di Gian Carlo Ferretti
Il primo romanzo edito di Guido Morselli Roma senza papa, compie trentanni. Ha infatti un «finito di stampare» datato luglio 1974, anche se le prime recensioni escono nell’ottobre. La ricorrenza ha un significato che poche opere e pochi scrittori possono vantare. Morselli rappresenta probabilmente il più clamoroso caso editorial-letterario del Novecento italiano, per essere lo scrittore più rifiutato e più postumo. A lui tocca una sorte analoga a quella di Tomasi che muore prima di vedere pubblicato Il Gattopardo. Ma il suo caso presenta alcune dolorose e tragiche varianti che caratterizzano del resto la sua intera vicenda, ricostruita da Valentina Fortichiari nelle Immagini di una vita (Rizzoli 2001), nelle edizioni dei Romanzi (Adelphi 2002), e in altre sedi. In particolare Morselli muore suicida, lasciando appunto moltissime opere inedite e rifiutate con motivazioni ora generiche ora argomentate, opere che insieme ad altre usciranno dopo la sua morte. Morselli lascia anche una grossa cartella azzurra, che raccoglie i carteggi da lui tenuti con molti editori, e che reca sulla copertina il disegno inequivocabile di un fiasco.
Morselli per la verità ha una sua bibliografia in vita, ma si tratta di saggi e di articoli. Uomo di studi incostanti ma di forti interessi, intellettuale autodidatta di prim’ordine, amico di un filosofo come Antonio Banfi (che sarà anche prefatore di un suo saggio), stimato da un poeta come Vittorio Sereni (che ospiterà tre suoi contributi critici e filosofici nella rivista Questo e Altro), Morselli pubblica tra l’altro Proust o del sentimento presso Garzanti nel 1943, e Realismo e fantasia, presso Bocca nel 1947. Ma già Realismo e fantasia è stato rifiutato da Ceschina e da Mondadori, ed entrambi i saggi sono stati pubblicati a spese del padre. Episodi che segnano l’inizio della fine, aprendo una lunghissima serie di tentativi puntigliosi quanto sfortunati.
Nel 1953 la proposta di un volume collettivo sulla crisi delle monarchie moderne, nel quale Morselli vorrebbe coinvolgere Giovanni Spadolini, non va in porto. Ancora. Tra il 1956 e il ’57 Casa Einaudi gli comunica che il dattiloscritto del suo saggio Fede e critica è stato smarrito. Morselli non ci crede, pensa che sia una pietosa bugia per nascondere un rifiuto, insiste, protesta, si arrabbia, chiede un risarcimento di 25.000 lire almeno per le spese di carta e di trascrizione dattilografica. Dopo alcuni mesi la casa editrice gli comunica che il dattiloscritto è stato ritrovato e letto, ma alla fine non accettato. Fede e critica del resto era già stato rifiutato in precedenza da Comunità e da Garzanti. E dopo la vicenda einaudiana sarebbe stato restituito al mittente dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, con una motivazione di incompatibilità ideologica.
Anche le proposte di collaborazione giornalistica negli anni cinquanta, vivono fasi alterne. Se Mario Pannunzio gli pubblica sul Mondo alcune corrispondenze da Bonn pagandogli i relativi compensi, il direttore dell’Espresso Arrigo Benedetti gli rifiuta un articolo su David Herbert Lawrence perché «non è di stretta attualità», e Spadolini come direttore del Resto del Carlino gli risponde che lo spazio delle collaborazioni è già troppo affollato.
La serie nera dei rifiuti letterari inizia negli anni sessanta, ma ha un antefatto nel carteggio che Morselli avvia con l’einaudiano Italo Calvino sui problemi teorici del marxismo e dell’alienazione. Carteggio che assume anche toni confidenziali, con Morselli che dalla sua villettina di Gavirate presso Varese si definisce un «agricoltore», fiero di non possedere né telefono, né aspirapolvere, né frigorifero, né tv, né riscaldamento, e orgoglioso del vino di sua produzione. Calvino appare incuriosito e disponibile verso il suo strano e colto corrispondente, ma quando nel 1963 si passa a parlare di dattiloscritti le cose cambiano. Morselli ha scritto un romanzo che si intitola Un dramma borghese, e che racconta la storia infelice dell’attrazione di una figlia diciottenne per il padre. Chiede un parere a Calvino, che si fa evasivo e rinvia alla redazione einaudiana. Due anni dopo si mostra più generoso, e scrive a Morselli una lunga lettera sull’altro suo romanzo Il comunista: «un grande partito italiano veduto (…) attraverso la vicenda umana di un suo esponente», come lo definisce lo stesso autore. Il giudizio di Calvino è pieno di rilievi critici: un implicito rifiuto, insomma. L’ultima frase della sua lettera, per voler essere consolatoria, risulta in realtà crudele: «Spero che Lei non s’arrabbi per il mio giudizio. Si scrive per questo e solo per questo: non per piacere, o stupire, o “aver successo”».
