Non di sola linguistica vive la conoscenza del linguaggio

La linguistica esplora il linguaggio nei suoi legami con filosofia, neuroscienze e matematica, evitando riduzionismi e cercando coerenza tra teoria e dati empirici.

di Tullio De Mauro

[Riproduco qui per il possibile una lezione tenuta l’8 febbraio 2012 a un seminario di dottorandi in filologia, linguistica e letteratura del Dipartimento omonimo alla Sapienza di Roma. Ringrazio i curatori del volume che con molto affetto mi hanno costretto a recuperarla partendo dagli appunti che conservavo.]

1. Complessità della realtà linguistica

Il tema di questa conversazione che mi è stato chiesto di tenere è per me un motivo di riflessioni già antiche. A esse mi sono accompagnato fin dai primi studi e scritti, dedicati a discutere e a sforzarmi di confutare (a volte con una intemperanza aggressiva di cui dopo mi sono assai pentito) alcune idee che dominavano in Italia e tra molti linguisti italiani a metà Novecento: le idee di Croce, che proponeva la dissoluzione della linguistica nell’estetica, riecheggiate ironicamente da un grande filologo, Leo Spitzer, secondo il quale la linguistica era come il giornalismo, bene entrarvi, ma per uscirne il più presto possibile e andare verso i più seducenti territori della critica letteraria e dell’estetica. Il tema potrebbe avere una formulazione solenne: «Dell’autonomia della linguistica nei suoi rapporti con altre scienze». Ma a me pare preferibile una formulazione più bonaria: «Da campi del sapere differenti dal suo il linguista, per fare il suo mestiere, impara qualcosa e, se sì, che cosa?». Un’altra formulazione, a mezza strada tra le due, è quella scelta come titolo e cercherò qui di attenermici.

Come sapete, dall’inizio dell’Ottocento, dopo una lunga incubazione sei e settecentesca, il campo di ricerca che chiamiamo linguistica si è andato sviluppando come disciplina specifica. Il suo compito o, come ho detto su, il mestiere di chi vi si dedica è esplorare come sua materia di studio un vasto insieme di realtà di vario ordine: il linguaggio, le lingue, gli usi delle lingue. Il linguaggio, la facoltà del parlare, è qualcosa che portiamo con noi dalla nascita: regolata da alcune aree del cervello, essa appartiene all’ordine dei fenomeni biologici, naturali. Le migliaia di lingue, grazie alle quali in epoche e paesi differenti si è esercitata e si esercita l’attività verbale, appartengono all’ordine dei fatti etnografici e storici. Appartiene all’ordine dei fatti sociologici e culturali e dei fatti psicologici l’uso che di ciascuna delle lingue viene fatto da singoli individui o gruppi sociali negli atti linguistici, compiuti in varie circostanze: per esprimersi e farsi intendere o intendere altri ora parlando viva voce e ascoltando ora per scripta; scrivendo e leggendo testi di tipo assai vario; oppure usando le parole in interiore homine, per riflettere e ragionare, ricordare e progettare.

Per ogni possibile materia di studio una buona teoria scientifica che se ne voglia costruire deve rispondere, come sappiamo, a tre principi: l’adeguatezza fattuale (nessuna area di fatti rilevanti nella materia di studio deve essere lasciata da parte), la coerenza formale (nei termini che si adoperano, nelle ipotesi che si elaborano), la semplicità. Questo terzo carattere di una buona teoria richiede qualche precisazione. Non va confuso con la semplificazione, col lasciar da parte o mettere tra parentesi quel che mal si adatta alla teoria. La semplicità è un posterius, è un criterio di selezione delle ipotesi interpretative: se ci sono ipotesi in alternativa, tra quelle che siano fattualmente adeguate e formalmente coerenti il criterio della semplicità porta a considerare preferibili le più semplici, purché, giova ripetere, abbiano piena adeguatezza fattuale e completa coerenza come le altre.

