La società contemporanea è dominata da un malinteso pedagogico che sta producendo generazioni di individui fragili, incapaci di affrontare le difficoltà della vita. I genitori di oggi, spesso animati dalle migliori intenzioni, si trasformano in veri e propri giardinieri che curano, proteggono, evitano ogni inciampo, soffiano nasi, asciugano capelli, portano zaini e impediscono qualsiasi esperienza frustrante ai propri figli. Il risultato di questo approccio educativo è devastante: bambini incapaci di gestire un rifiuto, una sconfitta, una delusione. Bambini che crescono in un mondo di gommapiuma, privati della possibilità di costruire resilienza, di acquisire autonomia e di comprendere che la vita è fatta anche di dolore, fatica e ostacoli.
Si pensi all’assurdità della questione dei genitori chiamati a scuola per asciugare i capelli dei figli dopo la lezione di educazione fisica. Bambini di otto anni che, secondo gli adulti, non sarebbero in grado di tenere in mano un phon. Questo episodio è solo l’ennesima dimostrazione di una società che sta eliminando ogni opportunità di crescita autonoma per le nuove generazioni. Quando ero bambino, nessuno si preoccupava di queste sciocchezze. Se uscivi con i capelli bagnati, ti prendevi il raffreddore e amen. La malattia era una condizione umana normale, un’esperienza di vita che non veniva drammatizzata né evitata a ogni costo. Oggi, invece, i genitori si preoccupano in modo ossessivo di prevenire ogni minimo disagio, come se ogni difficoltà fosse un trauma irreparabile.
Il problema si allarga a tutta la gestione dell’infanzia. Nei parchi giochi si installano pavimenti antitrauma, nelle scuole si rimuovono ogni tipo di ostacolo, nelle case si eliminano le esperienze che potrebbero risultare minimamente frustranti. Questa ossessione per la protezione sta cancellando il valore pedagogico della caduta, dell’errore, dell’ostacolo. Un tempo, la saggezza popolare ci ricordava che si impara cadendo e rialzandosi. Oggi, invece, si fa di tutto per evitare la caduta, con il risultato che i bambini non imparano mai a rialzarsi. È un fenomeno che ha radici profonde e che si manifesta in una molteplicità di aspetti della vita quotidiana. Un tempo, ai bambini veniva detto di badare a sé stessi, di assumersi responsabilità, di affrontare le conseguenze delle proprie azioni. Mia nonna romagnola, per esempio, non si preoccupava di me se mi sbucciavo un ginocchio. Mi guardava e diceva: “Badati”. Un imperativo semplice e potentissimo, che significava: prenditi cura di te stesso, risolvi il problema, impara a cavartela da solo. Era un’educazione basata sulla fiducia nelle capacità del bambino, sulla convinzione che i piccoli dovessero imparare a diventare adulti attraverso l’esperienza diretta. Oggi, invece, ogni inciampo viene trasformato in un dramma collettivo. Se un bambino cade, i genitori si precipitano a sollevarlo, a consolarlo, a cercare colpevoli. Il messaggio che passa è devastante: non sei in grado di affrontare nulla da solo.
Un’altra forma di questa iperprotezione è l’ossessione per la sicurezza emotiva. In questa società, dove il dolore deve essere eliminato a tutti i costi, si cerca di nascondere ai bambini anche la realtà più ineludibile della vita: la morte. Un tempo, la perdita di un nonno era un’esperienza fondamentale nella crescita di un bambino. Si andava al funerale, si ascoltavano i racconti della vita del defunto, si imparava il valore della memoria, della perdita e della continuità della vita. Oggi, invece, si tende a nascondere la morte ai bambini. Gli si dice che il nonno è partito, che è in viaggio, che è andato a vivere altrove. Si creano storie consolatorie che privano i piccoli dell’opportunità di comprendere una verità essenziale: la vita ha una fine, e la fine della vita è parte stessa della vita. Questo approccio iperprotettivo non si limita alla morte biologica, ma si estende a ogni esperienza di perdita e di separazione. Persino le separazioni tra genitori vengono gestite con una reticenza ipocrita. Si evitano spiegazioni dirette, si cerca di nascondere la realtà come se i bambini fossero incapaci di coglierla. Ma i bambini non sono stupidi. Capiscono benissimo quando un rapporto è finito, quando la casa è piena di tensione, quando due persone non si amano più. L’unica cosa che non hanno è un adulto che abbia il coraggio di dire loro la verità. E questa mancanza di verità li rende più insicuri, non più protetti.
