Le parole sono fondamentali nella vita umana, radicate nella memoria e capaci di collegare il passato al presente e al futuro. Esse accompagnano ogni momento della nostra esistenza, sia quando comunichiamo sia quando riflettiamo interiormente o sogniamo. Dalla prima infanzia, le parole stimolano la memoria, unendo il presente al passato più prossimo e creando una continuità indispensabile per comprendere e produrre il linguaggio. Questo legame è evidente nel funzionamento della memoria a breve termine, che trattiene le parole appena percepite o pronunciate per consentire la coerenza di una frase. Senza questa memoria, non potremmo connettere inizio e fine di un enunciato né comprendere pienamente ciò che leggiamo o ascoltiamo.
Sant’Agostino, già nel IV secolo, aveva intuito l’importanza della memoria linguistica, descrivendola come essenziale per l’esecuzione di un discorso o di un canto. Oggi le ricerche psicologiche e neurologiche confermano la sua analisi, mostrando che la memoria a breve termine è continuamente attiva per guidare la produzione e la comprensione delle parole. Tuttavia, questa memoria è temporanea: dopo pochi secondi, il suo contenuto svanisce, lasciando spazio a nuove informazioni. Nonostante ciò, molte parole transitano nella memoria a lungo termine, dove vengono conservate, rafforzate e integrate con altre esperienze linguistiche. Le parole frequenti e necessarie, infatti, tendono a consolidarsi, diventando parte stabile del nostro patrimonio lessicale.
La memoria a lungo termine è però selettiva. In una lingua complessa come l’italiano, composta da centinaia di migliaia di parole, una persona colta ne ricorda solo una frazione, legata alle proprie esperienze personali, professionali e culturali. Questo patrimonio linguistico, pur essendo in parte condiviso, è unico per ciascun individuo. Parole familiari, termini tecnici di specifiche discipline o espressioni regionali creano un lessico personale che riflette l’identità sociale e culturale di ognuno. Tuttavia, esiste un nucleo comune di vocaboli condiviso da tutti i membri di una comunità linguistica, indispensabile per la comunicazione quotidiana.
Le parole non sono solo strumenti di memoria individuale; sono anche connettori tra passato e presente, legami con le generazioni precedenti e con i contesti sociali e storici da cui provengono. Ogni parola porta con sé tracce della storia, del popolo e delle culture che l’hanno usata. Questo legame storico è stato sottolineato da numerosi studiosi, tra cui poeti come Eugenio Montale, che ha descritto le parole come patrimonio collettivo depositato nei dizionari ma vivo nella memoria delle persone. Le lingue e i loro vocaboli rappresentano quindi un’eredità condivisa, che ci collega alle esperienze di chi ci ha preceduto.
Le parole, tuttavia, non sono statiche. Esse si evolvono, si adattano e si collegano dinamicamente alle esperienze vissute e alla memoria. La neurolinguistica mostra come ogni parola attivi reti di connessioni nel cervello, legandosi a ricordi, emozioni e altre parole. Questi legami non sono casuali ma vitali, rafforzando la nostra capacità di comprendere e differenziare concetti. Ad esempio, la conoscenza di un vocabolario ampio e specifico in un campo, come i colori o la neve, migliora la percezione e la categorizzazione di tali fenomeni. In modo simile, il lessico culinario italiano, con la sua ricca varietà di termini per tipi di pasta o pietanze, riflette l’intensa connessione tra cultura, esperienza e linguaggio.
Il rapporto tra parole e percezione sensoriale è controverso, ma è evidente che la memoria e la conoscenza linguistica orientano la consapevolezza e la comprensione del mondo. Le parole agiscono come fili conduttori che collegano ricordi disparati e li rendono accessibili. Esse si organizzano in sequenze, come proverbi, poesie o canzoni, creando unità di memoria chiamate “meme”, che rappresentano un patrimonio collettivo e personale allo stesso tempo. Questi memi rafforzano i legami con la famiglia, la comunità e il popolo, contribuendo a costruire l’identità culturale.
