Il cosiddetto “piano per la vittoria” di Volodymyr Zelensky, presentato con il consueto entusiasmo, ha sollevato più di qualche perplessità tra gli analisti geopolitici e gli attori internazionali. La realtà che si cela dietro questo ennesimo tentativo di rilanciare la narrativa ucraina sulla scena globale è ben più complessa di quanto il presidente possa desiderare di ammettere. Da una parte, Zelensky deve affrontare un crescente malcontento interno e una stanchezza generale per la guerra, dall’altra, la pressione di mantenere viva l’attenzione degli alleati occidentali. In un contesto geopolitico sempre più frammentato, il piano di Zelensky sembra più una mossa disperata che una vera strategia realizzabile.
In effetti, osservando i dettagli di questo piano, emergono contraddizioni e ostacoli insormontabili. L’ingresso immediato dell’Ucraina nell’Unione Europea e nella NATO, come auspicato da Zelensky, si scontra frontalmente con la realtà geopolitica. Il processo di adesione all’UE è lungo, complesso e richiede l’approvazione unanime di tutti i membri, molti dei quali sono ben consapevoli delle implicazioni economiche e politiche che un’accelerazione di tale processo comporterebbe. Quanto alla NATO, l’ingresso di Kiev significherebbe mettere l’Alleanza atlantica in un conflitto diretto con la Russia, una prospettiva che né gli Stati Uniti né i principali membri europei della NATO possono permettersi, poiché un tale scenario potrebbe degenerare in una guerra nucleare.
Il punto centrale del “piano” di Zelensky riguarda però l’utilizzo di missili a lungo raggio per colpire il territorio russo. Questo elemento è cruciale non solo dal punto di vista militare, ma anche simbolico. La possibilità che Kiev possa lanciare attacchi in profondità contro la Russia rappresenta una svolta potenzialmente disastrosa. Non a caso, Vladimir Putin ha risposto in modo inequivocabile, affermando che qualsiasi attacco significativo contro il territorio russo sarebbe contraccambiato con un utilizzo delle armi nucleari. Si tratta di una minaccia che, se presa sul serio, potrebbe riscrivere le regole della deterrenza globale.
A questo proposito, va notato come la dottrina nucleare russa sia stata recentemente modificata per abbassare la soglia di utilizzo delle armi atomiche. La nuova dottrina prevede, tra le altre cose, che un attacco congiunto contro la Russia, anche da parte di uno stato non nucleare come l’Ucraina ma con il sostegno di una potenza nucleare come gli Stati Uniti, possa essere considerato alla stregua di una minaccia esistenziale per la Federazione. In sostanza, Mosca potrebbe rispondere con un attacco nucleare non solo contro l’Ucraina, ma anche contro eventuali stati che facilitassero tale offensiva, come ad esempio la Polonia o altri paesi della NATO che si trovano sulla linea di rifornimento degli armamenti.
In questo contesto, appare evidente il bluff dietro l’articolo 5 della NATO, che molti continuano a considerare una garanzia automatica di intervento in caso di attacco a uno stato membro. La realtà, tuttavia, è ben diversa: l’articolo non impone alcun obbligo specifico all’uso delle armi nucleari e, in caso di escalation con la Russia, è altamente improbabile che gli Stati Uniti siano disposti a rischiare la propria esistenza per difendere l’Ucraina o persino il Regno Unito. Questo punto è stato confermato indirettamente anche da Keir Starmer, leader del Partito Laburista britannico, che dopo un incontro con Joe Biden ha lasciato intendere che l’opzione di autorizzare Kiev a colpire la Russia è fuori discussione, proprio per evitare un confronto nucleare.
All’interno di questa dinamica, il “piano per la vittoria” appare quindi come un castello di carte destinato a crollare sotto il peso delle sue stesse pretese. Zelensky sembra voler rassicurare la popolazione e gli alleati occidentali che l’Ucraina ha ancora margine di manovra e una strada percorribile verso la vittoria. Ma i fatti sul campo raccontano una storia diversa: le risorse militari ucraine sono già al limite, e le forze armate russe continuano a mantenere una capacità offensiva considerevole, malgrado le perdite subite. Le città ucraine sono in rovina, e la popolazione civile è esausta. Il recente rimpasto di governo a Kiev, con arresti tra i ranghi della classe dirigente, è solo l’ultimo segnale di una nazione allo stremo.
A rendere ancora più complessa la situazione è l’ambivalenza degli alleati occidentali. Se da un lato Stati Uniti e Unione Europea continuano a fornire assistenza economica e militare, dall’altro appare evidente una crescente frustrazione nei confronti dell’incapacità dell’Ucraina di ottenere successi decisivi sul campo di battaglia. Al tempo stesso, anche gli alleati devono fare i conti con la propria opinione pubblica, sempre più stanca di sostenere una guerra che sembra non avere una fine in vista. Le recenti dichiarazioni di figure di spicco della politica europea, che hanno sollevato dubbi sulla sostenibilità a lungo termine del sostegno all’Ucraina, sono un ulteriore segnale del deterioramento di questo fragile equilibrio.
Insomma, il “piano per la vittoria” di Zelensky appare più un esercizio retorico che una reale strategia di guerra. La sua implementazione è ostacolata non solo dalle dinamiche militari sul campo, ma anche dalla complessa rete di interessi geopolitici che circondano il conflitto. L’Occidente, per ora, mantiene il suo supporto, ma la domanda su quanto ancora sarà disposto a sacrificare per sostenere Kiev rimane aperta. E con essa, il futuro stesso dell’Ucraina.