Ombre grigie
di Ennio Flaiano
Vado a teatro. A vedere la riduzione di un romanzo di Flaubert, Bouvard et Pécuchet. Questi due personaggi sono gli immortali testimoni della stupidità e Flaubert con essi intendeva dimostrare quella del suo tempo; servendosi delle idee allora correnti, oggi confutatissime o dimenticate; mettendoli alla prova nell’applicazione di quelle idee; ordinando un archivio di sciocchezze; compilando un catalogo di idee chic, cioè alla moda. Compito immenso, che la morte gli impedì di portare a termine. Alla sua amica Louise Colet scriveva che il suo fine era di arrivare a una comicità portata all’estremo, una comicità che non facesse più ridere. Non dimostrare più niente, scrivere un libro che, come diceva Du Camp, sembrasse opera di un cretino. Ma da allora la stupidità ha fatto progressi enormi. È un sole che non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è nemmeno più la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore attorno a sé. Gli autori della riduzione teatrale non si sono accorti per esempio che Bouvard e Pécuchet sono le prime vittime del mito del tempo libero, che è il padre adottivo della stupidità.
Dunque, il metodo flaubertiano avrebbe dovuto essere applicato dai riduttori alle sciocchezze che vengono oggi — non ieri — diffuse come incrollabili verità. E allora avremmo avuto Bouvard e Pécuchet impegnati a saggiare la verità della cultura di massa, della rivoluzione culturale, del libero erotismo, del delirio scientifico, del collage come romanzo, della contestazione globale, del teatro della crudeltà, della meccanizzazione totale, della corsa negli spazi, della disalienazione promessa dai partiti, dell’arte come terapia e della terapia come arte, eccetera. Quale meravigliosa serie di capitoli e di scene! E quale catalogo di idee insopportabilmente chic! Ognuno faccia il suo proprio.
Per la verità oggi Flaubert riscriverebbe il suo romanzo o lo vieterebbe ai riduttori teatrali.
Per la ragione che essi non credono nel progredire e nel variare incessante della stupidità. Che oggi non è tanto più borghese, razionalista e volterriana, come ai tempi del farmacista Homais, quanto tesa verso il futuro, piena di idee. Oggi il cretino è pieno di idee.
Vado al cinema. Due paracadutisti, un inglese e un americano, riescono a entrare durante l’ultima guerra in un fortilizio tedesco nelle Alpi bavaresi e compiono enormi prodezze. Soli, insidiati da spie, superando ostacoli modello, nel giro di poche ore uccidono una quantità industriale di soldati tedeschi, eliminano le spie, fanno saltare il forte, una teleferica, un ponte, distruggono una squadriglia di aeroplani. Uccidono freddamente, a colpi di pugnale, con la pistola, la dinamite. In mancanza d’altro, con una piccozza. La rappresentazione delle esecuzioni è calcolata veristicamente. Il pugnale entra nel petto, la pallottola fora la fronte, la dinamite dilania i corpi, la piccozza li strappa. La Wehrmacht alla fine è disfatta, e non saremo noi a dolercene. Gli spettatori sfollano placati. Quelli che hanno una macchina, quasi tutti, partono rombando di felicità, guidano nella notte in uno stato di ebrezza eroica. A casa si addormentano come angeli. Se è vero che ogni rappresentazione di violenza scarica l’aggressività latente dello spettatore, film del genere sono da desiderarsi. In linea subordinata da essi scaturiscono due osservazioni. La prima è che il soldato tedesco ha ormai sostituito l’indiano dei western, la cui morte non duole, è solo retorica, anzi deve essere ripetuta continuamente per tranquillizzare il bambino. La seconda osservazione vuole una domanda: dove sono i nazisti? Escludendo le vittime, private di ogni possibilità di scampo, inchiodate anzi alla loro parte di indiani, escludendo i paracadutisti che fanno il loro lavoro professionalmente, senza odio e senza enfasi, è chiaro che i nazisti sono coloro che, come allora, traggono gioia e soddisfazione dal massacro, da coloro che ora stanno a guardare: cioè gli spettatori. Quando certi uomini di teatro sollecitano la partecipazione viva del pubblico ai loro spettacoli dovrebbero meditare sui pericoli cui vanno incontro.
