Massimo Recalcati – Lutto e nostalgia
Piazza Garibaldi, Orzinuovi | Osare – 2023
Cosa accade dentro di noi quando perdiamo chi abbiamo profondamente amato? Quale vuoto si spalanca? Quale lavoro ci attende per poter ritornare a vivere? E cosa avviene quando questo lavoro risulta impossibile e ci sentiamo persi insieme a chi abbiamo perduto? Il lavoro del lutto e la nostalgia sono due esempi di come possiamo restare vicini a ciò che abbiamo perduto senza però farci inghiottire dal dolore.
Mentre il nostro tempo esalta il futuro, il progetto, l’intraprendenza, il lutto e la nostalgia ci ricordano che lo sguardo rivolto all’indietro non è sempre segno di impotenza, ma può anche alimentare le risorse che servono per essere davvero capaci di non smettere mai di nascere.
Il tema trattato in questo video si trova nel libro “La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia”
Pubblicato il 4 agosto 2024 (YouTube)
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di Massimo Recalcati
Questa sera dobbiamo concentrarci, perché l’oggetto che prendiamo tra le mani, o che proviamo a prendere tra le mani, è un oggetto difficile, scabroso, impensabile: la morte. Di cosa possiamo fare con la morte. Di cosa possiamo osare con la morte. Cosa resta di chi non è più qui e cosa possiamo fare di chi non è più tra noi. Queste sono le domande che cercherò di porre, partendo da una formula di un grande filosofo contemporaneo, Hannah Arendt, che dice: Gli esseri umani non sono fatti per morire, gli esseri umani sono fatti per nascere. Aggiunge anche che gli esseri umani sono fatti per nascere molteplici volte. Se ci pensiamo, è così: nella nostra vita tutti noi siamo morti diverse volte e altrettante volte siamo rinati. Abbiamo ricominciato faticosamente a vivere, ma la vita è fatta per nascere, per essere viva, non per essere morta. Eppure, accade, e anche i recenti episodi, come il trauma del Covid, ce lo hanno ricordato.
Anche se la vita umana fosse fatta per nascere e non per morire, poi gli esseri umani muoiono, ma ogni volta che un essere umano muore, muore prematuramente. Non esiste, cioè, una morte naturale. Questo è un primo punto che vorrei mettere in luce: la morte è sempre prematura, arriva sempre troppo presto. La morte di una foglia è naturale, accade in autunno quando si stacca dall’albero. La morte di una formica, di un’ape, di un cane, di un fiore: queste morti sono naturali, rispondono a un ritmo, a una legge necessaria, la legge della natura. Ma quando muore un essere umano, accade sempre in anticipo, non abbiamo mai l’età giusta per morire. Anche quando muore un anziano, la morte porta con sé sempre un’ingiustizia. Non è come la foglia che si stacca dal ramo, o come il fiore che ha finito la sua vita al sole e appassisce. Non è la farfalla, nella sua breve vita, che scompare. Anche la morte di un anziano implica dolore, perdita, il trauma della perdita, una ferita, il lutto di chi rimane e deve sperimentare l’assenza di quella persona amata.
Dunque, solo la forma umana della vita, potremmo dire esasperando questo concetto, conosce la morte. Gli altri esseri viventi periscono, ma non muoiono. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che gli animali, io ho due cani, sono sempre eterni. Certo, anche loro periscono, ma la vita dell’animale è una vita che non ha pensiero della morte, in questo senso è una vita sempre viva, eterna. Non c’è pensiero della morte, c’è pensiero del distacco. Penso ai miei cani quando esco a prendere il giornale e torno dopo un’ora: è come se tornassi dopo dieci anni, come Ulisse che torna a Itaca. Quando sono lontano l’estate e ritorno, è come se fossi uscito a prendere il giornale: la stessa attesa, la stessa festa del ritorno. Certo, l’animale ha esperienza dell’amore, del legame, dell’affetto profondo. Anzi, nessuno mi ama come il mio cane, mi verrebbe da dire, cioè mi ama per quello che sono. Gli esseri umani, invece, si amano sempre per quello che uno immagina che l’altro sia, che non è, con tutte le delusioni del caso. L’amore di un cane non conosce mai la delusione, ma non hanno esperienza del pensiero della morte.
In questo senso, noi cominciamo a morire col primo respiro, e la morte, nella forma umana della vita, non è l’ultima nota che chiude la melodia dell’esistenza, come direbbe Heidegger. Non è l’ultima parola che chiude la frase dell’esistenza. La morte è un’imminenza, qualcosa che ci accompagna nel tempo. Inizia fondamentalmente con l’adolescenza, dove si rompe l’incantesimo della vita eterna che un bambino porta con sé. Nell’adolescenza c’è l’incontro con il sesso, con la morte, e da lì in avanti la morte ci accompagna come un’ombra.
