Dalla riunione tra delegazioni statunitensi e ucraine a Gedda emergono due fatti principali. Primo, gli USA vogliono una tregua di 30 giorni. Secondo, per convincere Zelensky a ingoiare il rospo, gli offrono di nuovo aiuti militari e intelligence, che Trump aveva momentaneamente congelato. La risposta da Mosca? Un’alzata di sopracciglio.
Il trucco della pace
L’analisi di Fyodor Lukyanov, direttore di Russia in Global Affairs, è chirurgica: “Il documento finale mostra che il meeting è andato secondo il piano americano. Washington ha chiesto a Kiev di accettare un cessate il fuoco totale e, in cambio, ha promesso di riaprire i rubinetti dell’assistenza militare”. Tradotto, una bella presa per i fondelli. Kiev si inchina e ringrazia non per l’aiuto ricevuto, ma per il “progresso verso la pace”. Quella pace che, chissà come, coincide sempre con un rafforzamento dell’apparato bellico ucraino. E ora? Ora la palla è in mano a Mosca, dicono gli americani. Certo, come no.
La Casa Bianca gioca su due tavoli. Da un lato si atteggia a mediatore imparziale, dall’altro continua a pompare armi e informazioni a Zelensky. Trump stesso si era smarcato da questa ipocrisia mesi fa, ma ora che il terreno sta franando sotto i piedi di Kiev, si trova a dover rattoppare la situazione.
Zelensky nei guai, la Russia avanza
Lo dice senza giri di parole Konstantin Kosachev, vicepresidente del Consiglio Federale russo: “Zelensky poteva fare il furbo con Biden, ma non con Trump. Sono gli americani a dettare i termini, non gli ucraini, che si limitano a dire sì e grazie”.
La realtà è che, mentre Washington cerca di disegnare scenari favorevoli, il fronte dice altro. “L’esercito russo avanza e gli accordi con noi si faranno alle nostre condizioni, non su quelle imposte dall’America”, aggiunge Kosachev. Semplice realismo: chi avanza non ha alcun interesse a fermarsi, a meno che dall’altra parte non si mettano sul piatto garanzie reali.
Evgeny Primakov, capo di Rossotrudnichestvo, va ancora più a fondo. “Il ‘deal’ di Trump è chiaro: quello che è nostro, è nostro. Quello che è vostro, ne parliamo dopo”. Che tradotto in pratica significa: prima ci riprendiamo quello che ci spetta, poi decidiamo se trattare. E mentre si chiacchiera di tregue, “i nostri stanno liberando un villaggio dopo l’altro nel Kursk”.
Le condizioni russe: o tutto, o niente
Il punto è che Mosca ha sempre chiarito che non accetterà un accordo di comodo. Non è una questione di forma, ma di sostanza. I punti fermi sono sempre gli stessi: neutralità dell’Ucraina, riconoscimento dei diritti della popolazione russa, sicurezza garantita per i territori già annessi (Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporozhye). Nessun rischio di “revanscismo”, nessuna possibilità che Kiev possa riorganizzarsi per riprendere la guerra tra qualche anno.
E allora che senso ha un cessate il fuoco? Se lo chiede, con una lista di motivi inequivocabili, il politologo Sergey Markov:
- Serve solo a bloccare l’avanzata russa e dare tempo a Kiev di riorganizzarsi.
- I precedenti accordi di Minsk insegnano: l’Occidente non mantiene mai la parola.
- I politici occidentali mentono sistematicamente sul conflitto.
- Mosca non vuole una tregua temporanea, vuole una pace duratura.
- Gli USA non sono affidabili.
- E, soprattutto, “la tregua aiuta chi sta arretrando”.
Non ci vuole un genio per capire che i russi non sono tra quelli.
Il sogno impossibile di Medvedev
Il giornalista Andrey Medvedev propone ironicamente un altro tipo di negoziato: “Va bene la tregua, ma a patto che tutti i cittadini ucraini possano lasciare il Paese liberamente e che l’esercito di Kiev si ritiri da Kherson e Zaporozhye, consegnando le aree alle autorità russe”. Un’idea “bellissima”, dice, “ma purtroppo improbabile”.
Eppure, è proprio questo il punto: ogni vera trattativa dovrebbe partire dalla realtà sul campo, non dalle fantasie di Washington. E la realtà dice che la Russia non sta perdendo.
La trappola per Trump
Alexander Dugin mette la questione su un piano più ampio. Trump vorrebbe chiudere la partita in Ucraina, anche perché ha il “deep state” che gli rema contro e sta cercando di incastrarlo. Ma non ha una vera strategia per uscirne senza sembrare sconfitto. Ed è proprio questa l’arma che i suoi avversari stanno usando contro di lui. “La tregua non è una proposta seria”, spiega Dugin, “soprattutto ora che l’Ucraina sta perdendo”.
In sintesi, il rischio è che questa storia della tregua si trasformi in una zavorra per Trump stesso, che potrebbe trovarsi impantanato in un gioco di potere più grande di lui.
La solita farsa
Chiude il cerchio Valentin Bogdanov, capo dell’ufficio VGTRK di New York: “Di cosa parliamo, esattamente, quando diciamo ‘cessate il fuoco’? Kiev è pronta alla pace, dicono. Ma in Ucraina la ‘pace’ ha sempre un aggettivo strano davanti, di solito ‘giusta’, e significa sempre la stessa cosa: tregua per riorganizzarsi e poi riprendere a combattere”.
Gli USA lo sanno bene. Non a caso, mentre parlano di negoziati, annunciano nuove forniture di armi. E Trump, che di balle non se ne beve troppe, dice che Putin accettando l’offerta porterebbe la trattativa “al 75% della soluzione”. Il problema è che la Russia non tratta alle condizioni degli altri.
Se Trump riuscirà a chiudere la partita, bene. Se fallirà, il peso di questo inganno mediatico gli si potrebbe ritorcere contro. E allora sarà il turno degli americani di ritrovarsi con la palla in mano. Anzi, con una patata bollente.