Gli anni tra il 1963 e il ’65 registrano altri smacchi. Un dramma borghese viene proposto da Morselli alla Mondadori, e passa attraverso un travagliato processo decisionale, nel quale si succedono vari carteggi e giudizi. La conclusione finale è negativa, ma il direttore letterario della casa editrice Vittorio Sereni che si è affezionato al caso, consiglia a Morselli di inviare il dattiloscritto alla casa editrice Rizzoli, che lo rifiuta a sua volta. Morselli non demorde e manda alla Mondadori Il comunista, che nonostante giudizi alterni subisce la stessa sorte del romanzo precedente. Qui entra in scena nuovamente la casa editrice Rizzoli, dove Il comunista può contare sulla sensibilità del poeta Giorgio Cesarano, diventato responsabile per la narrativa. Questa volta tutto sembra procedere felicemente. Si succedono nell’aprile del 1966 una prima lettera promettente e un telegramma inequivocabile: «Decisa pubblicazione suo romanzo segue espresso rallegramenti cordialità». Poi la firma del contratto, le bozze, gli accordi per la pubblicazione, prevista per il gennaio dell’anno dopo. L’incubo sembra finito. Ma ecco la beffa finale, come per un destino inesorabile. La dirigenza Rizzoli cambia, Cesarano se ne va e arriva il manager extraeditoriale (e culturale) Gianni Ferrauto che appare turbato dal titolo del romanzo, anche se Il comunista in realtà è la storia di un dissenso ideologico. Passa un intero anno di rinvii e di contrasti, finché Morselli esasperato chiede che gli vengano restituite le bozze corrette. Le avrà, e la sua richiesta verrà interpretata come volontà di sciogliere il contratto. Il comunista tornerà nel cassetto insieme agli altri romanzi.
Nel 1971 Morselli invia alla Mondadori un altro romanzo dal titolo Contro-passato prossimo, dove si racconta di una prima guerra mondiale vinta dall’Austria anziché dall’Italia: con analoghe conseguenze per i rispettivi alleati. La nuova vicenda editoriale dura un paio di anni, caratterizzati da giudizi interni contrastanti, trattative, proposte di modifiche all’autore e sue proposte alternative (come quella di un altro romanzo storico-fantastico sul re Umberto I, Divertimento 1889). Ma tutto segue la solita spirale perversa, nonostante il direttore letterario mondadoriano Vittorio Sereni continui a manifestare per Morselli simpatia e interesse. Finché nel 1973 il direttore editoriale della Mondadori Sergio Morando decide di non farne niente, considerando il romanzo lontano da garanzie di successo. Sono gli anni in cui nell’editoria italiana si viene affermando ima logica commerciale più stringente che nel passato.
Ancora una volta Sereni cerca un’alternativa esterna alla Mondadori, orientandosi verso Adelphi nella persona di Luciano Foà. La serie negativa finalmente si interrompe, anche grazie al parere favorevole del consulente adelphiano Giuseppe Pontiggia, e nel 1974 la casa editrice decide di pubblicare come primo titolo Roma senza papa, romanzo su una Chiesa in crisi alle soglie del Duemila. Cui seguiranno le altre opere con crescente successo di critica e di pubblico anche all’estero. Ma nel frattempo, il 31 luglio dell’anno prima all’età di sessantun anni, Morselli si è sparato un colpo di pistola.
C’è perfino un rifiuto postumo. Nel dicembre del 1973 Enrico Filippini redattore della casa editrice Bompiani, alla quale Morselli nel bel mezzo della trattativa mondadoriana aveva proposto il suo ultimo romanzo, spedisce a Maria Bruna Bassi, compagna, amica, lettrice di fiducia, e consigliera dello scrittore, questo telegramma: «Abbiamo letto Dissipatio H.G. di Guido Morselli. In breve: interessante ma troppo ambizioso. Peccato. Cordiali saluti». Per una coincidenza singolare il romanzo racconta di un uomo che, sopravvissuto al proprio suicidio e alla scomparsa improvvisa del genere umano, diventa un ex-uomo che ascolta la propria voce e il silenzio del mondo.
Tra le molte e complesse ragioni degli innumerevoli rifiuti editoriali di cui Morselli è vittima, se ne possono indicare almeno due: la sua vita ritirata e lontana dalPestablishment letterario-editoriale, e una produzione narrativa in anticipo sui tempi e sui gusti, con caratteri insoliti e anomali, che ne compromettono la fortuna. Proprio Pontiggia sottolineerà la originale «irregolarità» di Morselli nel rapporto tra documentazione e invenzione, e la sua costruzione del racconto tanto «meditata, sapiente» quanto «imprevedibile». Ma altre ragioni implicite di quei rifiuti coincidono in parte con le ragioni che saranno sottese all’accettazione da parte di Adelphi: l’interesse per le tematiche filosofiche e religiose, il legame con la tradizione mitteleuropea, il senso di una civiltà in rovina, una vena fantastica (fantastorica, fantareligiosa, fantapolitica).
Rimane il problema del suicidio. Ora, se appare difficile negare che la interminabile serie di insuccessi abbia avuto un peso nella decisione estrema (anche se Morselli lascia scritto in una lettera «non ho rancori»), appare altresì necessario ricordare che un suicidio ha sempre motivazioni e implicazioni molteplici e oscure. D’altra parte non sembra possibile ricavare una spiegazione attendibile dalla biografia. Una vita agiata (grazie a un vitalizio paterno) e insieme parsimoniosa, divisa tra gli affetti familiari e amicali, il servizio militare, le attività predilette della lettura, dello studio, della scrittura, le corse in Lancia Ardea e a cavallo per le campagne del Varesotto, la passione del cinema amatoriale, il fortunato corteggiamento delle donne, l’amore per la terra e per le coltivazioni, l’insofferenza quasi ossessiva per le regole, per gli elettrodomestici e per i rumori, il senso civico e l’azione contro le violazioni industriali del paesaggio, e tante altre manifestazioni di anticonformismo alternate a piccole fissazioni maniacali. Certo, non si possono ignorare altri fatti, come il suicidio di uno zio malato di leucemia nel 1944, o i momenti di depressione testimoniati dai contigui, o certe pagine pessimistiche del Diario per una ritornante sensazione di fallimento e inutilità personale («Tutti sì, io no» recitava una scritta in latino appesa alla libreria). Ma sono soltanto vaghi indizi, che rimandano a quella pistola Browning militare, la celebre «ragazza dall’occhio nero» dei suoi romanzi.
l’Unita, 6 luglio 2004