Caro direttore, avendo visto per intero la conferenza stampa Trump-Vance-Zelensky finita a chi ce l’ha più duro e letto le analisi di chi pensa che fosse premeditato – un’imboscata di Trump a Zelensky o il suo contrario – l’impressione che ne ho ricavato è un’altra.
Trump, in modalità comizio permanente, si rivolge ai suoi elettori e al suo predecessore descritto come incapace e sprovveduto mentre lui, che è “uomo d’affari”, sa come si fanno le cose perché “le cose” – guerre, crisi climatiche, relazioni – nel mondo di Trump sono tutte affari. Si rivolge a Zelensky come al proprietario di un’azienda sull’orlo del fallimento che, per sua fortuna, sta per essere acquisita dagli Stati Uniti. Più che dialogare con il presidente ucraino, mostra ai giornalisti il plastico dell’Ucraina. Gli batte una mano sul ginocchio, senza guardarlo in faccia, illustra soddisfatto come le imprese americane scaveranno qui e là per far scorta di terre rare. L’idea di pace di Trump sono le miniere di scandio e lutezio in Ucraina e gli hotel di lusso a Gaza beach e chissà se lo abbia mai sfiorato il pensiero che non per tutti la massima aspirazione è quella di vivere a in un grattacielo col portiere in livrea o se è davvero convinto delle boiate sul “Trickle down”, teoria sciamanica sulle ricadute benefiche per l’intera società quando i miliardari fanno affari. Zelensky parla alla (e come la) destra nazionalista ucraina della quale è creatura e ostaggio. Il presidente ucraino arriva alla politica dopo aver fondato il partito “Servitore del popolo”, come nella serie che lo vedeva protagonista sulla tv dell’oligarca israelo-ucraino Kolomoisky, finanziatore di Azov e delle altre milizie armate neo-naziste ucraine che combattevano contro altri ucraini nel Dombass. Ben prima dell’invasione russa, questo legame lo ha portato a firmare le leggi contro la lingua russa – lingua madre della maggioranza degli ucraini – riabilitare il criminale nazista Bandera facendone un eroe nazionale, perseguitare i comunisti anche quando anti-Putin, disconoscere l’autonomia del Donbass e della Crimea negando la validità dei referendum e infine vietare per decreto i negoziati con Putin.
Zelensky incassa la commiserazione di Trump («Siete stati molti coraggiosi») e asserisce ogni volta che gli riesce di parlare che gli ucraini resistono fieramente all’invasore per proteggere l’integrità territoriale della nazione imbracciando le armi senza defezioni. A fargli perdere le staffe è infatti il vicepresidente Vance quando – dopo che Zelensky osa dubitare delle capacità diplomatiche di Trump e dunque della potenza degli Stati Uniti – lo incalza sui coscritti e allude “alle cose che vede”, ossia ai ai video che come tutti trova online a bizzeffe dei ragazzi ucraini trascinati via in lacrime dai reclutatori. «Non avete forse problemi a reclutare i vostri soldati?! È vero o no? Ho ragione io, lei sa di avere torto!».
Il sottotesto non è “lei sa che sta perdendo la guerra” ma “Lei sa che gran parte del suo paese questa sua guerra non vuole combatterla: cosa ve le mandiamo a fare le armi?!”.
È a quel punto che Trump si spazientisce: lui pensava di dover parlare di affari, non di imprese militari! Di terre rare non di Crimea! Di Trivelle, non di carri armati! Pensava che l’affare fosse concluso! Non aveva mai parlato di armistizio ma di accordo economico: non aveva in mente Yalta ma Wall Street e non si aspettava che il tipo che considera un povero sfigato strozzato dai debiti si gloriasse di combattere fino alla vittoria pretendendo altre armi. Quello che pensa Trump quando zittisce Zelensky e gli fa notare che “non ha le carte”, cioè la grana, è: «Integrità territoriale?! Difesa della lingua ucraina?! Cazzo ti frega: ti sto dicendo che ti faccio arrivare le briciole degli affari che le aziende americane faranno con le terre rare che tieni sepolte sotto le tue stupide trincee! Idiota, guarda che quelle briciole per voi pezzenti mangiatori di zuppe di rape cucinate da donne col fazzoletto a fiori in testa sono più soldi di quanti ne avete mai visti in vita vostra!».
La cosa sconsolante è che né nell’affarismo sbruffone e arrogante di Trump o nel suo mitomane intento di passare alla storia come “Pacekeeper” quando arma la pulizia etnica in Palestina; né nel rozzo orgoglio Hillbilly di J.D. Vance; né nel fanatico e delirante nazionalismo armato fino alla vittoria di Zelensky c’è considerazione e traccia del diritto alla pace, all’autodeterminazione, alla gestione delle proprie risorse naturali del popolo ucraino che sogna un destino diverso dalla morte in trincea. O pensiamo che le aspirazioni degli ucraini siano rappresentate da Zelensky, quando risponde irritato a Vance che il cessate fuoco non è quello che vuole il suo popolo? («Cessate il fuoco?! Chiedete alla mia gente se vuole il cessate il fuoco!»). Non confonde forse “la sua gente” con il battaglione Azov e i suoi sostenitori, e cioè una piccola parte del popolo ucraino, in gran parte residente all’estero? Non dimentico le parole di un ragazzo che tentava di lasciare il paese con la fidanzata incinta, catturato al confine con la Polonia e spedito al fronte: «Mi accusate di essere un vigliacco, di non non voler difendere la patria, ma la mia patria è Irina. Non sto scappando, sto combattendo per loro. Non voglio avere sulla coscienza una vedova e un’orfana».
Francesca Fornario