C’è una formula nelle Sacre Scritture, nel Qoelet, che è diventata un modo di dire comune: Su questa terra gli umani hanno i giorni contati. Ma con una differenza: gli umani contano i giorni che mancano, mentre gli animali no. Non lo fanno le foglie, noi li contiamo. Non so se avete in mente un film di Nanni Moretti, dove un personaggio dice: Metà, poi metà, poi metà… a sessant’anni ci rimane una roba così, da un metro. Contiamo i giorni, e contare i giorni significa che la morte è una compagna che segue il cammino della nostra vita. Forse è anche per questo che la nostra vita è fatta anche dai nostri innumerevoli morti, le persone che abbiamo perduto e che portiamo con noi. Ma non solo le persone, nel senso dei defunti che abbiamo perduto, ma tutte le persone che abbiamo amato, incontrato in questa vita, su questa terra: i primi amici, i primi amori, i maestri che abbiamo nel tempo perduto, non solo perché sono morti, ma perché la vita ci ha allontanati, perché ci siamo separati, perché non li incontriamo più. E non solo le persone abbiamo perduto, ma anche i nostri ideali, quelli della nostra giovinezza, che non sono più con noi, o i progetti a cui abbiamo dedicato la vita e che sono naufragati.
Pensate solo a cosa è stata per milioni di persone nel mondo la caduta del muro di Berlino, il tramonto di un’idea che aveva dato senso alla vita di tante masse nel mondo: un ideale di riscatto sociale, di giustizia, che ha significato lutto, caduta, sconfitta per milioni di persone. Il lutto, dunque, non è solo un’esperienza che facciamo quando qualcuno muore, ma è un’esperienza che siamo obbligati a fare ogni volta che incontriamo il trauma della perdita. Di fronte al trauma della perdita, siamo obbligati a fare un’esperienza luttuosa.
Aggiungo però un’altra cosa: quando qualcuno muore, nel senso proprio del termine, cioè quando qualcuno entra nel regno dei morti, si separa in modo irreversibile dal regno dei vivi. Non è più qui: non posso più sentire il suo profumo, vedere sul tavolo i fogli sparpagliati su cui lavorava, sentire l’odore della sua pipa o del dopobarba, non posso più toccarla, sentirla, ascoltarla. La morte implica l’esperienza di un’assenza, e aggiungiamo subito, implica l’esperienza definitiva dell’assenza. Vuol dire che è una perdita che non conosce ritorno: non c’è possibilità per chi non è più qui di tornare qui nella forma in cui l’abbiamo conosciuta, nella forma in cui era qui. Questo ritorno è impossibile.
Allora, in questo senso, quando qualcuno entra nel regno dei morti, il regno dei morti si separa dal regno dei vivi, irreversibilmente. Un mio paziente, parlando della perdita della sua amatissima moglie, dice: È come se io avessi perso il mio paese, cioè il luogo che frequentava, che conosceva, la geografia del suo paese che coincideva con la geografia del corpo della persona che amava. Non ho più un luogo dove stare. Ecco, perdere qualcuno che amiamo significa perdere il luogo dove ci sentivamo a casa. Questo luogo non c’è più.
Dunque, abbiamo la separazione del regno dei vivi dal regno dei morti, ed è per questo che gli esseri umani hanno cercato in tutti i modi di stabilire un ponte, un punto di contatto tra questi due regni. Aristotele diceva che l’essere umano è un animale sociale, nel senso che non può vivere senza l’altro. Vero, ma dobbiamo aggiungere anche che l’essere umano è l’unico animale che prega e che ha sempre pregato fin dalle origini dei tempi. Si è sempre rivolto ai suoi dèi. E perché? Qual è l’origine della pulsione della preghiera? Stabilire un contatto tra l’aldiquà e l’aldilà, stabilire un contatto con l’anima di chi non è più qui, fare ancora esistere una comunicazione tra l’aldiquà e l’aldilà.
Come quando si va in un cimitero e si trova qualcuno che dice con ingenuità: Vado a trovare la mamma, sto andando a trovare mio padre, sto andando a trovare mio figlio. Ma dove vanno? Vanno davanti a un sepolcro. E che cos’è il sepolcro? È uno dei riti più fondamentali che ha umanizzato la vita. Potremmo dire che la vita diventa umana attraverso due grandi ritualità antropologiche simboliche. La prima ritualità è quella del fuoco, che ha trasformato il crudo in cotto, su cui si è soffermato Claude Lévi-Strauss: l’idea che la vita umana diventa umana quando, attraverso l’invenzione del fuoco, cuoce i cibi, li sottrae, diciamo così, al crudo, segnando il passaggio dal crudo al cotto. Il secondo grande rito è il rito del sepolcro, il rito della sepoltura. L’essere umano è l’unico animale che dà sepoltura ai suoi morti, l’unico animale che pensa alla necessità del sepolcro.
