Trump, il protezionista del piffero

Trump impone dazi insensati, destabilizza l’economia globale e rivela il fallimento di un sistema politico che lascia troppo potere a un solo uomo.

di Alberto Piroddi

Avete presente quando, in una commedia dell’assurdo, il protagonista si sveglia e decide che da quel giorno la fisica non esiste più, che la gravità è una fake news e che l’economia è come Monopoly? Bene, sostituite “commedia” con “Casa Bianca” e “protagonista” con Donald Trump, e avrete una fedele istantanea del protezionismo demenziale che ha preso in ostaggio non solo l’economia americana, ma anche i mercati globali.

Trump, in un colpo solo, è riuscito a mandare in frantumi decenni di diplomazia commerciale, a far tremare le borse mondiali e a rispolverare i fantasmi della Grande Depressione – quella vera, del 1929, non quella psichica a cui ci ha abituati a colpi di tweet. E tutto questo perché? Perché nella sua visione infantile del mondo, se la Cina esporta più degli Stati Uniti, allora sta “barando”. E se gli americani comprano più di quanto vendono, è colpa del mondo cattivo, non della voragine di debito pubblico o della bulimia consumistica a stelle e strisce.

Lo dice, con tono pacato ma chirurgico, il professor Jeffrey Sachs – uno che non ha la vocazione del comico, ma che riesce comunque a far ridere per quanto è disarmante la sua lucidità. Quella che ci restituisce è un’immagine da film horror: un solo uomo, armato di “emergency powers”, decide unilateralmente di ribaltare la politica commerciale di una delle principali economie mondiali, senza passare dal via, senza sentire il Congresso, senza neanche consultare gli imprenditori. Che infatti iniziano a scendere dal carro come topi dal Titanic.

Il capolavoro di questo protezionismo da baraccone non è tanto nella sua inefficacia – quella era prevedibile – ma nella sua pericolosità sistemica. Perché se Trump pensa di poter usare i dazi come mazze da baseball in una trattativa da saloon, il resto del mondo potrebbe non essere così paziente. Sachs lo dice chiaramente: se l’Europa dovesse reagire, se la Cina dovesse spostare i propri mercati verso l’Asia o l’India, ci ritroveremmo in un déjà-vu terrificante. Un effetto domino simile a quello degli anni Trenta, quando il famoso Smoot-Hawley Tariff Act diede il via a una spirale protezionista che contribuì a trascinare il mondo nel baratro della depressione globale. E, poco dopo, nella Seconda guerra mondiale.

Nel 2025 il copione potrebbe replicarsi, con meno baffi alla Hitler e più account su Truth Social, ma il meccanismo resta quello: il nazionalismo economico esasperato non è una cura, è un accelerante del caos. E se oggi Trump sventola i dazi come se fossero bandiere della libertà economica americana, domani l’Europa e l’Asia potrebbero rispondere con una moneta diversa. Letteralmente.

Già, perché c’è un’altra partita che si gioca sotto traccia, ma che rischia di diventare esplosiva: quella della valuta globale. L’egemonia del dollaro, che finora ha permesso agli Stati Uniti di vivere al di sopra dei propri mezzi, comincia a scricchiolare. Sachs parla di un “mondo multicurrency” all’orizzonte, dove lo yuan cinese, le valute digitali e le alternative al sistema SWIFT (quello usato per i pagamenti internazionali) si faranno largo, complici le manie di grandezza di Washington.

Il dollaro, un tempo rifugio sicuro nei momenti di incertezza, comincia a perdere appeal. Non solo per i fondamentali economici traballanti, ma perché è diventato uno strumento di guerra geopolitica. Gli Stati Uniti, che un tempo offrivano stabilità in cambio di egemonia, ora usano la propria valuta per sequestrare fondi sovrani, punire nazioni nemiche e ricattare economicamente chi osa commerciare con Russia, Iran o Venezuela. Un “soft power” che di soft ha sempre meno e che sta spingendo i paesi emergenti, a cominciare dai BRICS, a costruirsi alternative autonome e sganciate da Washington.

Nel frattempo, l’amministrazione Trump continua a barcollare tra minacce militari a Teheran, sanzioni a Mosca e intimidazioni a chiunque osi pensare che il mondo non finisca a Manhattan. Eppure, dice Sachs, la Cina non sta al gioco del bullo. Anzi: si muove con la pazienza del Go orientale, senza proclami, ma costruendo alternative sistemiche. Dalla digitalizzazione dello yuan all’espansione delle relazioni commerciali con Corea, Giappone e India, fino alla diplomazia silenziosa ma tenace con l’Europa.

Il problema è che, mentre la Cina tesse reti, l’America si arrampica sui muri. Muri economici, muri politici, muri mentali. Con Trump (e non solo con lui: anche Biden non scherza), si è installata a Washington l’illusione di poter comandare il mondo come se fossimo ancora negli anni Novanta. Come se Internet, la Cina, l’India e il cambiamento climatico non fossero mai esistiti.

Il risultato? Un’America sempre più isolata, con un presidente convinto di poter riscrivere le regole del commercio mondiale a colpi di proclami, come se fosse il direttore di un casinò del Nevada. Una politica estera ridotta a reality show. E un’economia che, nel giro di 48 ore, brucia cinque trilioni di capitalizzazione di mercato. Altro che America First. Questo è un “America Last”, in salsa autolesionista.

Eppure, il vero dramma non è Trump. Il vero dramma è un sistema politico che gli consente di farlo. Sachs lo dice senza troppi giri di parole: il Congresso americano è ormai una succursale di Wall Street, più interessato ai finanziamenti elettorali che alla Costituzione. Le “emergency powers” sono diventate una scappatoia per bypassare ogni forma di controllo. E la democrazia, quella vera, quella del checks and balances, è finita sotto un bulldozer arancione.

Morale della favola? Trump non è il sintomo. È la malattia. Un malessere sistemico che affonda le radici nel degrado della politica americana, nella complicità dei grandi media, nell’ignoranza deliberata che trasforma la complessità economica in slogan da bar dello sport. Se non lo capiamo adesso, tra dieci anni ci ritroveremo a chiederci, con aria attonita, com’è stato possibile che un solo uomo abbia fatto a pezzi il sistema globale. La risposta è semplice: gliel’hanno lasciato fare.

E allora, mentre il mondo si prepara a un futuro senza dollaro, senza egemoni e senza più alibi, forse anche noi europei dovremmo svegliarci. Perché, se continuiamo a inseguire l’America dei dazi, delle guerre infinite e dei default mascherati, il prossimo Titanic saremo noi. E nessuno, questa volta, suonerà il violino.

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