Il discorso si estende a tutta la costruzione dell’immaginario infantile. La società contemporanea ha deciso che il mondo deve essere un posto rassicurante, privo di conflitti, di antagonisti, di cattivi. Per questo motivo, si è deciso di riscrivere le fiabe, eliminando ogni riferimento al male, alla paura, al pericolo. Cappuccetto Rosso non viene più mangiata dal lupo, la strega di Hansel e Gretel non è più cattiva, i cattivi vengono sostituiti da figure neutre, rassicuranti. Ma eliminare il male dalle fiabe significa privare i bambini di uno strumento essenziale per comprendere la realtà. Le fiabe servono proprio a insegnare ai bambini che il mondo è fatto di buoni e di cattivi, che esistono pericoli da evitare, che ci sono situazioni in cui bisogna stare attenti. Se eliminiamo queste narrazioni, stiamo preparando i bambini a un mondo che non esiste, un mondo fasullo e artificiale che non li aiuterà minimamente ad affrontare la vita reale.
Il paradosso di questa neutralizzazione è che, mentre si eliminano le fiabe classiche, si crea un’ossessione ipocrita per la rappresentazione della diversità. Oggi ogni prodotto culturale deve includere ogni possibile categoria sociale, etnica e sessuale, non per arricchire il racconto, ma per rispondere a una logica di casting forzato che trasforma la diversità in una caricatura. In questa ansia di rappresentazione, si dimentica che la vera diversità non è data dall’elenco delle categorie sociali presenti in un film o in un libro, ma dalla varietà delle esperienze, delle emozioni, delle storie personali. La diversità non è un elemento da inserire a tavolino per soddisfare un requisito di inclusione, ma una realtà che emerge dalla vita stessa.
L’effetto finale di questa società iperprotettiva, ipercontrollata e iperomologata è una generazione di individui che non sanno più affrontare la realtà. Il mondo del lavoro, le relazioni umane, la gestione delle emozioni, tutto diventa insormontabile per chi non ha mai imparato a gestire la frustrazione, il dolore, l’errore. Il problema non è solo educativo, ma sociale. Crescere generazioni di persone incapaci di tollerare il minimo disagio significa costruire una società debole, incapace di affrontare le difficoltà della storia, della politica, dell’economia. Se i bambini crescono senza imparare a rialzarsi da una caduta, come potranno mai affrontare una crisi economica, una pandemia, un conflitto? Il risultato è che ci troviamo di fronte a una massa di adulti-bambini, incapaci di prendere decisioni, di assumersi responsabilità, di costruire un progetto di vita.
La soluzione è semplice, ma difficile da accettare: bisogna tornare a educare i bambini alla realtà, non a un mondo artificiale di plastica e gommapiuma. Bisogna ridare loro la possibilità di sbagliare, di cadere, di soffrire. Bisogna far loro vivere le esperienze nella loro interezza, senza filtri, senza protezioni eccessive. Un bambino che impara a soffiare il naso da solo, a farsi lo zaino, a rialzarsi dopo una caduta, sarà un adulto più forte, più resiliente, più capace di affrontare la vita. Insegnare ai bambini che la vita è fatta di difficoltà non significa essere crudeli, significa dar loro gli strumenti per affrontare il futuro. Significa smettere di trattarli come esseri deboli e iniziare a trattarli come persone in crescita, con una loro forza, una loro intelligenza, una loro capacità di adattamento. Solo così potremo costruire una società di individui autonomi, capaci, responsabili. Altrimenti continueremo a sfornare generazioni di persone che, di fronte al primo ostacolo, non sapranno fare altro che cercare qualcuno che asciughi loro i capelli.