La stanza di Montanelli
A quel che sembra dalle notizie che pubblicano i giornali, i nostri dirigenti non riescono a mettersi d’accordo sul divieto del fumo nei locali di pubblico ritrovo, e specialmente — si capisce — nei teatri e cinematografi.
A scanso di equivoci, dichiaro subito che io sono fumatore, e quindi quanto sto per dire non deriva da una personale allergia alle sigarette. Aggiungo anche che non so valutare i danni ch’esse provocano e i pericoli cui espongono il nostro organismo. Che le sigarette facciano male, non c’è dubbio; e tutti ne abbiamo coscienza, anche coloro che lo negano per giustificare di fronte a se stessi l’incapacità di rinunziarvi. Qualcuno mi dirà: «Ma allora lei perché fuma?». Fumo perché anch’io sono uno di quelli che non hanno la forza di rinunziare. Però mi modero molto, e soprattutto non cerco d’imbrogliarmi. Ad ogni sigaretta che accendo so benissimo che mi ficco in corpo del veleno, e forse è anche per questo che riesco ad accenderne relativamente poche. Altra cosa che non so valutare è quanto perniciosa sia l’aria viziata non solo dalle sigarette nostre, ma anche *da quelle altrui. A quanto dicono i tecnici, l’aria che si respira nei cinematografi sarebbe un condensato di nicotina e di catrami ancora più nefasto di quello che si assorbe fumando. E qualcosa di vero ci dev’essere perché anch’io che, ripeto, non soffro di allergie, esco dal cinematografo — le rare volte che ci vado — con la gola secca, la lingua impastata e uno sgradevole senso d’intossicazione.
Ma, secondo me, non è sul piano igienico che il problema va posto e dibattuto. Ammettiamo pure che nella crociata lanciata da molti medici e sanitari contro il fumo ci siano anche delle esagerazioni, come del resto sempre avviene quando si lanciano delle crociate. Ammettiamo pure che per raggiungere lo scopo si strumentalizzi un po’ troppo la grande paura del cancro da cui siamo tutti dal più al meno ossessionati. Indiscutibile resta comunque il fatto che molta gente, o per non averne mai condiviso il vizio, o per essersene liberata, non sopporta il fumo e ha il diritto, quando va in un pubblico locale, di non esserne disturbata. Ciò è tanto vero e così universalmente e pacificamente ammesso, che in tutti i paesi civili, almeno del nostro Occidente, il fumo nei cinematografi e teatri è rigorosamente proibito. Solo l’Italia, a ch’io sappia, fa eccezione, e seguita imperterrita a riconoscere il diritto del fumatore ad avvelenare il non-fumatore. Perché?
A quanto mi dicono, sono gli stessi gestori dei pubblici locali che premono e intrigano perché sia mantenuta questa prassi. Essi ritengono che i fumatori, molto più numerosi dei non-fumatori, in caso di divieto diserterebbero gli spettacoli mettendone in crisi tutta l’industria. Può anche darsi che sia vero sebbene l’esempio degli altri paesi, dove l’industria dello spettacolo seguita a fiorire malgrado il divieto, provi il contrario. Ma comunque l’argomento non mi sembra per nulla conclusivo. Fumare nei locali pubblici, molto prima e molto più che un fatto antigienico, è un fatto di cattiva educazione. E la cattiva educazione è una deroga a quelle norme di civile convivenza che contano infinitamente più di qualsiasi’interesse di categoria. Personalmente io sono convinto che nemmeno la categoria risentirebbe del divieto del fumo, perché la diserzione dei fumatori sarebbe soltanto temporanea e probabilmente compensata dall’afflusso dei non-fumatori. Ma consentiamo pure che qualche perdita di clientela ci fosse. E con ciò? Forse che gl’incassi delle sale di spettacolo sono più importanti del principio che impegna ogni cittadino al rispetto degli altri cittadini?
Purtroppo dev’esser proprio così, vista l’ostinazione con cui si è insistito in questa pratica e la difficoltà e i ritardi che si frappongono a ogni tentativo di riformarla. Resta solo da capire se ciò avviene perché gl’interessi di categoria sono troppo forti, o troppo debole il principio del rispetto altrui. Ma in fondo non si tratta di due tesi in concorrenza. Anzi, l’una integra l’altra. In Italia gl’interessi di categoria, cioè gl’interessi particolari, sono forti appunto perché è debole quello generale basato sul rispetto dei diritti di tutti. Ed è proprio da questo che hanno origine le mafie. Ne parlo al plurale perché non è affatto vero che esista solo quella siciliana. lo ne conosco infinite altre su scala nazionale, che non si servono della lupara preferendo altre armi meno compromettenti e più insidiose. Ma il loro obbiettivo è sempre il medesimo: la difesa dell’interesse particolare contro quello generale, cioè la sopraffazione.
Ecco come si spiega, per esempio, la giungla previdenziale. Che il povero contribuente sia spremuto all’osso per non ricevere neanche il minimo dell’assistenza a cui avrebbe diritto, non importa. Non importa che l’interesse generale ne risulti danneggiato. Ciò che conta è mantenere le greppie degl’infiniti enti che ci affliggono, nell’interesse di coloro che vi s’impinguano. Nella nostra lingua c’è perfino una categoria giuridica apposta: quella dei cosiddetti «diritti acquisiti», che dalla stessa legge sono dichiarati intoccabili anche quando rappresentano dei privilegi che nulla più giustifica.
E’ molto probabile che anche i locali di pubblico ritrovo considerino acquisito il loro diritto a consentire il fumo ai loro clienti per non perderli. E fin qui, nulla di straordinario. Ma lo straordinario è che i nostri dirigenti accettino questa tesi, o comunque non trovino la forza di affrontarla, e si limitino a perder tempo nel tentativo di guadagnarne. A quali ricatti soggiacciono, o di quali raggiri son vittime? Ma soprattutto: come conciliano tanta debolezza ed evasività di fronte a un semplice provvedimento di pubblica sicurezza, già adottato in tutto il mondo civile, con le loro ambiziose pretese di riforme «di fondo» e «di struttura»? Uno stato che non riesce a proibire il fumo nei cinematografi come farà a sconvolgere e ricostruire tutta la impalcatura del paese, come si propone di fare questo nostro governo a cui anch’io ho dato il voto?
Ho conosciuto un architetto che, quando gli davano da progettare un ponte, si fermava alle arcate trascurando i piloni; ma finì in manicomio. I nostri politici fanno altrettante nel compilare i loro programmi; ma finiscono ministri.
Domenica del Corriere, 26 Marzo 1967