La lingua è quindi un elemento essenziale dell’identità individuale e collettiva. Popoli di tutto il mondo hanno mantenuto gelosamente le loro lingue native, anche quando hanno adottato lingue straniere per necessità. In Italia, ad esempio, molti cittadini conservano l’uso dei dialetti regionali accanto all’italiano, riconoscendo in essi un legame profondo con la propria storia e cultura. Le parole incarnano non solo significati ma anche emozioni, idee, paure e speranze, offrendo strumenti per riflettere sul passato, vivere il presente e progettare il futuro.
Le parole ci permettono di elaborare pensieri e programmi per le nostre azioni future. La memoria a breve termine consente di completare frasi o di seguire il discorso altrui, mentre la memoria a lungo termine fornisce la base per formulare istruzioni, progetti e programmi complessi. In questo modo, le parole legano passato, presente e futuro, intrecciando le capacità emotive, intellettuali e pratiche degli esseri umani.
La dimensione fisica del linguaggio è altrettanto cruciale. Le parole sono radicate nella nostra corporeità, nella voce e nei gesti. La fonetica e la neurolinguistica dimostrano che parlare coinvolge l’intero corpo, dalle corde vocali ai polmoni, fino al cervello, che orchestra i processi linguistici. Anche attività apparentemente semplici come leggere e scrivere richiedono un impegno fisico e mentale significativo. Antonio Gramsci sottolineava la “fatica muscolare” implicita nell’apprendimento, ricordando che la memoria e la comprensione dipendono dall’interazione tra corpo e mente.
Tuttavia, le parole trascendono la loro base fisica. Esse durano nel tempo, valicando generazioni e spazi sociali, e le loro motivazioni ed effetti non si riducono a fenomeni materiali. Questo duplice carattere delle parole, radicate nella fisicità ma capaci di trascendere i limiti materiali, ha affascinato studiosi e poeti. Wilhelm von Humboldt descrisse le parole come dotate di una “energia” che supera la banalità quotidiana, suggerendo che il linguaggio contiene un elemento di mistero e potenza.
Le parole, infine, sono strumenti essenziali per comprendere e comunicare, ma anche per conservare e rafforzare l’identità culturale di un popolo. Ignazio Buttitta, poeta siciliano, avvertiva che un popolo perde la propria libertà e dignità quando gli viene sottratta la lingua dei padri. Le parole sono quindi non solo un mezzo di espressione ma anche un veicolo di memoria, cultura e resistenza, capaci di mantenere viva l’eredità di una comunità e di proiettarla verso il futuro.
* * *
di Tullio De Mauro
Le parole, le frasi, la lingua abitualmente parlata hanno radici profonde nella nostra vita psicologica e nella nostra costituzione fisica. Per chi è interessato a capire come funziona il linguaggio umano questa è la prima cosa di cui vale la pena rendersi conto. Osserviamola più da vicino.
Le parole circondano il presente, ogni istante del nostro presente. Ci accompagnano quando parliamo con altri o leggiamo e scriviamo, ma anche nel silenzio e perfino nei sogni. E dal presente più immediato si distendono verso il passato e si protendono verso il futuro, coinvolgendo anche pensieri, volontà e coscienze umane.
Dalla prima infanzia le parole impegnano la capacità di memoria degli esseri umani e attraverso essa legano il presente al passato.
Il passato cui abbiamo accennato è anzitutto quello a termine brevissimo, fatto in genere di pochi secondi, sei o sette secondo gli psicologi. È un passato che nella percezione comune, irriflessa, ci appare fuso e confuso con l’immediato presente, ma che in realtà presente non è o già non è più. Osserviamo: mentre diciamo o scriviamo le parole di una frase dobbiamo tenerle a mente per seguitare a dire e scrivere parole coerenti con quelle appena usate e con il progetto di frase che, in genere, abbiamo in mente. La nostra voce o la mano con cui scriviamo o digitiamo è guidata dal progetto di frase e dalla memoria a breve che ne abbiamo. Anche mentre ascoltiamo o leggiamo dobbiamo fare qualcosa di analogo, dobbiamo a ogni momento che passa ricordarci quello che abbiamo appena udito o letto per ricostruire infine, dopo qualche secondo, l’intera frase che qualcuno ha realizzato per noi.