Sono innumerevoli i legami tra la materia di studio della linguistica, e cioè linguaggio, lingue e loro usi, e la vita della stessa specie umana, le vicende dei popoli e delle società in cui la specie si articola e, infine, con l’esistenza dei singoli individui. Una teoria linguistica complessiva, una visione scientificamente valida della vasta realtà linguistica, per essere adeguata incontra continuamente occasioni e sollecitazioni, e a volte stringenti necessità, che spingono a fare appello a conoscenze tratte da campi anche assai diversi del sapere. Ciò è evidente in molti casi concreti di studio. Per esempio, le analisi di produzione e ricezione della voce coinvolgono conoscenze di fisiologia dell’apparato di fonazione e dell’apparato uditivo e anche di fisica acustica. O, ancora, si pensi alla compiuta, adeguata analisi linguistica del vocabolario o della sintassi e perfino della semplice grafia di un testo latino antico o moderno, italiano o sanscrito: per realizzarsi essa implica il ricorso a conoscenze storiche, filologiche, paleografiche, sociologiche, letterarie o giuridiche e via seguitando.

La necessità di ricorrere ad altri campi del sapere ancor più si impone se dai casi di studio particolari si passa a teorie di portata più generale. Si intende male, per esempio, il funzionamento del linguaggio senza metterlo in rapporto con i meccanismi e le forme della memoria sia a lungo termine sia, come raccomandava già sant’Agostino, a breve termine e con le altre funzioni cerebrali superiori, iscritte nella corteccia cerebrale ma collegate anche a parti profonde del cervello: l’attività verbale è inadeguatamente descritta senza fare appello a conoscenze elaborate dalle neuroscienze. O, ancora, si intende male il linguaggio umano, l’attività verbale, senza riconoscervi ciò che lo accomuna ad altri linguaggi e ciò che lo distingue: i linguaggi di altre specie viventi, studiati dall’etologia e dalla zoosemiotica, e i linguaggi umani non verbali, dai linguaggi gestuali, alle segnaletiche, alle cifrazioni e ai calcoli, studiati da scienze a loro volta molto diverse, etologia ed etnologia dei comportamenti umani, prossemica, teoria logico-matematica dei calcoli. Dare un orizzonte semiotico al linguaggio e al suo studio, come a me pare indispensabile, risulta impossibile senza arricchire conoscenze e strumenti di analisi con l’apporto d’altri campi. Per dare ancora un esempio, si osservi che la stessa preliminare individuazione e lo stesso censimento delle circa settemila lingue oggi in uso nel mondo sarebbero impossibili senza correlarsi a conoscenze di storia politica e culturale e di etnografia. Non per caso il più ampio e aggiornato repertorio di lingue del mondo si intitola Ethnologue.

Sono dunque molti e diversi i punti in cui la linguistica per analizzare e descrivere la sua materia di studio deve sapere far ricorso ad altri settori scientifici. Dare conto anche sommariamente dei contributi di altre scienze al lavoro della linguistica richiederebbe una trattazione assai estesa, superiore forse, ormai, alle forze di un singolo studioso. Ci provò con successo sessant’anni fa un allora giovane psicologo, oggi ultranovantenne, George Miller*, in Language and Communication: un libro in cui la realtà linguistica è considerata alla luce di quel che allora era il complesso di conoscenze storiche, antropologiche, biologiche, matematiche, fisiche. Nessuno più (che io sappia) ha tentato di nuovo l’impresa da solo e per avere qualcosa di analogo dobbiamo ricorrere a vaste opere enciclopediche collettive.

Qui, ora, per dare un’idea di che cosa un linguista nel suo lavoro apprende da altri campi del sapere sceglierò una strada deliberatamente soggettiva. Profittando del carattere informale, amichevole e oserei dire familiare di questo nostro incontro, per una volta, come del resto avete visto fin dall’inizio, violerò la buona regola di non adoperare in sede scientifica, pubblica, la prima persona singolare. Farò dunque riferimento al moi haïssable, alle mie personali esperienze di studio che sono ormai lunghe, aetatis causa: ho pubblicato nel 1954 il mio primo lavoro con pretese scientifiche nel «Giornale critico della filosofia italiana», un’analisi rispettosamente ma fermamente critica delle idee e teorie linguistiche di Benedetto Croce, e da allora sono passato studiando, insegnando e scrivendo attraverso diversi settori della ricerca, in più d’un caso seguendo orientamenti non condivisi, almeno inizialmente, dalla maggioranza dei miei colleghi. Il moi haïssable non vuole proporsi come paradigma, con la pretesa d’essere «tyran de tous les autres», come temeva e condannava Pascal, ma piuttosto come un semplice caso qualunque, periferico ma possibile, una cavia. La prima persona è un singulare humilitatis necessario a raccontare alcune delle cose che mi pare di avere imparato da altri campi per miei lavori su linguaggio e lingue, nella speranza che qualcosa possa tornare utile a chi ascolta.