Oggi, forse, è il giorno della prova di maturità di italiano. Chi ha fatto qualunque studio ricorderà I sepolcri di Ugo Foscolo, in cui si dice: Nell’urna confortata dal pianto è forse il sonno della morte men duro. Per un verso, no: la morte resta dura, atroce. Ma il sepolcro, l’urna confortata dal pianto, dà la possibilità di pensare che esista un contatto. Posso rivolgermi a chi non è più qui, posso chiamare, pregare chi non è più qui.
Al tempo stesso, gli esseri umani hanno anche inventato macchine di ogni genere, di ogni specie, per catturare le voci dell’aldilà. Da sempre, macchine fantasiose, come le sedute spiritiche, sono momenti, pratiche che provano a intercettare le voci dell’aldilà. Ma il dato che non dobbiamo dimenticare è che i regni si separano. Questo è il punto: i regni si separano, e il nostro tentativo di stabilire un contatto è fragile, e in ogni caso, chi non è più qui, non può tornare nella forma in cui l’abbiamo conosciuta.
Che cosa accade, dunque, in un lutto? Cos’è un lutto? Il lutto è l’esperienza che facciamo quando perdiamo un oggetto amato, lo perdiamo irreversibilmente. Accade anche nella fine di un amore, non solo nella perdita di una persona cara che muore. La fine di un amore è un’esperienza di lutto, perché perdiamo un oggetto – in psicoanalisi si chiama così – che aveva la caratteristica di dare senso al mondo. Quando perdiamo quell’oggetto, non perdiamo solo una persona cara, perdiamo il senso stesso che attribuivamo al mondo, perdiamo il nostro mondo.
Pensiamo alla fine dei nostri amori: perdere un amore non è solo perdere una persona amata, non poterla più toccare, sentire, vedere. Certo, c’è anche questo, ma quella persona, andandosene, trascina via con sé il nostro mondo: i nostri ristoranti, le nostre abitudini, i nostri viaggi, le nostre domeniche mattina insieme, la colazione, magari i figli. Tutto questo mondo che ruotava attorno all’oggetto, con la perdita dell’oggetto, scompare. Si aprono così due vuoti simultaneamente: un vuoto nel mondo, perché lei non è più qui e porta via con sé il nostro mondo, e al tempo stesso, si apre un vuoto dentro di me. Io mi sento vuoto, come è diventato vuoto il nostro mondo. Due vuoti che si sovrappongono: il vuoto nel mondo e il vuoto dentro il soggetto. Due vuoti che si sovrappongono simultaneamente e sono il dolore profondo del lutto.
E allora, di fronte a questo dolore, abbiamo tre possibilità, tre destini possibili per il dolore di questo doppio vuoto. Il primo destino è quello che si chiama il destino melanconico. Noi rimaniamo traumatizzati dalla perdita, non riusciamo a dare senso a quella perdita, rimaniamo pietrificati, immobilizzati di fronte a essa. Non ci stacchiamo da chi abbiamo perduto.
Posso fare un esempio tra i tanti. Un signore che ha superato la cinquantina mi ha parlato del lutto legato alla morte della moglie per una malattia che l’ha portata via rapidamente, in modo brusco, violento, atroce. Passa tutto il tempo della seduta a piangere come un bambino. Parlo di un professionista, un uomo maturo, che per tutta la seduta non fa altro che piangere. A quel punto, mentre singhiozza, gli chiedo: Da quanto tempo è morta? E lui mi risponde: Venti anni fa. Ecco, questo è un esempio di pietrificazione melanconica. L’oggetto è perduto, ma non c’è lutto per l’oggetto, perché l’assenza dell’oggetto è la forma della sua presenza insistente nella vita del soggetto.
Un mio paziente, parlando della fine del suo amore a cui non si rassegna, sebbene lei sia partita e sia andata a vivere in un altro paese, continua a pensarla e dice: Io vivo ingombrato dalla sua perdita. È paradossale, perché la perdita è uno svuotamento, ma lui dice che è ingombrato dalla perdita. Questo significa che, anche se lei non è più lì, la sua assenza è diventata una forma radicale della presenza, al punto che la vita del soggetto è ingombrata dalla perdita. Non è più in grado di vivere, ma al tempo stesso, il fatto che non sia più in grado di vivere mostra che lei, che non è più lì, è ancora lì, non è andata via, ma resta lì. Questo è il paradosso, l’illusione della risposta melanconica al lutto.
Un esempio più noto è la regina Vittoria del Regno Unito, che ha perso il suo amato principe Alberto all’età di circa 40 anni. Da quel momento in avanti, si è sempre vestita di nero, perché il nero è il colore del lutto, il colore in cui i colori del mondo si spengono. Ma non solo: pochi sanno che dal giorno in cui il principe Alberto è morto, la regina dava ordine alla servitù di preparare ogni mattina sul letto del principe gli abiti del principe, come se potesse ancora essere lì. Questo è il paradosso della melanconia: una fedeltà patologica all’oggetto perduto. La regina rimaneva fedele al suo principe come se il principe fosse ancora lì. La melanconia è una forma di fedeltà patologica, un modo per continuare a far vivere l’oggetto perduto. La vita si spegne, non vive più, è morta, ma è morta per far continuare a vivere l’oggetto perduto, l’oggetto morto.