Molto prima degli psicologi e dei neurologi che da poco più d’un secolo studiano la memoria, molto prima dei non molti linguisti che si occupano della relazione tra parole e memoria, di ciò, di questo stretto rapporto tra la parola e il passato più brevemente trascorso, si avvide assai bene già sant’Agostino (354-430 d.C.). Anche per questa sua attenzione egli è restato per secoli il più acuto esploratore introspettivo della memoria. Oggi disponiamo in proposito di ricerche sperimentali e di nozioni teoriche più sofisticate. Ma il modo in cui Agostino descrive la memoria a breve termine e in particolare la memoria linguistica è ricco di formulazioni che ci appaiono ancora nitide e adeguate (De musica, VI 8, 21, De Genesi ad litteram XII 16, 33, Confessiones XI 27, 34-28, 38). Il tener fermo nella memoria a breve termine ciò che si viene esperendo è una precondizione necessaria per fissare il profilo della frase che una voce o un testo vengono realizzando e questo ci è indispensabile per connettere fine e inizio e quindi per capire ciò che ascoltiamo o leggiamo. Inoltre nelle Confessioni Agostino nota con acutezza che tale precondizione è necessaria anche per tenere fermo in mente il progetto di esecuzione di una frase, di un canto. Eseguiamo nel tempo la realizzazione di una frase. Senza tenere a mente il progetto della frase mentre la diciamo o scriviamo, non sapremmo realizzare la frase. Senza la memoria a breve termine non sapremmo produrre la sequenza di parole di una frase intera. Quella che gli psicologi chiamano ‘memoria a breve’ deve essere continuamente al lavoro per consentirci di programmare di dire e per effettivamente dire cose che abbiano una direzione, un senso, e per intendere direzione e senso delle parole altrui. Dunque da un lato il nostro passato più immediatamente prossimo pesa sul nostro istantaneo parlare e sul comprendere parole di altri. E, d’altro lato, nel parlare e nell’intendere, le parole ci obbligano a riconnetterci a quegli istanti appena trascorsi. Le parole, insomma, ci obbligano a tenere continuamente attivo un ponte che, attraverso la memoria a breve termine, collega il presente e il passato appena trascorso.
Possiamo tutti osservare e sappiamo oggi anche sperimentalmente che dopo alcuni secondi la memoria a breve termine tende in generale a svanire dalla nostra consapevolezza. Essa è sostituita, anzi è incalzata da altre memorie a breve che si succedono. Ma non tutto si perde nelle distese del passato. Dalla memoria a breve, molte esperienze e in particolare l’esperienza che abbiamo delle parole passano in buona parte nella memoria a lungo termine e in essa si depositano. È forse suggestivo credere che parole molto lette o dette o ascoltate si consumino, come sassi che rotolano troppo per troppi secoli e millenni. Ma questo può valere e vale per parole relativamente rare messe alla moda da qualche snobismo intellettuale o da trovate pubblicitarie. Del resto, il fastidio per parole alla moda troppo dette non va confuso con la dimenticanza. In generale, invece, le parole che più abbiamo bisogno di dire o capire e che più spesso, quindi, sentiamo, leggiamo o diciamo, quelle parole attraverso i mille e mille loro passaggi nella memoria a breve termine rifluiscono poi nello spazio della memoria a lungo termine. Qui, come sappiamo anche sperimentalmente, parole che già vi erano rafforzano e precisano la loro fisionomia ogni volta che le replichiamo o ne udiamo una replica. E spesso anche le parole nuove che udiamo o leggiamo per la prima volta e che capiamo o cerchiamo di capire vanno a depositarsi accanto alle parole già memorizzate. E lo stesso vale per le parole che, pur raramente, eccezionalmente, possa accadere di foggiare per la prima volta.
