Paolo Crepet: “Genitori, non fate niente!”

“Genitori non fate niente!”A volte con i figli non si deve fare niente… Niente! La meravigliosa regola della reciprocità. Il giudice ed il meraviglioso boia.

Viene da me una coppia di genitori e un ragazzo di 16 anni. La madre mi dice: “Questo qui, all’istituto tecnico, ha deciso che va in sabbatico.”

Non l’avevo mai sentito. Sono lieto di imparare, come si imparano delle cose straordinarie. Ma non è che l’ha detto con dolore, l’ha detto come se fosse la cosa più normale del mondo.

Dico: “Bene, signore. Quindi?”

E dice: “E vogliamo da lei…”

“Che cosa?”

“Eh, che si deve fare?”

“Io ve lo devo dire? Vabbè, ve lo dico. Lei non deve fare niente.”

“Niente?”

Il ragazzo… ho capito subito che si metteva male. La mamma e il papà ci hanno messo un po’. Ma non perché fosse complicato da capire. È facilissima da capire. È che non ci vogliono entrare dentro quel discorso lì.

Allora, se un ragazzo o una ragazza non fa niente per sé, per esempio, non va a scuola, non è promosso, ma perché noi dobbiamo fare qualcosa per loro?

È così semplice.

Si chiama regola della reciprocità.

Voi mi avete invitato, io sono arrivato. Non è che ho detto: “Ma forse vengo sabato, forse vengo domenica.”

E voi siete venuti qui. Non è che avete detto: “Forse oggi, forse domani.”

No, no. Ci siamo dati un appuntamento. Io ho fatto un sacco di chilometri, sono qua. Reciproco. E voi siete qua. È così che si fanno le cose, o no? O avete un’altra regola? Bene, si chiama re-ci-pro-ci-tà. Un genitore fa delle cose per un ragazzo, per una ragazza, se quel ragazzo, quella ragazza fa qualcosa per sé stesso. Non lo fa? E non si fa niente. Niente!

E questo signore mi diceva: “Che vuol dire niente?”

“Niente. Ha capito niente? Ha presente niente? Glielo devo spiegare?”

“Sì, è meglio.”

“Bene, glielo spiego. Lei ha capito tutto, ma io glielo spiego. Perché faccio finta di pensare che lei non abbia capito. Ma siccome fa finta di non avere capito, glielo rispiego molto bene. In italiano. Sa cosa vuol dire niente? Niente internet. Niente telefonino. Niente uscite. Niente paghetta. Niente motorino. Niente!”

“Sono severo? No. Sono sano di mente. Una cosa diversa.”

[Applauso]

“Molto sano di mente.”

Mio padre faceva così. Perché mio nonno faceva così. E non vedo perché avrei dovuto cambiare, perché siamo arrivati nel 2000. E cosa avrei dovuto cambiare? Quello che hanno fatto dei sani di mente che sono venuti prima di me? E siccome anch’io, grazie a Dio, sono sano di mente, non capisco perché avrei dovuto cambiare rotta. È perché mia figlia è nata nel 1994? Ma perché mai? Sono quelle due, tre cose basilari della vita.

Anche perché nel mio mestiere, dopo tanti tanti anni, ne ho viste talmente tante, tutte così uguali, che anche un perfetto cretino avrebbe capito. Perché con il buonismo siamo arrivati a questo. Con i miliardi di sì siamo arrivati a questo. Togliendo qualsiasi regola, siamo arrivati a questo. E sapete perché l’abbiamo fatto? Perché è comodo. È molto comodo. Provate a mettere delle regole. E poi, le regole hanno bisogno di coerenza.

Il mio papà faceva il giudice. E mia mamma faceva il boia.

E ha funzionato… così. Quando lui decideva… Quando succedeva qualcosa, non mi chiamavo più Paolo in famiglia. Mio padre mi chiamava “Questo Qui”. Quando entravo nel cono del “Questo Qui”, questo qui non esce. Ero io. Indubitabilmente non esce. Per quanto? Per due, tre settimane. Mia mamma arrivava e diceva: “Quattro, per essere sul sicuro.”

Non faceva meno. Faceva più. Perché? Perché era sana di mente. Perché sapeva che doveva fare così. Perché era l’unico modo per farmi capire che o io imparavo a fare delle cose per me stesso, o sarebbe stata la mia fine. La mia fine. Non la loro fine.

Perché io dovevo fare. Perché se mio padre mi avesse detto:

“Tu fai medicina in sei anni, dodici, ventiquattro, trentasette… Non ti preoccupare, appartamentino in via Carducci c’è…”

Ma io sarei qui a parlare adesso? Ma no, davvero. Ovvio che no. Io sono qui perché allora seminarono con cose semplici e chiare. Non ho mai ricevuto una sberla. Non c’è bisogno di educare né con il buonismo né con la cinghia. Si può fare una cosa intelligente, che non è né il buonismo né la cinghia.

Per esempio, si chiama autorevolezza. Sapete questa parola strana? Autorevolezza. Che non è autoritarismo. Si chiama autorevolezza. E che vuol dire? Vuol dire che i figli non ti devono prendere per i fondelli. Che ci siamo capiti. Oppure ci siamo capiti. O è così, o Pomì—si diceva una volta. È tanto semplice, o no?

È complicato sapere dire a loro che il loro mestiere è essere promossi? È complicato? Possibilmente in una scuola normale. Una scuola normale che non c’è più in questo paese. Perché siamo anche stati capaci di distruggerle le scuole. 99,5% dei ragazzi e delle ragazze che arrivano alla maturità sono promossi. Questo è un fallimento nazionale. Ma come si fa a pensare che la scuola sia un diplomificio? Che tu abbia un diritto naturale a prendere un diploma anche se non hai aperto neanche mezzo libro? Un diritto divino? Ma per andare dove? Per andare dove? Ditemelo! Per andare dove?

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