di Alberto Piroddi
L’imposizione unilaterale di tariffe da parte degli Stati Uniti, giustificata da una presunta “emergenza economica” secondo l’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) del 1977, rappresenta non soltanto un grave errore di politica economica, ma una minaccia sistemica all’architettura del commercio internazionale. Il fatto che l’amministrazione Trump abbia giustificato la misura evocando un’emergenza “straordinaria” iniziata – udite udite – nel 1934, mostra la portata farsesca del meccanismo decisionale in gioco. Di emergenziale, in senso tecnico, non vi è nulla. Di straordinario, sì: lo è il grado di ignoranza economica, il disprezzo per le istituzioni e la volontà di imporsi attraverso una gestione autoritaria del potere esecutivo.
Va chiarito fin dall’inizio un punto fondamentale: una tariffa è una tassa. E una tassa, secondo la Costituzione americana, è materia del Congresso, non dell’esecutivo. Le tariffe possono influenzare direttamente i prezzi al consumo, l’accesso a beni intermedi nelle catene di produzione e, dunque, la competitività globale delle imprese americane. Quando l’organo legislativo abdica a questa responsabilità costituzionale, lasciando che sia un uomo solo a determinare il corso della politica economica estera del Paese, siamo di fronte a una distorsione profonda del sistema di pesi e contrappesi su cui si regge la democrazia americana.
Ora, entriamo nel merito. Le tariffe volute da Trump sono fondate su un presupposto concettualmente fallace: l’idea che un disavanzo commerciale equivalga a essere “fregati” da altri Paesi. Questo è semplicemente falso. Un disavanzo commerciale indica che un Paese importa più beni di quanti ne esporti. Ma non è, di per sé, una misura di ingiustizia, né una prova di politiche predatorie da parte di altri Paesi. È la risultante di dinamiche macroeconomiche interne: consumi superiori alla produzione, tassi d’interesse attrattivi per il capitale estero, un dollaro forte, o – come nel caso degli Stati Uniti – giganteschi deficit fiscali che immettono nell’economia potere d’acquisto ben al di sopra del valore della produzione interna. In parole povere: si consuma a credito.
È come se un cittadino americano, che ha fatto shopping compulsivo con la carta di credito, entrasse nel negozio a inveire contro il commesso, accusandolo di “averlo fregato”. Le tariffe vengono imposte come una sorta di vendetta economica, senza alcun riguardo per il funzionamento reale dei mercati. Ed è qui che la teoria economica, quella di base, quella che ogni studente dovrebbe apprendere nei primi mesi del corso, svela l’assurdità della manovra.
Il commercio internazionale si fonda sul principio dei vantaggi comparati: ogni Paese si specializza nella produzione di quei beni per cui ha un costo opportunità relativamente inferiore. Entrambi i partner commerciali guadagnano da questo scambio, non perché uno vince e l’altro perde, ma perché entrambi ottengono più valore rispetto a quello che avrebbero prodotto da soli. Questo meccanismo è alla base della crescita globale degli ultimi decenni. Bloccarlo, interromperlo con tariffe arbitrarie e unilaterali, significa tagliare le gambe alla prosperità.
Le conseguenze non sono ipotetiche, sono empiricamente osservabili. Gli effetti delle tariffe del 2018-2019, introdotte sempre dall’amministrazione Trump, sono stati oggetto di studi rigorosi. L’evidenza è schiacciante: nei settori colpiti dalle tariffe si è verificato un calo netto dell’occupazione. Non una crescita, come promesso. Il motivo è semplice: le tariffe aumentano i costi di produzione, poiché molte industrie americane si approvvigionano di componenti dall’estero. E non si tratta solo di elettronica o abbigliamento: anche l’industria automobilistica, simbolo del “made in USA”, è immersa in filiere globali. Ogni veicolo prodotto negli Stati Uniti contiene componenti provenienti da Messico, Canada, Corea, Germania. Le tariffe sui pezzi di ricambio aumentano i costi industriali, riducono la competitività e spingono le imprese a tagliare posti di lavoro o ad aumentare i prezzi al consumo.
