Il tempo perduto della generazione connessa

La tecnologia ha costruito una dipendenza che non si dissolve con un semplice gesto di volontà. L’illusione più grande è pensare di poterla contrastare solo con divieti e regolamentazioni.

“Professore, mi sento solo.”

Questa frase, pronunciata con voce incerta, non è il grido di un vecchio malato abbandonato in una casa di riposo, né la confessione di un esule smarrito in una terra straniera. È il lamento di un ragazzo di vent’anni, cresciuto in un mondo in cui la solitudine sembrava bandita, in cui ogni istante era condivisibile, ogni emozione traducibile in un’emoji, ogni esperienza ridotta a un frammento di pochi secondi da postare su una storia destinata a dissolversi nel giro di ventiquattro ore. Un mondo in cui, paradossalmente, la connessione ha generato disconnessione.

Non è un caso che oggi la Generazione Z inizi a guardarsi indietro con un misto di nostalgia e disillusione. La tecnologia ha regalato loro tutto e ha tolto loro tutto: un’infanzia senza noia, un’adolescenza senza attesa, una giovinezza senza imprevisti. Ma è davvero possibile crescere senza la fatica dell’assenza, senza il vuoto fecondo dell’attesa, senza la carne e il sangue del contatto umano? “Abbiamo vissuto senza mai essere veramente lì,” dice un’altra giovane paziente, come se solo ora riuscisse a prendere le distanze da un incantesimo collettivo.

L’uso ossessivo dello smartphone non è stato solo un’abitudine, è stata una forma di assoggettamento inconscio, un dispositivo di controllo che ha trasformato il desiderio in consumo, la parola in notifica, l’identità in algoritmo. I numeri parlano chiaro: due terzi dei giovani tra i 16 e i 24 anni ritengono che i social media abbiano fatto più danno che bene. La consapevolezza del danno subito è il primo passo verso la ricerca di una via d’uscita. E infatti, come in una sorta di risveglio collettivo, questa generazione comincia a organizzare gruppi di lettura, serate senza telefoni, persino incontri per imparare di nuovo a conversare. Si riprendono spazi di socialità che erano stati sequestrati dalla tirannia della connessione permanente.

Questo rimpianto diffuso per un passato mai vissuto non è solo una nostalgia individuale, è il segno di un trauma culturale più ampio. Robert Putnam, con il suo Bowling Alone, aveva già descritto la dissoluzione del legame sociale in America, ma ora ci troviamo di fronte a una frattura ancora più radicale: i nativi digitali hanno scoperto che la comunità promessa dai social era una simulazione, che l’intimità offerta dagli schermi era un’illusione. Il giovane che si confessa solo davanti al terapeuta non è diverso da chi, guardando la propria vita scorrere sullo schermo, si chiede quando abbia smesso di viverla davvero.

“Perché non mi sento felice? Perché mi sembra di non aver vissuto nulla di autentico?” chiede un’altra ragazza durante una seduta. La risposta non sta in una condanna moralistica della tecnologia, né in un banale invito a “spegnere il telefono e uscire di casa.” La questione è più profonda: il digitale ha riscritto la nostra esperienza del tempo e dello spazio. Ha abolito la distanza, reso l’attesa insopportabile, saturato ogni vuoto. Ma la vita umana ha bisogno proprio di questo: dell’assenza che fa nascere il desiderio, dell’attesa che amplifica il piacere, della distanza che dà profondità al legame.

Non è un caso se i giovani oggi, quasi con disperazione, cercano modi per ricostruire la propria umanità perduta. Nightclub e festival impongono adesivi sulle fotocamere dei telefoni per impedire di filmare ogni istante, gruppi di camminate senza smartphone spuntano nelle città, si riscopre persino il piacere di lasciare il telefono fuori dalla porta durante una cena. “Quando non ho il telefono, le persone mi guardano negli occhi,” racconta un ragazzo. È un’osservazione banale solo in apparenza: per chi è cresciuto con lo sguardo sempre rivolto verso uno schermo, la scoperta dell’incontro umano è un evento quasi mistico.

Certo, nessuno crede che basti spegnere i dispositivi per tornare a una presunta età dell’oro della socialità. La frattura che si è aperta è più profonda. La tecnologia ha costruito una dipendenza che non si dissolve con un semplice gesto di volontà. L’illusione più grande è pensare di poterla contrastare solo con divieti e regolamentazioni. Il progetto di alzare l’età minima per l’accesso ai social da 13 a 16 anni è forse un passo nella giusta direzione, ma non risolve il problema. La vera sfida non è impedire ai giovani di usare i social, è aiutarli a riscoprire il desiderio di qualcosa di diverso.

La differenza tra un’epoca e un’altra non è mai una questione di strumenti, ma di esperienze. L’umanità ha attraversato innumerevoli rivoluzioni tecnologiche, ma ciò che definisce il senso di un’epoca è la qualità delle relazioni che sa costruire. Se oggi la Generazione Z guarda indietro con rimpianto, è perché ha capito che essere costantemente connessi non ha significato essere più vicini, che condividere tutto non ha significato condividere veramente.

Questa consapevolezza, dolorosa e lucida, è la premessa di una possibile rinascita. Non sarà un ritorno al passato, perché il passato non ritorna mai. Sarà qualcosa di diverso, di nuovo. Qualcosa che dobbiamo ancora immaginare, ma che forse sta già nascendo in quei piccoli gesti: il telefono lasciato fuori dalla porta, lo sguardo che torna a incrociare un altro sguardo, il silenzio che smette di essere un vuoto da riempire e diventa lo spazio in cui finalmente possiamo ricominciare a parlare.

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