Questo è il primo destino del lutto: la reazione melanconica. Questa è la reazione melanconica, una grande tentazione: trattenere l’oggetto perduto, trasfigurando la sua assenza come fosse una presenza. L’oggetto perduto diventa indimenticabile e insostituibile, come accade nella fine di un amore, dove nessuno sembra poter prendere il suo posto. Questo processo, chiamato idealizzazione, rende chi non è più qui straordinariamente idealizzato rispetto a chi è presente.
Ma c’è anche un secondo destino, opposto alla melanconia, che è il destino maniacale. La mania, dal punto di vista tecnico-clinico, è la reazione alla perdita che minimizza e sostituisce immediatamente l’oggetto perduto. Dice: Lei non è più qui? Chi se ne frega, la sostituisco. Nella mania, l’oggetto perduto non ha mai avuto valore e viene subito dimenticato e rimpiazzato, al contrario della melanconia, dove l’oggetto è insostituibile e indimenticabile.
La mania è una forma di negazionismo, che rifiuta di riconoscere il dolore e l’orrore della perdita, preferendo negare la realtà stessa. Ad esempio, si potrebbe affermare: Le bare di Bergamo non sono mai esistite, la morte non è mai esistita, è una truffa, una speculazione. Nessuno è morto di Covid, il Covid è un’invenzione. Questo tipo di reazione nega il reale della morte, del trauma, come nel negazionismo dell’Olocausto, dove si sostiene che milioni di ebrei non siano stati uccisi e gasati, che tutto sia un’invenzione.
Invece di affrontare l’orrore, il maniacale lo nega, rifiutando di vedere il dolore che è lì, davanti ai nostri occhi. Mentre il melanconico si affossa in una buca, rinuncia a vivere per far esistere l’oggetto perduto, il maniacale è preso da un’iperattività, da una frenesia, da una euforia, da una progettualità che lo spinge a sostituire immediatamente gli oggetti perduti. Nella melanconia, l’oggetto perduto è indimenticabile e insostituibile; nella mania, l’oggetto è subito dimenticato e subito sostituito.
Il nostro tempo, il tempo in cui viviamo, è un tempo maniacale, un tempo che rigetta il lutto, che rigetta la morte, che ha fatto della morte un’oscenità. Mentre una volta, come diceva Jean Baudrillard, non si poteva parlare in televisione di sesso, oggi non si parla d’altro. Il tabù del sesso è stato sdoganato. Oggi, invece, è diventato osceno parlare della morte, del lutto, del dolore. Il nostro tempo incoraggia la reazione maniacale. Lo vediamo già nei nostri figli, nelle loro narrazioni. Quando finisce una storia, ne inizia subito un’altra, senza pause, senza intervalli, senza tempo per il dolore. L’oggetto diventa una sorta di rimedio contro la ferita della perdita. Tutto il discorso del consumismo si fonda su questa maniacalità: l’acquisizione immediata dell’oggetto, come accade col frigorifero. Gli stessi amori sono pensati sul modello delle merci: quando un frigorifero ha esaurito la sua novità, la sua efficienza, si sostituisce con uno più aggiornato. Lo stesso vale per i computer e per tutti gli altri oggetti, ma anche per le nostre relazioni.
La tentazione della mania è la tentazione di chi non vuole pensare alla perdita, al dolore, al trauma della morte. Tra questi due poli – Polo Nord melanconia, Polo Sud mania – dobbiamo trovare un terzo destino per il lutto, che si chiama lavoro del lutto. Il lavoro del lutto non è la reazione luttuosa. Quando abbiamo una reazione luttuosa, perdiamo l’oggetto, e la prima reazione è il dolore, la sofferenza. Ma dobbiamo poter trasformare questa sofferenza, questo dolore. Immaginate di avere una lavagna alle spalle, su cui scrivere tre momenti distinti del lutto: tempo uno, il momento in cui facciamo esperienza della perdita; tempo tre, il momento in cui finalmente possiamo separarci da chi abbiamo perduto e tornare a vivere; e tempo due, il passaggio tra uno e tre, che è il tempo del lavoro del lutto.
A cosa serve il lavoro del lutto? Serve a trasformare il tempo uno, il tempo della perdita, nel tempo tre, il tempo della separazione da chi abbiamo perduto, in modo da poter ricominciare a vivere dopo la perdita. È un punto fondamentale, perché il tempo della perdita non coincide mai con il tempo della separazione. Lei se n’è andata, mi ha lasciato, questo è il tempo della perdita. Ma io non sono ancora separato da lei, sono ancora attaccato a lei, ingombrato dalla sua perdita. Per potermi separare da lei, che non è più qui, ho bisogno di tempo. Ho bisogno di tempo perché il trauma della perdita diventi una separazione che mi consenta di vivere.