Abbiamo detto spesso, e non abbiamo detto sempre: la memoria a lungo termine ha dei limiti e lascia da parte parole che ci cadano sotto gli occhi solo qualche volta senza suscitare interesse. Come sappiamo dagli studi di lessicologia1, nei testi e discorsi prodotti nella lingua di un popolo di lunga tradizione e di complessa articolazione produttiva, sociale e culturale, esistono centinaia di migliaia di parole, anzi, se mettiamo nel conto anche le terminologie di scienze come la chimica, la zoologia, la botanica, nei testi scritti e nei discorsi pronunciati in una lingua appaiono milioni di parole diverse. I dizionari generali, anche i più estesi, ne registrano soltanto alcune centinaia di migliaia. Si tratta in grandissima parte di parole note solo a ristretti gruppi di persone specializzate in una particolare attività di lavoro o di studio. Del mare di parole apparse nei testi di una lingua una persona linguisticamente molto colta e di buona memoria serba in mente solo alcune decine di migliaia di parole che, all’occorrenza, sa riconoscere e capire e sa usare sensatamente, estraendole appunto dalla sua memoria a lungo termine.
Lo spazio della memoria a lungo termine è per un certo aspetto uno spazio privato, personale, nel senso che non può avere e non ha un contenuto identico per ogni essere umano. E quindi per questo aspetto la precisa configurazione del patrimonio di parole memorizzate è privata, personale. Solo i pochi componenti di un nucleo familiare conoscono le parole di quel «lessico famigliare» che, in un caso esemplare, fu illuminato dalla memoria poetica di una grande scrittrice, Natalia Ginzburg. Nelle società e nei paesi in cui l’istituto familiare ha un peso ogni famiglia ha tracce di dialetti di remota origine (le venete negrigure del padre della Ginzburg) o di scherzi e deformazioni infantili, di qualche familiare quando era infante o quasi: parole che si ha pudore di esportare fuori della cerchia più ristretta, più riservata. Ma con maggiore ampiezza sociale e rilevanza intellettuale lo stesso accade per altri gruppi che si formano entro una comunità linguistica. Solo un avvocato o una giudice conosce e sa usare parole come institore o soccombenza e capisce o usa alcune altre migliaia di parole che invece, per esempio, una mineralogista ignora, ma capisce che vuol dire cubaite. Giuristi e mineralogisti ignorano parole come lochiazione, note invece a un ostetrico, o come solenoidale, chiara a una professoressa di matematica, o come cucchiaino, ovvia per un muratore, che a sua volta ignora le parole di quelli e tutti rischiano imbarazzo dinanzi a stagflazione e altre parole degli studiosi e teorici dell’economia. Ci sono poi i gruppi regionali. Un italiano di famiglia siciliana conosce e può usare la parola scarrozzo, i friulani si salutano con un allegro mandi!, mal comprensibile ad altri italiani. Il gruppo di quelli che conoscono una lingua straniera si riconosce allo stesso modo: un italiano che conosca il tedesco capisce e magari usa parole come gemütlich o gespannt, ignote in Italia ai più. Insomma, le parole che una persona conosce sono in gran parte condivise da lui solo con una cerchia relativamente ristretta, talora poco più che familiare. E tuttavia tra le parole memorizzate dalle persone componenti di una stessa comunità c’è certamente un nucleo comune di alcune migliaia di parole, di cui ci serviamo ogni giorno per farci capire da persone lontane dal nostro gruppo professionale, regionale, sociale e per capire a nostra volta queste persone.
Tutte queste parole, le comuni e le altre differenti a seconda dei gruppi sociali e delle esperienze personali e di studio, mettono in rapporto a ogni istante ogni essere umano, nel suo sempre fugace presente, con il passato personale e non solo personale. Sia le parole più largamente comuni sia quelle che condividiamo con gruppi più ristretti le serbiamo nella memoria personale, ma non appartengono solo a noi. Quasi ogni parola che possiamo ricordare, forse tutte, e certo tutte le più importanti e usuali sono parole che abbiamo udito dai nostri cari, dalle persone con cui siamo venuti in contatto, da ciò che abbiamo udito con qualche attenzione, da ciò che abbiamo letto.
Una volta un gentile poeta italiano, che era un valoroso giurista, ha scritto: Ho imparato da te tante parole. / Ogni parola / un compagno. Ogni parola / il volto d’una persona amica. E un altro poeta, più grande (se graduatorie sono da fare nella poesia) e più noto, Eugenio Montale, ha scritto: Le parole / sono di tutti e invano / si celano nei dizionari. Se la configurazione del patrimonio di parole che conosciamo è personale, gli elementi della configurazione ci vengono di lontano: da punti e persone distanti nella realtà sociale e geografica e, soprattutto, da epoche lontane nel tempo, come è stato acquisito con sicurezza dagli studi di linguistica storica e comparativa2.