2. Primum philosophare

A metà del secolo scorso in gran parte della linguistica europea e americana l’aria non era propizia a linguisti che tenessero d’occhio gli studi filosofici. È stata per me una vera buona sorte inoltrarmi negli studi linguistici alla scuola di Antonino Pagliaro. Insieme a pochissimi altri linguisti del Novecento, tra cui ricorderei Meillet (che aveva probabilmente presente l’introduzione di Bréal alla grammatica di Bopp), Hjelmslev e Coseriu, affiancati dai primi esploratori della storia del pensiero linguistico, come Apel, Verburg e Aarsleff, Pagliaro, fin dai tempi del suo giovanile Sommario di linguistica arioeuropea del 1930, aveva ben chiara la filiazione filosofica della riflessione grammaticale e degli esordi stessi della linguistica e nutriva un conseguente interesse sia per la storia del pensiero linguistico sia per il dibattito filosofico del Novecento. Ho imparato da lui ad attingere all’opera di filosofi antichi e moderni, da Aristotele a Vico, da Epicuro a Locke, Leibniz e Hegel, indicazioni che mi sembrano decisive per intendere la realtà linguistica quale oggi si presenta ai nostri occhi: per esempio l’idea del linguaggio come fondamento della pólis o quella del nesso tra sviluppo della corporeità e intelligenza o, come oggi si dice, mente, tra mano e parola. Grazie a Pagliaro ho potuto non nascondere e anzi sviluppare l’attenzione a ciò che nel passato e nel presente la linguistica può ricavare dai filosofi.

Ho già accennato alle mie frequentazioni crociane, ovvie per studiosi italiani della mia generazione. Non ripeterò qui quanto in Italia la migliore cultura deve all’opera di Croce e alla sua severa etica dell’operosità. Per il lavoro di linguista, mi parve che da Croce si dovessero ricavare almeno due lezioni che tuttora mi sembrano importanti. La prima è una lezione a due facce. Un sapere specifico non può chiudersi in se stesso, essere autonomo nel senso di esaurirsi in se stesso, ha invece bisogno di ragionare su se stesso (come Saussure suggeriva alla linguistica) e quindi, per farlo, deve uscire da sé e darsi un orizzonte teorico e filosofico generale in cui difendere le sue ragioni e collocare criticamente le sue risultanze. Ma a sua volta l’orizzonte filosofico non sussiste da se stesso, è, appunto, un orizzonte: senza case, monti, valli, punti di riferimento, non esiste. La filosofia non deve girare a vuoto, come può accadere, essa vale se si àncora a scienze, tecniche, pratiche specifiche, se di esse si fa schiarimento e complemento critico. In particolare una filosofia del linguaggio che non sia correlata alle riflessioni specifiche sul linguaggio e le lingue e a specifiche ricerche linguistiche rischia di annaspare nel vuoto. Rischia che per essa valga l’analogo di ciò che Croce diceva sarcasticamente di molti filosofi del diritto, che, essendo inesperti del diritto e a digiuno di filosofia, dovevano ritenersi filosofi del del. Una buona filosofia del linguaggio deve essere una critica del sapere scientifico acquisito dalla linguistica, essere, come in anni recenti ha sostenuto Sylvain Auroux, una «filosofia della linguistica».

La seconda è una lezione e contraria parte. L’universo che Croce delineò nella Logica è un universo in cui hanno cittadinanza soltanto ciò che è universale e ciò che è concreto, particolare, attimo fuggente e irripetibile. Il resto, ai tempi della Logica, gli appariva fittizio, una finzione. Croce ha dovuto poi lui stesso sforzarsi di correggere questa visione delle cose, e cercare di fare posto a ciò che, senza essere universale, travalica gli attimi fuggenti, li costituisce in serie distinte. Sono le formazioni che Croce chiamava «istituti». Anche a Croce, dunque, si impose l’ineluttabilità di formazioni intermedie che vanno oltre l’hic et nunc, che durano e si estendono collegando le realtà particolari e irripetibili, permettendone l’esistenza e lo stesso apprezzamento della loro irripetibile particolarità. Così, nel campo linguistico, sempre più anche a Croce si impose la necessità di ritenere reale non soltanto il singolo atto espressivo concreto, ma anche le parole, le forme astratte e generali che permettono di costruire e realizzare il singolo atto linguistico e permettono di intenderlo. La lingua in quanto immanente in ogni parlare e intendersi si impose al riconoscimento anche di Croce. Non si consideri banale questa lezione. Essa consente o, almeno, ha consentito a me, anche prima di intendere appieno l’insegnamento di Saussure su questo punto, di guardare con molta distanza critica sia anzitutto alle tesi dei linguisti comportamentisti americani degli anni Quaranta e Cinquanta, che, battendo strade assai lontane dal primo Croce, pensarono anche loro che la lingua fosse non una realtà operante in re, ma un’astrazione foggiata dai grammatici e linguisti, sia poi a tutte le riaffioranti tentazioni di vedere la parole, gli speech acts come unica realtà linguistica.