Questo tempo intermedio, tempo due, lo chiamiamo tempo del lavoro del lutto. È un lavoro, in tedesco si dice Arbeit, una parola che Hegel e Marx usano per descrivere il lavoro come una pratica trasformativa, un’attività che forma e trasforma.
Che cosa accade in questo tempo due? Innanzitutto, implica che ci vuole tempo perché ci sia lutto. Non esiste un lutto rapido. La mania è l’illusione che esista un lutto rapido, ma non è così. Ogni lutto necessita di tempo. Certo, ci si può chiedere: Quanto tempo? Non lo sappiamo. Freud diceva di osservare il ritmo del passo della persona in lutto, ma non possiamo quantificare esattamente quanto tempo ci vuole. Sappiamo solo che ci vuole un supplemento di tempo per trasformare la perdita in separazione.
Poi, ci vuole dolore. Non c’è lutto senza dolore. Quando un lutto è indolore, siamo di fronte a una reazione maniacale. La rapidità e l’assenza di dolore sono segnali di una reazione maniacale. Invece, nel lavoro del lutto ci vuole tempo e ci vuole dolore. Che tipo di dolore? Non è un dolore localizzato in una parte del corpo, è un dolore che riguarda tutta la nostra esistenza, tutta la nostra vita è compromessa da questo dolore. È un dolore che ci attraversa, che coincide con la nostra stessa esistenza. Non posso vivere senza di lei: quante volte ce lo siamo detti, quando abbiamo fatto esperienza di una perdita, sia essa la morte di una persona cara o la fine di un amore. La mia esistenza diventa dolorosa, vivere diventa una fatica.
Un terzo elemento fondamentale, sempre nel tempo due, è il momento della memoria. Dobbiamo ricordare, e ricordiamo tutto, ma non perché ci mettiamo lì a tavolino a dire: Adesso ricordo. No, i ricordi ci assalgono nel tempo del lavoro del lutto. Siamo assaliti dai ricordi. Mi viene in mente sempre com’era, quando cammino tra la gente mi pare di vedere il suo viso, come se fosse ancora qui. Ho sentito camminare in casa come se lei fosse ancora qui. È la memoria che ci sovrasta e ci impone dei ricordi, ci impone di vedere il film della storia che abbiamo condiviso con lei, che abbiamo condiviso con lui. Siamo sommersi da questi ricordi.
Fino a quando? Fino a quando, ad un certo punto, senza un tempo standard, mi accorgo una mattina che non sono più schiacciato da un peso, che la mia vita ha riacquisito leggerezza, che ha riacquisito voglia di vivere, che mi sono cioè separato da chi non è più qui. Ma cosa vuol dire separarsi da chi non è più qui? Questo mi interessa adesso, è la parte più dura che abbiamo fatto. Ora provo ad accendere delle luci, perché altrimenti diventa pesante.
Cosa facciamo di chi non è più qui, una volta che la nostra vita ha ripreso a vivere? Perché ha ripreso a vivere? Perché è accaduto quello che Nietzsche descrive in modo formidabile all’inizio dei primi capitoli di Così parlò Zarathustra, dove racconta questa storia: Zarathustra è il profeta di una nuova verità sull’uomo, dell’Übermensch, l’oltreuomo, l’idea che è possibile un’altra forma di vita umana sulla terra, una vita che dica sì alla vita, che non viva nel sacrificio, nella rinuncia, ma nella piena adesione alla terra.
Zarathustra porta questa novella alla gente e si trova in una piazza dove c’è uno spettacolo circense, in particolare un acrobata che cammina su una fune in equilibrio precario. Ora, non posso entrare nel dettaglio, ma l’acrobata è l’immagine di noi stessi. Tutti noi siamo come degli acrobati su questa terra, viviamo in un equilibrio precario, abbiamo i giorni contati e non sappiamo con precisione quanti siano. Gli acrobati siamo noi, l’acrobata è Nietzsche stesso, l’acrobata è Zarathustra stesso. Ma accade che, mentre guarda l’acrobata muoversi in equilibrio precario su questa fune, l’acrobata sbaglia il passo, cade a terra e resta moribondo.
Tutta la gente della piazza fugge, rimane solo Zarathustra, che si avvicina al corpo dell’acrobata, del funambolo, e ascolta gli ultimi aneliti, gli ultimi spasmi di vita dell’acrobata che muore tra le braccia di Zarathustra. E cosa fa Zarathustra con questo morto? Potrebbe scappare, come hanno fatto gli altri, potrebbe andarsene via, tornare alle sue abitudini. No, Zarathustra prende il corpo del funambolo, in un grande gesto, un gesto straordinario che possiamo far coincidere con il lavoro del lutto. Prende il corpo ormai morto dell’acrobata, se lo mette sulle spalle e comincia un lungo cammino nella notte, attraversando un bosco fitto e senza luce, portando il peso del morto su di sé, finché arriva l’alba.