Anche se non sappiamo di storia, anche se non ne leggiamo e sentiamo raccontare o ne raccontiamo, ogni parola che usiamo per capire o farci capire ci viene dal passato e ci lega al passato e non solo al nostro passato personale, ma a quello del gruppo familiare e dei gruppi umani e, più oltre, del popolo cui apparteniamo e dei popoli noti o dimenticati che usarono parole e lingue da cui, trasformandosi in parte nel tempo, sono nate le nostre. Ogni parola ci lega alla storia.
Ma parole e memoria hanno anche un altro rapporto, non meno profondo. Finora abbiamo presentato la memoria come un deposito, con le sue scaffalature robuste capaci di ospitare migliaia e, nei casi individuali migliori, decine di migliaia di parole diverse. È un po’ l’immagine che se ne faceva il popolano di un bel sonetto di Gioachino Belli: un magazzino de dogana. Ma oggi sappiamo che le parole non sono merci scollegate e inerti in un magazzino che entro ampi limiti resta a sua volta inerte al loro depositarvisi. Il magazzino è il nostro cervello, che è un insieme sempre in movimento, un insieme dinamico di miliardi di cellule nervose, i neuroni, ciascuna legata ad altre in miliardi e miliardi di diversi circuiti. La neurolinguistica da qualche anno sta cercando di esplorare in che modo una parola che entra nel magazzino si connette ad altre e alle memorie di altre nostre esperienze. Le frontiere della ricerca avanzano rapidamente, ma, con quel che già sanno, linguistica, psicologia e psicoanalisi ci dicono che ciascuna parola non vive in solitudine3. Non solo si connette ad altre parole, affini per la forma o per il senso o per prossimità nell’uso abituale, ma si connette in modo profondo alle esperienze con cui il suo uso ha avuto a che fare.
La connessione è qualcosa di più di una semplice giustapposizione. È una connessione profonda, vitale. Anzitutto con la sua presenza la parola rafforza memorie cui sia connessa. Per esempio, più aggettivi e nomi di colori conosciamo, e cioè più e meglio articoliamo il campo semantico del colore, meglio distinguiamo i diversi colori e però, d’altra parte, meglio e più lavoriamo e viviamo distinguendo i colori, come fanno i pittori, i restauratori o i tessili o le molte donne più dei maschi attente all’abbigliamento e all’arredamento, e meglio impariamo a capire nomi e aggettivi di colori. Altro esempio noto è il campo semantico della neve. Chi vive sempre in città vede e nomina, se gli capita, la neve, ma già il provetto arrampicatore su ghiaccio o lo sciatore nomina perché vede e sa riconoscere nevi diverse. E, dove gli europei vedono e nominano solo la neve, gli inuit, gli eschimesi, vedono e nominano decine di nevi diverse. Il campo semantico è articolatissimo in funzione di loro esigenze vitali. Ma, senza costringerci ad andare fino al Circolo Polare, una valorosa studiosa francese, Henriette Walter (n. 1929), in un suo libro tanto piacevole quanto istruttivo, L’avventura delle lingue in Occidente, ha richiamato l’attenzione sul banale (per gli italiani) campo semantico della pastasciutta. Possiamo constatare che dove il non italiano vede o chiede un piatto di pasta, un italiano distingue, nomina e di volta in volta cucina o pretende in modo sottilmente differenziato spaghetti, vermicelli, fusilli, spaghettini, bucatini, capellini, maccheroncini, zita, penne e mezze penne, tagliatelle, tagliolini, pappardelle, maltagliati… a non parlare di ravioli, ravioloni, raviolini, tortelli, tortellini, tortelloni, cappelletti, cappellacci e altre decine di parole delicatamente interrelate nella pratica semantico-culinaria degli italiani.