Oggi il pensiero di Croce è dimenticato da molti. Più largamente presente è Wittgenstein, di cui tempo fa mi avete chiesto di parlare in questi vostri seminari. Mi sono inoltrato nella lettura di Tractatus e Philosophische Untersuchungen dalla metà degli anni Cinquanta, mentre lavoravo sulla sintassi dei casi greci e stavo portando a termine i primi lavori di lessicologia. Su entrambi i versanti cercavo di combattere il referenzialismo, l’idea che il significato di una parola si riduca all’indicare una cosa e le parole siano, come doveva dire André Martinet pochi anni dopo, «etichette» di suono diverso appiccicate su cose eguali per tutti, e che analogamente il valore di una categoria morfologica e sintattica si riducesse al suo collegarsi a una categoria ontologica precostituita, a un tipo di relazioni tra cose. Quest’idea veniva, mi pareva, da lontano, dall’aristotelismo e celebrava il suo trionfo nelle prime proposizioni del Tractatus di Wittgenstein. Naturalmente, col senno di poi, si può dire che questa idea era confutata già da Saussure. Ma, come altri, negli anni Cinquanta non ero in grado di leggere la confutazione nel Cours de linguistique générale. Nell’istituto di glottologia, di cui avevo ordinato la biblioteca, era arrivato il libro di Godel sulle fonti manoscritte: lo aveva letto con entusiasmo Lucidi, che vi trovava conferma alla sua ipotesi che il testo del Cours mal rappresentasse il dettato reale delle lezioni di Saussure. Io avevo sbirciato con curiosità il testo, senza trarne ciò che solo parecchi anni dopo ne avrei appreso. La ricostruzione delle storie semantiche di parole come classe, arte, democrazia mi avviavano più facilmente a capire la miseria e le fallacie del riduzionismo ontologico nella semantica. Ma l’analoga esigenza critica mi pareva si imponesse anche nella sintassi e cercavo nell’uso molteplice delle forme una chiave interpretativa. La lettura delle Philosophische Untersuchungen fu come un lampo di luce rischiaratore. La critica del secondo Wittgenstein all’«autore del Tractatus», la critica al semplicismo fallace del referenzialismo mi aprì la via a mettere in ordine ciò che sparsamente avevo intravisto, era il pezzo del puzzle che mi mancava o, meglio, era la traccia, il disegno di insieme che mi era mancato per riordinare i vari pezzi. Al fondo c’era l’idea della lingua come sistemazione sempre a suo modo completa e però sempre completabile all’emergere di nuove esigenze di significazione.

Leggevo le Ricerche a lezione, insieme agli studenti di allora, e a più d’uno credo di avere trasmesso il mio entusiasmo. Stavo completando un lavoro in apparenza tutto diverso, la Storia linguistica dell’Italia unita. L’idea wittgensteiniana di lingua mi pareva che esprimesse bene il senso teorico del lavoro storico e descrittivo che avevo fatto. Scelsi e misi in esergo del libro un passo delle Ricerche (§§ 18-19) nel testo inglese: «Our language can be seen as an ancient city ecc.», fino alla incisiva, risolutiva conclusione «And to imagine a language means to imagine a form of life». Lo racconto per raccontare un aneddoto istruttivo. Il «Times» aveva all’epoca un Literary Supplement fatto di amplissime recensioni e alcuni saggi, questi erano firmati (molti anni dopo me ne fu chiesto uno e feci anch’io un lavoro sui links della semiotica), mentre le recensioni, spesso severe, erano rigorosamente anonime. Storia linguistica fu ampiamente recensita pochi mesi dopo la comparsa. La recensione era scritta da persona chiaramente assai esperta di cose linguistiche italiane e trattava abbastanza bene il libro. Solo il finale conteneva una riserva sull’esergo: che c’entra Wittgenstein con un libro di linguistica? La domanda mi pare significativa di quello che era allora e in parte è rimasto lo stato degli studi: di Wittgenstein può e deve occuparsi un altro settore disciplinare, non L/Lin KZ 543 o come altro si chiama la linguistica nelle assurde partizioni concorsuali che ci affliggono.