A quel punto, Zarathustra dice: Adesso devo togliermi questo peso. Vedete come il lutto si compie: si deve togliere questo peso, deve abbandonare l’acrobata per continuare a vivere. E cosa fa? Questo è il gesto su cui voglio riflettere con voi. Zarathustra prende il corpo dell’acrobata morto e lo infila dentro il cavo di un albero, come se il corpo del morto fosse diventato linfa.
Allora il punto è: c’è lavoro del lutto quando noi trasformiamo il corpo morto di chi abbiamo perduto in linfa che dà vita all’albero. Linfa. E allora la domanda è: questo sarebbe il compimento del lavoro del lutto. Zarathustra si alleggerisce, torna a vivere, ma nel frattempo ha trasformato il corpo del funambolo morto in linfa. Questo è ciò che mi interessa, questo è fondamentale.
Cosa vuol dire trasformare? Cosa vuol dire, usando un’altra immagine bellissima di Nietzsche, pensare al lavoro del lutto, alla convalescenza, come un vento del sud – un vento australe che scioglie il ghiaccio dell’inverno? Come dice Nietzsche nella prefazione a La Gaia Scienza, il lutto è come il ghiaccio dell’inverno: è il freddo dell’inverno, del dolore, del peso. A un certo punto, però, arriva un vento da sud che scioglie il ghiaccio e fa tornare l’acqua, la linfa.
Allora, la domanda che voglio porvi, per darvi un po’ di sollievo, è: come possiamo trasformare i nostri morti in linfa? Cosa vuol dire questa trasformazione? Come possiamo concepire questo gesto impensabile di trasformazione?
Allora qui si apre il tema della nostalgia. Questa strana parola, nostalgia, è composta da due parole greche: nostos (ritorno) e algos (dolore). È il dolore del ritorno, o più precisamente il dolore legato all’impossibilità del ritorno. Non fu un filosofo a coniarla, né Omero, che nell’Odissea non fa altro che parlare della nostalgia di Ulisse per Itaca. Questo termine, oggi così importante nella letteratura, è stato coniato da un giovane medico svizzero nella discussione della sua tesi di laurea, nel 1688. Il giovanissimo medico, Johannes Hofer, aveva studiato un certo fenomeno, chiamiamolo depressivo, che colpiva i soldati svizzeri impegnati in campagne militari lontani dalla loro terra. Immaginiamo un soldato svizzero in Marocco, nel deserto del Marocco. È chiaro che gli viene in mente le valli verdi, le mucche, il campanaccio, le case di legno, i fiumi, le montagne, la neve. Non c’è niente di tutto questo lì. O pensate anche alla nostalgia che colpisce i navigatori, lontani dalla terra, lontani da casa, in mezzo al mare, con la spinta a tornare a casa.
Ecco, lui dice che esiste una sindrome nostalgica che ha come cuore l’aspirazione a ritornare a casa e l’impossibilità di ritornare a casa. Ma aggiungo: è possibile tornare a casa? Chiediamocelo.
Lasciamo perdere per un momento i soldati e i navigatori, guardiamo la nostra vita, guardiamo a quando noi siamo nostalgici e guardiamo il nostro passato. Guardiamo all’indietro quello che è stato, pensiamo alla nostra infanzia, pensiamo ai nostri genitori, per chi ha avuto dei genitori e per chi ha avuto dei genitori sufficientemente buoni di cui avere nostalgia (che non è un dato acquisito). Pensiamo alla nostra giovinezza, pensiamo al nostro corpo. Penso al mio corpo di quando avevo 20 anni, che non è lo stesso di oggi, non ha più la stessa forza, lo stesso vigore. Pensiamo al primo amore, al bacio che sapeva di menta, all’oratorio. Pensiamo a tutte le esperienze che abbiamo fatto. Se io penso alla mia infanzia friulana, il pescheto, le vigne, il fiume dove giocavo con i miei amici, la bellezza della luce. E tutto questo lo guardo e dico: non c’è più niente, si è dissolto, c’è l’impossibilità del ritorno.
