di Barbara Spinelli
Ristabilire un ordine internazionale regolato, che eviti l’esplodere bellico dei nazionalismi, il ripetersi dei genocidi, il respingimento dei rifugiati, l’impunità della tortura: questo l’impegno che gli Stati europei e gli Stati Uniti presero dopo la Seconda guerra mondiale e il genocidio degli ebrei.
Nacque un reticolato di leggi internazionali (tra cui la Convenzione sul genocidio, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Corte internazionale di giustizia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Gli organismi erano emanazioni dell’Onu, cui era affidato il compito di scongiurare l’impotenza mostrata dalla Società delle Nazioni dopo il 1914-18, con l’avvento del nazifascismo.
Nacque subito dopo anche l’Unione Europea, per riconciliare i due nemici secolari che erano Francia e Germania. L’idea di una federazione europea si rafforzò durante l’ultimo conflitto, nei primi anni Quaranta, quando ancora Hitler occupava mezzo continente. Fraternizzare con la Germania liberata e frenare le guerre divenne obiettivo primario della Comunità europea.
Ora questo reticolato di leggi è a pezzi: Israele può sterminare e affamare decine di migliaia di palestinesi; Meloni può restituire alla Libia un famigerato torturatore di migranti, Najeem Almasri. Rischioso arrestarlo come chiede la Corte Penale Internazionale, visto che Italia e Ue pagano la Libia perché i torturatori blocchino le partenze dei richiedenti asilo.
Da quando si è allargata ai Paesi dell’Est l’Unione Europea ha cessato di essere unione, e questo ben prima che il presidente Trump minacciasse le sue economie, incoraggiasse ogni sorta di nuovo nazionalismo etnico, denunciasse l’eccesso di regole Ue soprattutto in tema ambientale e sociale, e la mettesse davanti alla drammatica scelta: o vassallaggio completo o dazi; o spese militari europee che salgano al 5% del Pil o uscita degli Usa dalla Nato; e chissà quale altro flagello. Dopo quattro anni, il nazionalismo neoliberista che generò la Brexit s’estende e s’impone, sotto guida statunitense.
Trump e Musk si scagliano contro l’Europa unita per sfaldarla e favorire le sue destre estreme (neonazisti compresi), ma la loro offensiva rompe quel che era già rotto. Trump è uno dei sintomi della sua disgregazione, come è stata un sintomo di frantumazione l’ottusità mentale europea sulla guerra russo-ucraina.
L’ingresso dei paesi dell’Est nell’Unione Europea ha reintrodotto nella costruzione comunitaria i tre veleni contro i quali una serie di Stati del continente si erano accomunati negli anni Cinquanta: l’intenso nazionalismo etnico; il disprezzo delle leggi internazionali; l’ostilità famelica, insaziabile, verso una Russia percepita accanitamente, a Est, come erede del dominio sovietico. L’edificio si è dislocato con l’adesione dei nazionalismi orientali anche perché l’Unione è un ibrido: in piccola parte è federale (Banca Centrale in primis), in gran parte è confederazione di Stati fintamente sovrani ma con diritto di veto, specie in politica estera e di difesa.
Questo spiega come mai, contrariamente a Trump che sembra volere una tregua in Ucraina, l’Europa insiste nel fornire armi a Kiev e nell’infliggere sanzioni a Mosca. Il congelamento alla coreana della guerra sarebbe la soluzione preferita di Washington ma Putin la respinge per motivi comprensibili (equivarrebbe a tener non congelato ma caldo il conflitto, nato per frenare ulteriori allargamenti della Nato a Est: le due Coree non hanno ancora stipulato un trattato di pace, a 71 anni dalla fine della guerra). Ma nemmeno il congelamento sembra accontentare gli Europei orientali, se si escludono i governi d’Ungheria e Slovacchia. Quel che cercano è un regolamento dei conti con la Russia, una sconfitta che sia per Mosca triste, solitaria e finale (da Osvaldo Soriano).
Tutte le istituzioni europee sono oggi egemonizzate dai Nordici appena entrati nella Nato e dagli Orientali (finlandesi, svedesi, polacchi e i tre Baltici). Lo confermano i fatti e i comportamenti. Subito dopo la fine dell’Urss, l’Unione negoziò l’allargamento fingendo d’ignorare la massima ingiustizia commessa negli Stati baltici: quella che colpì le forti minoranze russe (tra il 20 e il 30% delle popolazioni in Estonia e Lettonia, quasi il 10% in Lituania), che erano discriminate e penalizzate, dal punto di vista linguistico, culturale e politico, esattamente come accadde in Ucraina dopo l’indipendenza. Le condizioni presentate da Bruxelles non menzionavano specificamente le minoranze russe. Il culmine è stato raggiunto dall’Unione il 24 dicembre scorso: il nuovo Alto Commissario per la politica estera e la sicurezza è l’estone Kaja Kallas, nota in patria e fuori come esponente di una assodata linea russofobica. Non era meno bellicoso il predecessore Josep Borrell, ma Kallas è un’autentica provocazione lanciata da Bruxelles.
Detto questo, la differenza fra Trump e europei è in larga parte fittizia. In primo luogo, non risponde del tutto al vero che l’Ue voglia proseguire la guerra per procura in Ucraina mentre Trump sarebbe pronto ad ammettere la neutralità di Kiev e l’epocale sconfitta della Nato. Chiedere poi che gli europei della Nato alzino le spese militari fino al 5% del prodotto nazionale lordo vuol dire riarmare il vecchio continente e trasformare la Nato in un formidabile dispositivo di guerra: si giustifica solo se la Russia continua a rappresentare un nemico esistenziale degli Stati occidentali.
Andrebbe sfatato, dunque, il luogo comune che dipinge Trump come clandestinamente pacifico e l’Europa come guerrafondaia. Sono guerrafondai tutti e due, fino a prova del contrario. L’America del Nord non abbandona per ora l’aspirazione al predominio unilaterale del mondo, che ha caratterizzato le sue politiche da quando si è compiaciuta nel ruolo di vincitrice della Guerra fredda.
Passiamo infine alla minaccia di Trump di lasciare la Nato, che tanto impaurisce i governi europei di destra e sinistra, le istituzioni Ue, e soprattutto il fantasma residuale della Guerra fredda che è il Parlamento europeo. In realtà sarebbe una manna per i cittadini europei, se l’Alleanza atlantica finalmente si sciogliesse. Non ha più senso e ha costi proibitivi, dopo lo scioglimento nel 1991 del Patto di Varsavia che legava militarmente l’Europa orientale a Mosca. Lo stesso Stoltenberg ha ammesso, nel settembre 2023, che l’invasione russa non era immotivata: a provocarla non era stato l’espansionismo russo ma la promessa occidentale di accogliere Ucraina e Georgia nella Nato.
L’abbandono Usa della Nato sarebbe un evento frastornante ma lascerebbe libera l’Europa di determinare il proprio destino. Potrebbe scegliere la bellicosità della Kallas. Ma potrebbe anche sperimentare un comune sistema di sicurezza con la Russia, resuscitando la “Casa Comune Europea” proposta da Gorbacëv nel luglio 1989. A questo punto l’Europa diverrebbe sì una potenza: ma pacifica, capace di finanziare il proprio Stato sociale. È quello che le amministrazioni Usa, Trump compreso, temono di più.
Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2025