Nella scaletta che ho preparato vedo altri nomi e spunti filosofici che mi sono stati preziosi nel cammino della ricerca sul linguaggio e le lingue: il riduttivismo fisicalista e la sua critica (Carnap), il falsificazionismo (Popper, Ziff), Richard von Mises, logici (Tarski, Ajdukiewicz), Scaravelli Critica del capire, filosofi als Erzieher: Aristotele, Epicuro, Leibniz, Vico, Kant (Garroni), Calogero. A ogni nome si collegano sollecitazioni significative per i lavori che ho fatto. Ma il tempo stringe e per molti devo pregarvi di credermi sulla fiducia oppure, se avete curiosità e tempo, di gettare un’occhiata all’indice dei nomi di miei libri.

3. Parole e numeri

Con i numeri nel senso più banale di computo ho cominciato ad avere a che fare nei lavori sulla sintassi dei casi. Il proposito che avevo maturato dagli anni della tesi di laurea (sul valore dell’accusativo nelle lingue indoeuropee) era disancorare l’analisi delle categorie morfologiche e sintattiche dall’idea che abbiano ciascuna un rapporto univoco con categorie ontologiche e ricondurla all’analisi degli usi. Questo comportava e comporta, direi immediatamente, imparare a fare i conti con le dimensioni quantitative dei fenomeni linguistici. Ho cominciato ad accumulare indagini statistiche sull’uso dei casi e di qui ho cominciato a occuparmi di lessicostatistica e, più in generale, di statistica linguistica. La legge di Mandelbrot sul crescere dell’ampiezza dei significati al crescere delle frequenze mi offriva una buona chiave per capire funzioni dei casi e loro evoluzione. Ho dovuto sfidare la diffidenza dei linguisti tradizionali, di formazione umanistica e pregiudizialmente lontani dal tener conto delle analisi quantitative, e più tardi il disprezzo del generativismo e dei chomskiani per l’esecuzione, come Chomsky all’inizio diceva, cioè per l’uso e quindi per valutazioni quantitative. Queste offrono una chiave indispensabile per capire molti aspetti della realtà d’una lingua: per capire e descrivere le diverse fasce del lessico di una lingua, i rapporti tra le parole di uno stesso campo semantico, l’organizzazione dei significanti e quella dei significati, la centralità o perifericità di fenomeni morfologici e sintattici, il procedere o regredire di tendenze che segnano in diacronia il passaggio da una fase linguistica a un’altra, la diversa tipologia dei testi di diversa «temperatura informazionale», più «caldi», cioè più ricchi di parole di frequenza relativamente bassa, o più «freddi», più poveri di quelle e più ricchi di parole del vocabolario fondamentale. Non è solo, come è più ovvio, l’uso, è la stessa struttura e organizzazione di un sistema linguistico che riceve luce dall’analisi quantitativa dei fenomeni. Chi non possiede la nozione di vocabolario fondamentale, chi non ha mai guardato un frequency wordbook e non si è reso conto della enorme disparità di frequenza media e di probabilità d’uso delle parole e forme linguistiche ha un’immagine dimidiata del funzionamento di una lingua. Le ricerche e gli studi pionieristici di George Zipf (che già Miller seppe mettere a frutto nel libro che ho ricordato più su), di Benoit Mandelbrot, il matematico francopolacco divenuto in anni recenti famoso per la teoria dei frattali, di Martinet sull’economia dei mutamenti fonetici, di Gustav Herdan, che accettò spesso di essere ospite nei miei primi corsi romani, hanno aperto prospettive importanti per la teoria generale della lingua e per la descrizione di singole lingue. L’analisi quantitativa ci ha dato modo di renderci conto della enorme ridondanza che caratterizza le lingue, in ogni loro livello, rispetto ad altre semiotiche, e di apprezzare, se ci chiediamo il suo perché, le relazioni profonde tra la lingua con la sua enorme ridondanza e gli usi molteplici cui le lingue devono prestarsi nel concreto della vita degli esseri umani: dalla ideazione e realizzazione di testi d’alta formalità, come nella poesia, nelle leggi ben fatte e nelle scienze più hard, il più possibile sottratti alla contingenza della concreta loro realizzazione, alla produzione di testi ed enunciati massimamente informali, immersi nel fluire della contingenza, ridotti spesso a evocazione del segno, sua fisionomia appena intravista, gesto o cenno fonico fuggevole o graffito approssimativo. Queste escursioni dal formale all’informale, parimenti preziose nel concreto parlare, hanno tutte come condizione di produzione e di comprensione la ridondanza fonologica, morfologica, sintattica, lessicale.