Kant aggiunge, nell’Antropologia, parlando di nostalgia, che se anche io per miracolo potessi tornare nei luoghi dove sono stato, dove sono cresciuto, di cui ho nostalgia, non li riconoscerei. Mi è capitato recentemente, una decina d’anni fa, quando ho compiuto 50 anni. Ho convinto mia madre e la mia famiglia a tornare nei miei luoghi dell’infanzia friulana: Cormons, Maniago, Pordenone. Siamo tornati in quei luoghi. Sono tornato nei luoghi dove passavo le estati, nel cortile di ghiaia, nel pescheto, nel vigneto, al fiume, ma tutto era diverso, tutto più piccolo, tutto più ristretto. Il pescheto che io immaginavo come una collina erano due rami secchi di pesche, la vigna erano due vigne, il fiume era un ruscello e, ahimè, pieno di rifiuti. Questo è il dramma, no? Noi rimpiangiamo quello che abbiamo perduto, mentre lo rimpiangiamo lo idealizziamo, ma soprattutto non possiamo più recuperarlo. Questa è la dimensione della nostalgia come rimpianto: noi rimpiangiamo quello che abbiamo vissuto nella misura in cui non possiamo più averlo, non possiamo più recuperarlo. E il nostro sguardo si rivolge al passato, e mentre si rivolge al passato, dimentica di vivere nel presente.
Una cosa che da bambino… Io ho avuto un’educazione cattolica, e il prete del mio paese ogni tanto leggeva dei passi delle Scritture. C’era un passo che mi lasciava interdetto, tanti passi che mi lasciavano interdetto, ma uno in particolare, di Gesù, quando dice, ve lo ricorderete, un suo discepolo chiede di poter dare l’ultimo addio, l’ultimo congedo al padre morto, e Gesù gli dice: Vieni con me, lascia che i morti seppelliscano i morti. Come può una mano guidare con fermezza l’aratro se lo sguardo è rivolto all’indietro? Perché è spietato Gesù? Perché non lascia nemmeno il tempo di congedare il proprio padre? Lascia che i morti seppelliscano i morti. Cioè, non avere rimpianti, non guardare all’indietro, non volgere il tuo sguardo al passato. Questa è una prima indicazione: la nostalgia come rimpianto.
Come dice Alfredo, uno dei protagonisti di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, interpretato da uno straordinario Philippe Noiret, con il piccolo Totò diventato grande (e parlo sperando che molti di voi abbiano visto questo film), in una delle scene più belle del cinema italiano recente quantomeno, Totò, che ha ricevuto da Alfredo la passione per il cinema, è diventato un ragazzo e ha deciso di lasciare il piccolo paese siciliano dove è cresciuto con il suo maestro Alfredo, che nel frattempo, a causa di un incidente, è diventato cieco. Abbiamo questa scena nella stazione ferroviaria: Totò sta per prendere il treno e andarsene verso Roma, comincia a vivere, e si congedano. Philippe Noiret, in dialetto siciliano, gli dice: Non lasciarti prendere dalla nostalgia, non guardare indietro, dimentica. Se tu torni qui e mi vieni a cercare, io ti chiuderò la porta in faccia. Vattinne, vattinne, vattene, vai via. Questo è l’inganno della nostalgia come rimpianto.
Ma noi abbiamo, e questo è l’ultimo pezzo di quello che vi voglio dire stasera, una seconda forma della nostalgia, di cui voglio fare l’elogio. Non è la nostalgia come rimpianto, non è la nostalgia di chi guarda al passato cercando di recuperarlo. Sartre lo diceva molto bene: Noi siamo tutti dei viaggiatori con un solo biglietto di andata, non abbiamo possibilità di ritorno. Anche Ulisse lo sapeva, che pure aspirava al ritorno. Appena torna a Itaca, noi pensiamo che il cerchio si chiuda, ma in realtà il cerchio si riapre, perché la dea gli dice: Tu adesso, dopo essere stato con Penelope, aver portato la legge a Itaca, devi rimetterti in mare alla ricerca, con un remo sulle spalle, di un popolo che non mangia pesce, non conosce il mare, non conosce il sale. Un viaggio impossibile, cioè di nuovo, non c’è possibilità di chiudere il cerchio, non c’è mai possibilità di chiudere il cerchio.
Ma allora cosa sarebbe la nostalgia come gratitudine, di cui vi voglio parlare? E questa è quella che mi interessa di più trasmettervi. Non guardare indietro, ma la nostalgia come gratitudine viene davanti, ci raggiunge davanti. È una visitazione, non è un rimpianto. Qualcosa ci visita davanti. Nel mio libro uso questa metafora: la metafora delle stelle morte. Non ci sono stelle stasera, ma quando noi alziamo lo sguardo d’estate e vediamo il cielo stellato, ci spiegano gli astrofisici che la luce delle stelle proviene da corpi celesti morti milioni di anni fa. Noi vediamo una luce adesso, ma questa luce proviene da corpi morti milioni di anni fa. È quello che accade con i nostri morti, con le perdite che hanno scavato la nostra vita e che portiamo dentro di noi. A volte, questi morti si rivelano come fossero luce delle stelle morte.
Vi voglio fare due esempi, perché il discorso non appaia astratto. Cosa vuol dire essere visitati da chi non è più qui, visitati davanti e non da dietro, raggiunti davanti?