Da vari casi accaduti sappiamo ormai che morire è imprudente. Soprattutto se si muore per mano di uno o più assassini che restano ignoti: per cause dunque non passionali, ma per semplice aggressione o rapina. Risultate inutili le indagini per trovare o almeno identificare gli assassini, l’attenzione si sposta sulla vittima. Si chiede a lui la spiegazione del delitto. Sul suo conto si vengono a scoprire cose poco belle: che fumava, guardava la televisione, usciva raramente di casa e godeva di una pensione insufficiente. In più che la sua consorte non era di grande nascita e aveva avuto in gioventù due fidanzati. Approfondendo le indagini altre ombre si addensano sulla scheda dell’assassinato e della sua consorte: facevano dei picnic! Questo è già intollerabile, ma il quadro peggiora se si pensa che quei pic-nic venivano fatti servendosi dei mezzi pubblici di comunicazione, tram e anche peggio: ferrovie locali. Infatti negli ultimi tempi avevano dovuto vendere la loro utilitaria, per ragioni che non vengono chiarite ma tuttavia sospette: anzi, diciamolo subito, per bisogno urgente di denaro. Ora ci si domanda che bisogno avesse di denaro gente così sprovvista di mezzi. L’ipotesi che servisse per pagare un vecchio ricatto è accettabile. Come diventa odiosa la mediocrità! Degli assassini, invece, ancora non sappiamo niente. Gli identikit, per quelle eterne discordanze tra testimoni, offrono volti assolutamente ideali, non privi di calore umano, di fascino e di intelligenza. Gli assassini la dimostrano, del resto, evitando di farsi prendere. Su di loro si sposta la comprensione popolare. Forse si tratta di gente che deve continuare a divertirsi e non ha denaro, quindi costretta dalla logica insensata delle cose a uccidere per pochi soldi. Che si tratti di scapestrati non c’è dubbio. Hanno agito senza esitazione, per impulso, per non farsi scoprire, quindi per una difesa della loro censurabilità. Legittima difesa? Perché escluderla?
Sulla vittima continuano a venire alla luce prove agghiaccianti di squallore: ebbe varie contravvenzioni per divieto di sosta, soffriva di disturbi gastrici. Era molto avanti negli anni, diciamo vecchio e irritabile. Ebbe anche una lite col lattaio, per misere questioni di resto; e il lattaio (vedi foto) testimonia che era un uomo curvo e taciturno e vestiva senza eleganza.
Dei suoi amici meglio non parlare: persone di scarso reddito, costrette a una vita modesta e che ora preferiscono tacere, fingendo sorpresa. Dicono di non capire le ragioni di un simile delitto. Così non si aiuta la giustizia. Se volessero parlare direbbero la verità, ma non lo fanno. Ci direbbero che il loro amico è l’unico vero colpevole, per il fatto di essere morto.
Questa è un’epoca commemorativa. La quantità di denaro che si impiega per commemorare cose accadute è enorme. Lo stesso denaro, se fosse stato impiegato a suo tempo per le stesse cose, avrebbe forse mutato il corso della storia. I miliardi gettati per commemorare Cleopatra d’Egitto e la sua attività erotica avrebbero permesso alla stessa Cleopatra di far fronte alla conquista romana, largamente. La tragedia di Mayerling non sarebbe accaduta se l’arciduca Rodolfo avesse avuto il denaro che si spende ogni tanto per spiegarne il mistero. La stessa creazione dell’universo, se il buon Dio avesse potuto disporre del denaro investito nei film biblici, sarebbe riuscita, penso, più chiara e ordinata.
Corriere della Sera, 13 marzo 1969