È un problema controverso capire fino a che punto la percezione sensoriale stessa sia determinata dalla presenza o assenza della memoria e conoscenza di certe parole. Certo, dalla presenza o assenza è orientata la consapevolezza articolata di ciò che esperiamo e, con la consapevolezza, è orientata la memoria.
Il gioco mutuo tra esperienze, memoria e parole fa sì che, come la madeleine, il pasticcino in A la recherche du temps perdu di Marcel Proust, ciascuna parola può fungere da capo della matassa in cui si avvolgono i ricordi delle nostre esperienze. Essa è spesso il filo rosso che collega ricordi disparati e li dipana.
E infine è anche certo che molte parole stanno nella memoria raccolte non solo in associazioni e campi semantici, ma contigue con altre in sequenze più o meno ampie: proverbi ed espressioni proverbiali, filastrocche, indovinelli, battute e barzellette, motti, titoli di opere, frasi celebri, preghiere, operazioni e formule matematiche e teoremi, poesie, romanze, canzoni. A ciascun pezzo di questo materiale composito diamo il nome di ‘mema’ (in inglese meme). I memi sono le unità funzionali della nostra memoria. Anch’essi sono una proprietà privata e, insieme, condivisa e pubblica. Più ancora di singole parole, i memi creano un collegamento sia con la nostra famiglia, con gli amici più stretti, col gruppo sociale cui apparteniamo sia con l’insieme di gruppi che costituiscono un popolo e una nazione.
Così le parole rioperano sulla memoria e costituiscono un elemento forte della nostra identità personale, familiare, sociale, culturale, nazionale. Si capisce perciò che molti popoli, anche quando hanno appreso e usato altre lingue, hanno però conservato gelosamente la propria nativa e tradizionale. Giapponesi e coreani appresero nei secoli e usano ancora il cinese mandarino e i suoi ideogrammi, ma non hanno abbandonato le loro lingue native, che anzi mantengono ben vive. Nell’Europa medievale le classi appena istruite conservarono o appresero tutte il latino, ma all’ombra di questo rinsaldarono le loro parlate vulgares, popolari (theotisca lingua, tedesco, questo voleva dire: lingua del vulgus, del popolo), che così fiorirono e si affermarono. In Africa le grandi lingue dette «di civilizzazione», e cioè l’arabo e le lingue europee coloniali (francese, inglese, portoghese, spagnolo), e le lingue locali transglottiche4, come il suahili, non hanno cancellato le circa duemila lingue locali. Del resto non c’è da andare lontano nel tempo e nello spazio: in Italia, durante l’età della Repubblica, dopo il 1946, i cittadini hanno imparato (quasi) tutti l’italiano, ma molti (sei su dieci) conservano memoria e uso di uno dei tanti dialetti. In una lingua, nei suoi suoni, nelle sue parole con i loro sfumati significati è depositata la memoria profonda e l’identità di un popolo.
Proprio perché così corradicate col passato a breve e a lungo termine sia nostro sia altrui le parole possono avere a che fare col nostro presente più immediato. Ci permettono di interagire con gli altri, di capire gli altri e di farci capire. Ci permettono di riflettere interiormente su ciò che abbiamo vissuto o stiamo vivendo e di confrontarci con altri e capire meglio noi stessi. Ci permettono di elaborare emozioni, idee, paure, fantasie, sogni, ragionamenti, speranze e, soprattutto e di continuo, più o meno attendibili programmi e progetti per le nostre azioni e intraprese future.
Lo abbiamo appena evocato: paure, speranze, progetti. Le parole non ci legano solo al passato, non ci sono preziose solo nel presente. Anche ci aprono porte verso il futuro. Il futuro più immediato impegna la memoria a breve termine per consentirci di finire la frase che abbiamo cominciato o per capire, come spesso è necessario, dove e come vanno a finire le frasi altrui. Ma anche il futuro più lontano entra in gioco attraverso le parole e la memoria a lungo termine. Nelle e con le parole di cui disponiamo prendono corpo istruzioni per azioni successive, ordini, progetti, programmi, prescrizioni.
