linguistico evidenzia quanto questa tematica fosse vissuta in prima persona. L’accenno alla “febbre spagnola” che i bambini hanno superato aggiunge un ulteriore elemento umano, mostrando la preoccupazione paterna e il desiderio di continuare a guidarli anche da lontano. L’esempio delle canzoncine in diverse lingue, tra cui il sardo, non è soltanto un dettaglio affettuoso, ma un’ulteriore dimostrazione del valore che Gramsci attribuiva alla pluralità culturale.
L’umorismo che traspare dal tentativo fallito di insegnare “Lassa sa figu, puzone” è una nota lieve che bilancia la serietà del contenuto, senza tuttavia ridurne la portata. Gramsci sembra utilizzare il ricordo di un aneddoto familiare per alleggerire il tono della lettera, mantenendo viva una connessione emotiva con i destinatari.
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LETTERA DAL CARCERE ALLA SORELLA TERESINA
Carissima Teresina,
mi è stata consegnata sola pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e che conteneva la fotografia di Franco. Ho così potuto vedere finalmente il tuo bimbetto e te ne faccio tutte le mie congratulazioni; mi manderai, è vero? anche la fotografia della Mimì e così sarò proprio contento. Mi ha colpito molto che Franco, almeno dalla fotografia, rassomigli pochissimo alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paolo e alla sua stirpe campidanese e forse addirittura maurreddina: e Mimì a chi somiglia? Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro. Delio e Giuliano sono stati male in questi ultimi tempi: hanno avuto la febbre spagnola: mi scrivono che ora si sono rimessi e stanno bene. Vedi, per esempio, Delio: ha cominciato col parlare la lingua della madre, come era naturale e necessario, ma rapidamente è andato apprendendo anche l’italiano e cantava ancora delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una e dell’altra lingua. Io volevo insegnarli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone», ma specialmente le zie si sono opposte energicamente […]
Abbraccio Paolo affettuosamente; tanti baci a te e ai tuoi bambini
Nino