Già Miller e Rudolf Flesch mostrarono anche come l’analisi quantitativa sia determinante per capire quanto diverso è il grado di empowerment d’una stessa lingua da parte delle diverse fasce di locutori: anzi, a dir meglio, è questo grado che ci permette di intendere come si stratifichi la masse parlante specie nel caso di società complesse e come ciò si rifletta nella assai varia capacità di intendere i testi, di cui, d’altra parte, l’analisi statistica interna consente di apprezzare il diverso grado di leggibilità. Considerate come cosa remota dai linguisti di formazione umanistica, in realtà le analisi quantitative consentono di apprezzare nella loro storicità lingue, stili, modalità di comprensione: esse ci portano nel cuore di una cultura di una popolazione, nelle articolazioni della sua demografia, insomma nel cuore della sua storia.

4. Linguaggio e calcolo

Ma per intendere la realtà linguistica non basta il computo. Il rapporto con la matematica è fondamentale in un’altra direzione assai più generale e di portata teorica decisiva. I numeri stanno dentro una lingua, sono nati anzitutto come parole, nomi di insiemi disponibili in serie ben distinti per quantità. Senza parola, senza il linguaggio, non sarebbe nata questa prima straordinaria forma di parole di valore semantico primariamente determinato, anche se la voracità della indeterminatezza semantica che domina il lessico delle lingue trascina alcuni numeri, in modo pittorescamente diverso a seconda delle lingue, a funzionare metaforicamente come generici «paucali» o «multali», come i due spaghetti, quattro passi, cento e cento, mille e mille o, in certe lingue, settanta volte sette o ottocentottantotto. I numeri nel loro valore proprio hanno consentito di uscire dal generico e dal variamente determinabile e di passare a operazioni enunciative, frasi, anch’esse di valore determinato: tre e due fa…, cinque meno due fa…, tre volte quattro fa…, dieci diviso due fa… Non ci sono, non devono esserci dubbi su come completarle.

A partire da Russell e Whitehead fino agli sviluppi della logica simbolica e della teoria degli automi degli anni Trenta e, poi, alle riprese specifiche della teoria della computazione con Davis, un intero settore di studi tra logica e fondamenti della matematica ha prodotto una messe di indicazioni sui requisiti di un calcolo e/o di un linguaggio formale marcandone le radicali differenze rispetto alle lingue storico-naturali e al loro uso. In verità già negli scritti di Leibniz si trovavano indicazioni del genere e, in più, sono indicazioni nutrite da un atteggiamento interessato parimenti a definire che cosa è un calcolo, ma anche le proprietà del parlare ordinario incompatibili col calcolo e tuttavia preziose per intendere che cosa è e come funziona una lingua storico-naturale. Ho tratto di qui acquisizioni per me preziose (e vorrei che lo fossero per tutti) (1) sull’indeterminatezza dei significati di parole ed enunciati, rispetto alla necessaria fissità semantica dei simboli di un calcolo, e (2) sulla strettamente connessa illimitatezza del «campo noetico», del campo del dicibile e comprensibile in e con una lingua (che mi pare cosa già ben colta da Saussure, soprattutto nelle note manoscritte non passate nel Cours, e poi dall’idea di «significato generico» di Pagliaro e, ovviamente, da Wittgenstein), rispetto alla delimitazione e limitatezza dei campi noetici di linguaggi matematici e formali, e, infine, (3) sul ruolo costitutivo dell’uso di una lingua svolto da quel che è una bestia nera, assolutamente da evitare, per un calcolo: la possibilità di autoriferimento delle parole, la possibilità di enunciati che discutono di enunciati con le stesse parole della stessa lingua. Una lingua sa essere il metalinguaggio di se stessa. Essa ci offre le sue risorse per parlare delle sue risorse. La realizzazione di ciò è quel che diciamo uso metalinguistico riflessivo. Grazie a esso una lingua è non solo il luogo capace di parlare di ogni altra semiotica (come Hjelmslev aveva visto), ma anche di se stessa. Grazie a esso, come in fase preistorica già avvenne per le parole numero, possiamo convenire di conferire a date parole un significato determinato almeno in alcuni ambiti di discorso. I linguaggi tecnici e scientifici, almeno per la parte in cui sono fatti di parole termine, hanno qui la loro radice.