Passato prossimo e remoto, presente, futuro più immediato e più lontano, l’intera vita di un essere umano è coinvolta nelle e dalle parole. Esse nascono dalle esperienze reali e possibili, dal convergere delle capacità di emozione, azione, intelligenza di cui ogni essere umano è dotato e rioperano potentemente su queste capacità, le consolidano, le strutturano, le rendono comunicabili e comuni. Ce lo ricorda non un umanista, ma un grande fisico teorico, Albert Einstein (1879-1955). «La maggior parte di quanto sappiamo e crediamo ci è stata insegnata da altri per mezzo di una lingua che altri hanno creato. Senza la lingua la nostra capacità di pensare sarebbe assai meschina e paragonabile a quella di altri animali superiori»: comincia così Come io vedo il mondo.
Chi ha una formazione umanistica o è comunque estraneo agli studi sulla fisiologia della memoria potrebbe forse essere indotto in inganno dalla sottolineatura che abbiamo fatto delle valenze psicologiche, intellettuali e storiche che, attraverso la memoria, dobbiamo riconoscere alle parole. Quelle indubbie valenze esistono perché le parole e frasi si radicano anzitutto nella nostra fisicità, nel nostro essere corporeo. Ciò vale con tutta evidenza per la voce, in cui prendono corpo i ‘significanti’, il versante esterno di parole e frasi. Come ha scritto un grande fonetista britannico, David Abercrombie (Elements of General Phonetics, Edinburgh University Press, Edinburgh 1967, p. 1), «parliamo con tutto il corpo». Le emissioni di aria dai polmoni e le vibrazioni della glottide si fanno diverse perché le lavoriamo e conformiamo col diverso atteggiarsi della cavità orale, ma la voce che così ne nasce sarebbe quasi impercettibile se non venisse amplificata dalle sue risonanze nella cassa del torace (di qui ci arrivano le onde acustiche che udiamo); e sarebbe assai poco variata senza la guida del cervello. Un grande fonetista, Paul Passy (1859-1940), osservava nella sua insuperata Petite phonètique des principales langues européennes, che l’apparato vocale umano non si deve paragonare a uno strumento, ma a un complesso di strumenti, a fiato, a corda, a arco, a percussione… Non funzionerebbe senza un direttore d’orchestra. La capacità di usare il cervello è decisiva per articolare la voce, per coordinare i delicati gesti della bocca e degli organi della voce al fine di ottenere le sottili differenziazioni che ci permettono di distinguere diverse famiglie di suoni e di toni. E il cervello ha una funzione altrettanto importante nel (come si dice giustamente) tendere l’udito e tra i rumori selezionare il suono della voce che vogliamo udire e, in questa, per cogliere il variare di ritmi e toni e il succedersi di suoni significativi e per integrare quel che percepiamo con la forma delle parole che conosciamo. E anche nell’apprendere e nell’usare gli equivalenti della voce, il relativamente raro sign language, il linguaggio gestuale delle comunità di sordomuti (di cui parleremo più oltre, p. 108, n. 1) e il più comune leggere e scrivere c’è un impegno per tutto il nostro corpo: muscoli, vista, arti, cervello. Evidente nell’esercizio produttivo e percettivo dei linguaggi segnati dei sordomuti, esso è presente anche nello scrivere e nel leggere. Agli intellettuali per i quali leggere, scrivere, apprendere appaiono attività facili, perché diventate per loro abituali, una grande e tragica personalità del Novecento, Antonio Gramsci (1891-1937), ricordava, dal chiuso delle carceri fasciste, che c’è fatica, fatica muscolare come egli specificava, nel sapere stare ad ascoltare, nello star seduti a leggere, a scrivere, a studiare parole. Del resto oggi sappiamo che senza l’apporto chimico e fisico di tutto il corpo non si fissano tracce in quella memoria a lungo termine, essa stessa fisicamente costituita in rapporto con l’intero corpo, di cui abbiamo già sottolineato l’importanza per la vita delle parole e delle lingue. E ciò vale non solo per le voci e i significanti: non ricorderemmo quelle voci senza attribuire a esse un senso, il senso che abbiamo esperito con tutto il nostro essere. Chi immagina che le parole abbiano un versante tutto fisicità, quello della vocalità che produciamo e udiamo, e un versante di puro spirito, quello dei significati e sensi studiati dalla semantica e dalla grammatica, appare fuori strada: è di nuovo con tutto il nostro corpo che viviamo l’esperienza di dare un senso alle voci e, poi, di serbare a lungo nella memoria voci collegate a sensi e sensi a voci, cioè parole. Aveva profondamente ragione il «favoloso Gianni», lo scrittore italiano Gianni Rodari, che rivaleggia con Dante, Machiavelli e Umberto Eco per numero di traduzioni nel mondo. Mentre faceva ai bambini di Reggio Emilia le «lezioni» poi diventate La grammatica della fantasia, quando i bambini, sollecitati da lui per inventare storie partendo da un dettaglio o da una parola, tacevano e dicevano di non ricordare né parole né memorie, Rodari, sorridendo, diceva: «Ma la tua punta del naso, ma il tuo mignolo, ma la tua gamba destra, possibile che non si ricordi niente? E il tuo gomito? Non ha una parola che si ricorda solo lui?». Bambine e bambini ridevano e parole e ricordi riaffioravano venendo dalla punta del naso, dal mignolo, dal gomito. Non solo la voce, ma tutto il nostro parlare e capire e sapere una lingua affonda le sue radici in tutto il nostro corpo.