I dati della Cox Automotive, ad esempio, mostrano che un veicolo “americano” assemblato in Michigan subirebbe un aumento di prezzo di circa 6.400 dollari a causa delle tariffe imposte su componenti provenienti dal Canada e dal Messico. Una famiglia della classe media che acquista un’auto ne pagherebbe le conseguenze in modo diretto. E se la stessa famiglia acquistasse una lavatrice, un forno o un telefono? I prezzi salirebbero. Le scelte si ridurrebbero. Il tenore di vita diminuirebbe.
Nel frattempo, a livello globale, il colpo al sistema commerciale è devastante. Le borse mondiali hanno reagito negativamente non perché “il mondo sta perdendo”, ma perché tutti – Stati Uniti compresi – stanno perdendo. Il commercio è un gioco a somma positiva, in cui le interdipendenze producono crescita. Interrompere questo flusso genera perdite collettive. Quando Trump impone tariffe, non “punisce” gli stranieri. Colpisce la stessa economia americana, le sue imprese, i suoi lavoratori e i suoi consumatori.
Ma il danno non è solo economico. È anche geopolitico. Le tariffe, soprattutto quelle imposte invocando un’emergenza inesistente, delegittimano gli Stati Uniti agli occhi dei partner internazionali. Le reazioni di Canada, Giappone, Unione Europea e Corea del Sud non si sono fatte attendere. Tutti i governi coinvolti hanno denunciato l’unilateralismo statunitense e hanno promesso ritorsioni. Il rischio non è solo una guerra commerciale. È la frammentazione del sistema multilaterale, il ritorno a blocchi contrapposti, il rafforzarsi di nuove alleanze tra Paesi che decidono di ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti. Vediamo già i segnali: Cina e India si riavvicinano; Giappone e Corea dialogano con Pechino; l’Unione Europea rafforza le relazioni con ASEAN e Mercosur.
E non si tratta di congetture astratte. È la logica stessa del sistema internazionale: se un attore si comporta in modo erratico, distruttivo, inaffidabile, gli altri attori razionali reagiscono cercando di creare alternative. Questo sta accadendo. E il prezzo che gli Stati Uniti pagheranno in termini di influenza globale sarà duraturo. Perché una volta che i flussi commerciali si riorientano, non è facile riportarli indietro. Le imprese cercano stabilità, prevedibilità. Non si può chiedere loro di continuare a investire in un sistema che può essere ribaltato da un tweet notturno o da un proclama arbitrario.
Il paradosso è che tutto questo viene presentato come una politica “pro-America”. In realtà, è una politica contro l’America. Non solo per le sue imprese, non solo per i consumatori, ma per il suo stesso ordinamento democratico. Il ricorso all’IEEPA come scorciatoia per imporre tariffe viola lo spirito, se non la lettera, della Costituzione. La divisione dei poteri, la necessità del consenso legislativo, la deliberazione pubblica sono pilastri fondamentali di una democrazia liberale. Quando un presidente può imporsi da solo, evocando “emergenze” fittizie, siamo di fronte a una deriva autoritaria.
Le contromisure esistono, sulla carta: il Congresso può agire, i tribunali possono essere investiti del problema, le imprese possono fare ricorso. Ma ci vuole volontà politica, ci vuole una cittadinanza vigile, ci vuole un’opinione pubblica consapevole. Se tutto questo manca, il rischio è che simili azioni si moltiplichino, e che l’eccezione diventi la norma.
Infine, non possiamo ignorare l’aspetto etico. La retorica delle tariffe si fonda su un linguaggio di guerra, di vendetta, di punizione. Crea un’immagine del mondo come campo di battaglia, dove gli altri sono nemici da colpire. È un approccio che avvelena il dibattito, semplifica problemi complessi, e fomenta risentimenti. Invece di spiegare al popolo americano le vere cause della perdita di posti di lavoro – automazione, cambiamento tecnologico, transizione energetica – si indicano capri espiatori. Invece di promuovere politiche industriali intelligenti, si ricorre a gesti plateali, dannosi e inefficaci.
Le tariffe, dunque, non sono solo uno strumento inefficiente. Sono il sintomo di un declino intellettuale, istituzionale e morale. E se non si pone rimedio, quel declino non sarà reversibile.