Toscani tra estetica e polemica: l’uomo che ridefinì la comunicazione

Oliviero Toscani rivoluzionò la pubblicità con immagini provocatorie e iconiche, trasformando il consumo in polemica culturale tra genio e contraddizioni.

di Lorenzo Verani

Nel maggio del 1973, mentre la società italiana si trovava in piena trasformazione culturale ed economica, Pier Paolo Pasolini individuava in una pubblicità di jeans il segno di un’epoca già irrimediabilmente omologata. Il celebre slogan, “Non avrai altro jeans al di fuori di me”, che troneggiava sotto l’immagine di un fondoschiena femminile incorniciato da denim strappato, appariva al poeta come la dimostrazione più chiara del passaggio da una lingua umanistica a una “nuova lingua tecnica”. Pasolini scriveva con quella sua voce apocalittica, intrisa di un moralismo cattolico, ma anche del desiderio, mai sopito, di difendere la molteplicità e la diversità culturale contro il processo di appiattimento che intravedeva all’orizzonte. Il mondo di quel futuro, annunciava, sarebbe stato “inespressivo”, un luogo di morte spirituale e culturale.

Ma se Pasolini rappresentava il profeta disarmato della resistenza culturale, Oliviero Toscani era già il demiurgo di un’estetica nuova, spudorata, costruita sul fascino della provocazione. Quella campagna pubblicitaria, più che una semplice operazione di marketing, segnava il debutto di una visione: il corpo, liberato dai pudori di un cattolicesimo ancora fortemente radicato, diventava un oggetto di desiderio e insieme un manifesto politico. Era un gesto iconoclasta, un cortocircuito tra il sacro e il profano che, con la stessa forza di un dipinto di Caravaggio, infrangeva i confini tra alto e basso, tra arte e commercio.

E qui, forse, sta il cuore della questione: mentre Pasolini lamentava la fine del “linguaggio umanistico”, Toscani giocava proprio con quella perdita, trasformando ogni immagine in una polemica e ogni slogan in un atto teatrale. “Non avrai altro jeans al di fuori di me” non è solo uno slogan: è una battuta brillante, una frecciata ironica lanciata contro la moralità borghese, un pezzo di commedia all’italiana. Il fondoschiena femminile che lo accompagna non è semplicemente una figura pubblicitaria, ma un’icona pop che parla di libertà, di desiderio, di una nuova sensualità che si afferma come valore culturale.

Toscani, con quella campagna, inaugura una stagione in cui la pubblicità non si limita più a vendere prodotti, ma diventa un territorio di scontro simbolico. Ogni immagine, ogni messaggio, ogni provocazione è progettata per dividere, scandalizzare, innescare dibattiti che, inevitabilmente, finiscono per alimentare lo stesso sistema che criticano. In questo, Toscani è perfettamente consapevole: il suo talento non sta solo nell’estetica, ma anche nella capacità di sfruttare le dinamiche della società dei consumi. La polemica diventa il motore della pubblicità, e la pubblicità diventa il palcoscenico della polemica.

Passano quasi trent’anni, e il Toscani del nuovo millennio si presenta in una veste inaspettata, quasi grottesca: quella del moralista, del critico della società che egli stesso ha contribuito a plasmare. Pubblica un pamphlet (Non sono obiettivo, Feltrinelli, 2001) con toni da Savonarola moderno, scagliandosi contro i mali del consumismo, contro il turismo di massa, contro la superficialità della società contemporanea. Ma qui l’ironia è in agguato. Come può proprio Toscani, il re della provocazione pubblicitaria, l’uomo che ha costruito la sua carriera sulla spettacolarizzazione del consumo, assumere il ruolo di fustigatore dei costumi? Questo cortocircuito, questo gioco di specchi tra ciò che Toscani ha fatto e ciò che ora predica, è l’aspetto più intrigante, ma anche più problematico, della sua figura.

Quando Toscani critica il consumismo, sembra dimenticare che le sue stesse campagne, come quelle per Benetton, hanno contribuito a ridefinire il rapporto tra etica ed estetica, trasformando la pubblicità in un’arte che mescola il sacro e il profano, il tragico e il commerciale. La foto del malato di AIDS, il bacio tra un prete e una suora, i condannati a morte: immagini che, nel loro impatto visivo, non si limitano a vendere prodotti, ma aspirano a cambiare il modo in cui guardiamo il mondo. Eppure, proprio in questa ambizione, si nasconde il paradosso: Toscani denuncia i mali di una società che egli stesso ha contribuito a costruire.

Questo conflitto tra comunicazione e metacomunicazione è il punto centrale della sua figura. Toscani è un pubblicitario e, al tempo stesso, un intellettuale nel senso gramsciano del termine, un creatore di cultura che, consapevolmente o meno, ha partecipato alla “mutazione antropologica” che Pasolini temeva. La differenza sta nel giudizio. Per Pasolini, quella trasformazione era una tragedia; per Toscani, è una realtà da sfruttare, da manipolare, da plasmare a proprio vantaggio.

Ma c’è anche un altro lato della medaglia. Il moralismo di Toscani, per quanto incoerente, rivela una tensione autentica, un desiderio di andare oltre il semplice gioco delle provocazioni. Quando si scaglia contro il turismo di massa o l’uso indiscriminato dei cellulari, Toscani non sta solo denunciando i mali del presente: sta cercando di definire un’etica del consumo, una visione del mondo che vada al di là della logica del profitto. Certo, le sue invettive possono apparire aristocratiche, qualunquiste, persino ipocrite. Ma dietro il moralista si intravede ancora il provocatore, l’artista che non si accontenta mai, che cerca sempre un nuovo bersaglio, un nuovo scandalo, una nuova immagine capace di far discutere.

E allora, come giudicare Toscani? È un genio o un impostore? Un moralista o un cinico? La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Toscani è tutte queste cose insieme. È il diavolo e il frate, il pubblicitario e il critico, il creatore e il distruttore. La sua carriera, come quella dell’Italia stessa, è un gioco di contraddizioni, un intreccio di luci e ombre, di genialità e di eccessi.

In fondo, Toscani è l’incarnazione perfetta di un’Italia che non smette mai di sorprendere, di scandalizzare, di inventare. Un’Italia che sa trasformare anche uno slogan pubblicitario in un pezzo di storia culturale, un fondoschiena in un’icona pop, una polemica in un’opera d’arte. E forse, proprio per questo, non possiamo fare a meno di amarlo e di criticarlo, di celebrarlo e di condannarlo, di seguirlo e di prenderne le distanze. Perché in Toscani, come in ogni grande artista, vediamo riflessa la nostra stessa ambiguità, la nostra stessa voglia di essere moderni e nostalgici, rivoluzionari e conservatori, geniali e terribilmente umani.

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