E tuttavia è anche vero che le parole trascendono il piano della pura fisicità. Studiare le onde acustiche o le variazioni cromatiche prodotte dalla voce o dalla grafia quando si realizza una parola con la voce o con la scrittura e osservare il comportamento fisico di chi la dice o la riceve insegnano cose importanti e, in ultima analisi, ci ammoniscono a ricordare sempre che privati di radici nella fisicità significati e significanti di parole e frasi non sussisterebbero; ma non dicono da quali luoghi e tempi una parola è venuta fino a noi, in che modo essa sta collocata nella memoria e mente, quali limiti la sua forma e le usanze impongono al suo uso e, quando la adoperiamo, in che rapporto sta con altre parole non dette. Si potrebbe continuare: il fatto è che una parola, radicata certamente in fenomeni fisici e fisiologici, appare fatta in modo da non ridursi a essi. Torniamo a ricordarlo: una parola vive oltre la fisicità individuale durando attraverso innumeri generazioni nel tempo. Vive oltre essa valicando, di persona in persona, lo spazio materiale e sociale in cui fisicamente ci collochiamo come singoli. E, soprattutto, le motivazioni per cui decidiamo di dirla e gli effetti che suscita quando la udiamo non si lasciano ridurre a cause o effetti di natura fisica.
Questo evanescente oggetto materiale che è la parola ha i caratteri della banalità quotidiana più trita, ovvia, immediata, e insieme ci sorprende perché reca in sé qualcosa di straordinario, una potenza o, come fu detto da un grande pensatore e linguista tedesco, Wilhelm von Humboldt (1767-1835), ha una enérgeia che trascende ogni banalità e quotidianità. Questo radicamento fisico, fisiologico, delle parole e, insieme, questo loro evidente potere di trascendimento hanno fatto sì che nella storia delle riflessioni sul linguaggio a più riprese studiosi e pensatori rigorosi, lontani da ogni misticismo (basterà evocare qui nomi che più volte incontreremo, Saussure, Croce, Chomsky), hanno detto che un’ombra di mistero pare circondare il nostro parlare e il nostro intenderci con parole. Ci inoltreremo nel mondo delle parole cercando di ricordarcene, ma anche cercando di diradare le ombre fin dove sarà possibile.
E così capiremo meglio quanta ragione aveva quel grande poeta popolare italiano, Ignazio Buttitta, quando nel suo siciliano scriveva: Un populu / diventa poviru e servu / quannu ci arrobbanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri. / Diventa poviru e servu, / quanno i paroli non figghianu paroli / e si manciano tra d’iddi. / Mi nn’addugnu ora, / mentri accordu a chitarra du dialettu / ca perdi na corda lu jornu, «Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua avuta in dote dai padri: è perduto per sempre. Diventa povero e servo quando le parole non figliano parole e si mangiano tra loro. Me ne accorgo ora, mentre accordo la chitarra del dialetto che perde una corda al giorno».
Tullio De Mauro, Prima lezione sul linguaggio, Laterza, 2002