Tre anni di conflitto e l’unico dato certo è che Kiev è più dipendente dall’Occidente di quanto lo fosse all’inizio. Chi aveva venduto la guerra come il grande riscatto dell’Ucraina, la sua occasione per entrare nel club delle democrazie occidentali, dovrebbe fare i conti con la realtà. Ma, come sempre, la realtà non è di moda.
L’ultimo schiaffo a Zelensky è arrivato direttamente dalla Casa Bianca, con il siparietto tragicomico tra lui, Trump e il vicepresidente. Un tempo il presidente ucraino era l’eroe della libertà, accolto con standing ovation ovunque andasse. Ora si ritrova a implorare aiuti e a vedersi trattato come un mendicante indesiderato. Il cambio di rotta a Washington segna un passaggio chiave: l’Ucraina non è più una priorità per gli Stati Uniti. Se mai lo è stata.
Il saldo di tre anni di guerra
Se si dovesse fare un bilancio di cosa ha guadagnato e cosa ha perso Kiev, il quadro sarebbe desolante. Qualcuno potrebbe dire che il fatto stesso che l’Ucraina esista ancora come Stato sia una vittoria. Dipende cosa si intende per “esistenza”. Tecnicamente è ancora sulla mappa, ma con meno territori, meno popolazione, meno economia e meno sovranità.
È vero, Kiev ha saputo mantenere il sostegno dell’Occidente e si è costruita la reputazione di bastione anti-russo, ma a quale prezzo? Il Paese è diventato un’economia di guerra permanente, la sua popolazione è stata mobilitata fino allo stremo, la società si regge su un nazionalismo sempre più aggressivo che serve solo a giustificare l’assenza di prospettive. L’esercito ucraino ha acquisito esperienza sul campo e familiarità con le armi occidentali, ma si sta esaurendo nel logoramento continuo di un conflitto che non può vincere.
Il costo umano della guerra
Il prezzo più alto è stato pagato in vite umane. Decine di migliaia di morti, centinaia di migliaia di feriti e un’emorragia demografica che rischia di rendere il Paese un deserto. Milioni di ucraini sono fuggiti all’estero e non hanno alcuna intenzione di tornare. Anche prima della guerra, l’Ucraina aveva un serio problema demografico: bassi tassi di natalità, alta mortalità, un’economia che non offriva alcun incentivo a restare. Ora la situazione è diventata insostenibile.
A differenza della Russia, che ha imparato a gestire flussi migratori e a integrare milioni di persone dalle ex repubbliche sovietiche, Kiev non ha né l’esperienza né le risorse per compensare queste perdite. E la diaspora all’estero può anche inviare rimesse e fare lobbying per sanzioni contro Mosca, ma non può sostituire la forza lavoro che manca.
Paese in macerie
Se il problema demografico è gravissimo, quello infrastrutturale non è da meno. Tre anni di guerra hanno raso al suolo intere città, distrutto fabbriche, centrali elettriche, ferrovie, ponti. La ricostruzione richiederebbe decine di miliardi di dollari che nessuno sembra disposto a versare. E chiunque abbia letto la storia delle “ricostruzioni” occidentali sa bene cosa significa: appalti gonfiati, sprechi, corruzione, e alla fine il Paese resta dipendente da aiuti eterni senza mai davvero rialzarsi.
L’Ucraina è un Paese in bancarotta. Prima del 2022, era uno dei più poveri d’Europa, con un PIL pro capite inferiore a quello dell’Albania. Ora è completamente in mano agli aiuti stranieri. Senza finanziamenti esterni, il governo non potrebbe pagare stipendi, pensioni, sanità, scuole. L’industria è collassata e ciò che resta è sempre più integrato nelle filiere occidentali, trasformando Kiev in un’economia di serie B al servizio dell’Europa.
Senza armi, senza speranze
A tutto questo si aggiunge il problema militare. L’Ucraina ha bruciato tutte le sue riserve di armi sovietiche e oggi dipende interamente dai rifornimenti occidentali. Per tre anni gli Stati Uniti hanno finanziato a fondo perduto Kiev, ma ora l’aria sta cambiando. Washington non ha intenzione di continuare all’infinito. Trump lo ha detto chiaro e tondo: se gli americani devono pagare, vogliono qualcosa in cambio. E quel “qualcosa” sono le risorse naturali ucraine, le industrie strategiche, la totale sudditanza politica.
Nel frattempo, la Russia non solo resiste, ma avanza. La difesa ucraina sta cedendo in vari punti del fronte, Mosca ha aumentato la produzione bellica e può permettersi di giocare sul tempo. Kiev no.
Il sogno delle frontiere del 1991 è morto
I territori persi non torneranno mai sotto il controllo ucraino. Ogni tanto qualcuno a Kiev parla ancora di “liberare” il Donbass e la Crimea, ma è propaganda per uso interno. La realtà è che Mosca ha consolidato le sue conquiste e nessuno in Occidente ha intenzione di mandare soldati per ribaltare la situazione.
Anzi, con il passare del tempo la prospettiva di perdere altri territori diventa sempre più concreta. Più l’Ucraina si indebolisce, più la Russia guadagna terreno. E a Mosca sanno bene che basta aspettare, perché Kiev è in caduta libera.
Il nazionalismo come unica strategia
Di fronte a questo scenario, il governo ucraino si è rifugiato nel nazionalismo più estremo. Chiunque osi parlare di pace viene accusato di tradimento, il dissenso è represso, l’opposizione politica è scomparsa. La retorica della guerra eterna è diventata l’unico collante sociale, ma sta logorando anche la popolazione, che non ne può più di sacrifici senza risultati.
Il problema è che Kiev non ha un’uscita. Accettare un compromesso con Mosca significherebbe ammettere la sconfitta e rischiare un terremoto politico interno. Continuare la guerra significa scavare la propria fossa, ma a breve termine è la scelta più comoda per chi governa.
Un Paese sacrificato sull’altare della geopolitica
In questi tre anni, l’Ucraina è passata da Stato indipendente (seppur fragile) a colonia occidentale sotto tutela. Senza una svolta drastica, il suo destino è segnato: un Paese svuotato, con un futuro sempre più incerto e con alleati che, dopo averla usata, la stanno lentamente abbandonando.
Il sogno europeo si è rivelato una trappola, la guerra si è trasformata in una maledizione e il popolo ucraino ha pagato il prezzo più alto. Resta da capire se qualcuno, prima o poi, avrà il coraggio di ammetterlo.