Molti sono stati attratti dal cercare di individuare contraintes biologiche e neurologiche che incidono sull’uso delle lingue. A me pare che la maggiore contrainte sia che una lingua deve aderire alle mutevoli, imprevedibili, a priori illimitabili esigenze di significazione delle altrettanto mutevoli, imprevedibili, a priori illimitabili esperienze di cui il genere Homo sapiens è capace. Qui mi pare stia il principale giunto di collegamento tra biologicità e attività verbale. I calcoli devono avere un campo noetico limitato ed escludere nel loro uso la variazione sul campo di numero e significato dei loro vocaboli (cifre, simboli) e di numero delle regole sintattiche. Essi sono e devono essere non-creativi. Le lingue storico-naturali, invece, possono e devono ammettere la variazione sul campo, in corso d’uso, dei loro vocaboli e correlativi significati e delle regole sintattiche, come del resto l’evidenza più immediata già suggerisce. Esse sono non non-creative ma dominate anzi dalla potenziale permanente innovatività.

Se guardo indietro a ciò che mi sono sforzato di capire e dire su tutto ciò confesso volentieri un grande debito non solo verso i logici e matematici che ho ricordato, ma verso persone vicine con cui ne ho discusso lungo gli anni Settanta e oltre: due grandi linguisti e semio­logi, Luis Prieto e Antoine Culioli, e un impareggiabile compagno di ricerca, Emilio Garroni.

La necessità di concludere mi permette di evocare appena e solo assai rapidamente altri debiti verso altri campi di studio. L’etologia animale e in particolare gli studi di Dànilo Mainardi e le ricerche sulla fabbrilità di Alberto Cirese mi hanno aiutato a riflettere sulla nozione di cultura, sulle stratificazioni che la cultura ha, come Kant ha luminosamente spiegato nella Critica della facoltà di giudizio, e sul nesso profondo tra capacità di uso di più lingue e di traduzione da una ad altra e capacità umana di foggiarsi culture differenziate e però trasformarle nel tempo, L’incontro con Virginia Volterra e, attraverso lei, con gli altri studiosi delle lingue dei sordi e poi con l’intelligenza teorica di Tommaso Russo Cardona, un allievo prezioso crudelmente stroncato dal male all’inizio di un cammino fecondo, mi ha aiutato a mettere a fuoco la multimodalità dell’attività verbale e la plurisemioticità di cui il genere umano è capace più altamente d’ogni altra specie nota.

Vi ricordate forse che cosa diceva Antonio Gramsci di chi merita la qualifica di intellettuale: una persona che deve sapere fare al meglio il suo mestiere, ma, per farlo davvero bene, deve anche sapersi collocare nello spazio sociale in cui opera e deve dunque sapere essere specialista + politico. E specificava: a queste condizioni anche un carrettiere può essere un intellettuale, magari più d’un esimio professore autoreferenziale, specialista magari ma non politico. A me pare che qualcosa del genere valga anche per gli studi e del resto questo suggeriva anche Richard von Mises nel Kleines Lehrbuch des Positivismus: bisogna calarsi a fondo nella propria materia di studio sempre vigili però a ciò che succede intorno perché è ai margini, sui confini, all’incrocio tra campi disciplinari diversi che più spesso scoccano le scintille dell’acquisizione del nuovo di cui il sapere critico e scientifico ha incessante bisogno.

Miller era nato nel 1920 e si è purtroppo spento il 22 luglio di quest’anno 2012.

—Federico Albano Leoni, Stefano Gensini, Maria Emanuela Piemontese (a cura di), Tra linguistica e filosofia del linguaggio. La lezione di Tullio De Mauro, Laterza, 2013

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