Il primo esempio che vi voglio fare è quello di un grande filosofo, Jean-Luc Nancy, che forse il più grande filosofo vivente che si è spento più o meno quasi due anni fa ormai e che prima di morire lascia un biglietto, l’ultimo biglietto, lo scrive per i suoi amici, i suoi familiari, i suoi allievi, i suoi colleghi. E il biglietto è di tre parole: Portatemi con voi. È bellissimo, sembra scritto da un bambino: Portatemi con voi.
Che cosa vuol dire? Vuol dire, così lo leggo io quantomeno, non voglio che voi veniate sul mio sepolcro, nell’urna confortata dal pianto, a piangermi come se io fossi morto. Lasciate che io continui a vivere, lasciate che io continui a generare luce, e lo potete fare solo se mi portate con voi. Quindi non pregare un morto, non andare a trovarlo in un cimitero, ma portarlo vivo con voi stessi. Questo è formidabile, perché cambia tutto, no? Cambia tutta la prospettiva.
Portatemi con voi vuol dire: fate sì che io sia linfa e non tomba, che io continui a essere linfa viva e non tomba.
Il secondo esempio, e concluderei, diciamo, avendo tirato un po’ lungo. Il secondo esempio. Un esempio. Chi di voi conosce il mio lavoro e ha letto L’ora di lezione (immagino che qualcuno abbia letto) sa che questo libro è dedicato alla mia amata professoressa di lettere, Giulia Terzaghi, che io incontrai in un istituto abbandonato da Dio, un istituto professionale che i miei genitori mi hanno imposto di frequentare, specializzato in piante tropicali da serre calde, perché io vengo da una famiglia di floricoltori e mio padre voleva che io prendessi il suo posto. Appunto, il contrario di Portatemi con voi: se un padre dice sul letto di morte “Tu dovrai prendere il mio posto”, ci condanna, non è Portatemi con voi, ci attribuisce un destino.
Ehm… faccio l’elogio, nell’Ora di lezione, dell’incontro con questa giovane professoressa. Immagino che avesse allora 25 anni, bellissima, con la camicia bianca, in un posto abbandonato da Dio, a Quarto Oggiaro, nella B Milano: criminalità, droga, terrorismo, di tutto. Ma a un certo punto arriva questa stella cometa, questo treno formidabile, io mi attacco. In una classe di soli maschi, pensate… l’orrore. Arriva questa bellezza, io mi attacco con tutte le mie forze, con tutto il mio innamoramento giovanile, e lei mi porta via. Parlava di poeti, di letteratura. Pensate che la prima… allora, faccio questo elogio.
Quando io scopro che è morta (quando ho compiuto 50 anni, da qualche anno non ci vedevamo più), la ricerco per festeggiare con lei i miei 50 anni, ma scopro su internet che è morta. Dunque non posso più incontrarla, e in quel momento mi viene alla mente un episodio che da quel punto in avanti ho sempre portato con me e che, in realtà, già mi ricordavo da tempo, ma è come riemerso da chissà dove, come una luce appunto di una stella morta che mi ha raggiunto. Ricordo, è molto semplice (magari vi deluderà), ma è il primo giorno di maturità. C’era allora la commissione, con un membro interno e una commissione esterna. Giulia era il nostro membro interno. Tema di italiano: Giovanni Verga. Mi ricordo ancora come l’ho sviluppato, per darvi l’idea del posto in cui ero. Il secondo tema di agronomia era sugli usi e costumi del letame nell’agricoltura italiana. Cioè, sulla merda, fondamentalmente, no? Questo per darvi il timbro del posto in cui ero.
E allora, nella prova d’italiano, lei si avvicina, bellissima, mette le sue manine sul mio banco, mi guarda e mi dice: Massimo, resta lucido. Questo. Solo questo. Portatemi con voi. Massimo, resta lucido ha la stessa forza, perché per la prima volta un adulto dice a un ragazzo di 18 anni: Resta te stesso, fai quello che sai fare, resta lucido, non strafare, non esagerare, non provare a convincere nessuno, perché se tu resti te stesso, se tu resti lucido, questo basta e avanza.
Questo è un esempio di nostalgia come gratitudine. Ogni volta che nella mia vita mi sono trovato in difficoltà, spaccato dalle difficoltà, la frase di Giulia è tornata a visitarmi e mi diceva: Massimo, resta lucido. E questa è la gratitudine. Tutto quello che abbiamo vissuto, il bene e il male, la gioia e il dolore, i buoni e i cattivi incontri, tutto quello che è stato… La forza del gesto di Nietzsche che mette l’acrobata nell’albero… tutto quello che è avvenuto, tutto quello che è stato, io benedico tutto, dico di sì a tutto, perché tutto quello che ho vissuto è ciò che io sono, e quindi sono grato agli amici come ai nemici, sono grato a chi mi ha amato e a chi mi ha ferito, sono grato allo stesso modo.
Restate lucidi.