Le solite polemiche estive riemergono con la riapertura del “caso Pantani”, tentando di riabilitare il ciclista come vittima di ingiustizie. Le indagini riprendono le dichiarazioni di Vallanzasca su presunti complotti della camorra nei test antidoping, nonostante le numerose verifiche che dimostrano la regolarità dei test e il doping diffuso dell’epoca. Anche le conclusioni delle inchieste precedenti e le sentenze di tribunali evidenziano la realtà del doping di Pantani, nonostante i tentativi di riaprire il caso periodicamente. È tempo di lasciare riposare in pace il campione.
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Dopo le buffonate innocentiste su Rosa e Olindo, Chico Forti e Bossetti, non poteva mancare un grande classico dell’estate: l’ennesima riapertura del cosiddetto “caso Pantani” nel tentativo di dimostrare, a dispetto dei fatti, che anche lui fu vittima della giustizia, penale e sportiva, e riabilitarlo come campione senza macchia. Può darsi che il pm di Trento non potesse ignorare le “rivelazioni” raccolte dalla commissione Antimafia, impegnata a perder tempo sugli interessi della camorra nel totonero sul Giro d’Italia del 1999 (tutto prescritto, salvo omicidi). Sta di fatto che ha riascoltato il bandito Vallanzasca su presunte confidenze origliate in carcere. Le stesse che avevano indotto già 10 anni fa la Procura di Trento e poi quella di Forlì a riaprire il caso e ad archiviarlo.
Il sospetto è sempre quello: la camorra, per non pagare troppi soldi agli scommettitori, avrebbe truccato i test antidoping a Madonna di Campiglio per eliminare il Pirata, maglia rosa a due tappe dalla fine, per il famoso ematocrito (quantità di globuli rossi nel sangue) del 51,9%. Nessuno ha mai capito che bisogno ci fosse di scambiare o riscaldare le provette di Pantani, che in quegli anni, come molti, era sempre dopato fino al midollo. E come abbia potuto la congiura reggere per 25 anni, con decine di persone coinvolte, fra cui fior di primari di ematologia. Nella stanza del prelievo, all’hotel Turing di Campiglio, c’erano 7 testimoni; la fiala fu portata al medico e analizzata con quelle di altri 9 corridori davanti a 4 persone; l’ematocrito di Pantani risultò “fuori norma”; la macchina fu ritarata per un secondo test: stesso esito; furono convocati il direttore sportivo e il medico della Mercatone Uno e assistettero ad altri due controlli: identico risultato. Campione ematico e materiale analitico furono subito sequestrati dalla GdF che li periziò per la Procura di Trento: tutto regolare. Poi Pantani fu processato a Forlì per altri due ematocriti abnormi, riscontrati nei ricoveri per due incidenti nel 1995: 57% a Rimini e addirittura 60.1 a Torino, a dispetto di una media dichiarata di 45. Condannato per frode sportiva, Pantani fu assolto in appello: non perché non fosse dopato, anzi, ma per un buco nella vecchia legge sull’illecito sportivo, applicabile a dirigenti e medici che “dopano” l’atleta, ma non al suo “autodoping” (punibile solo dal 2000: nel ’95 “il fatto non era reato”). Nel 2013 una commissione di inchiesta del Senato francese svelò i ciclisti dopati al Tour del ’98, fra cui i primi tre: Pantani, Ullrich e Julich. Ma nessuno revocò loro i titoli sportivi. Dieci anni fa Stefano Garzelli, storico gregario del Pirata, commentò così la penultima riapertura: “Lasciamo che Marco riposi in pace”. Sarebbe il caso di dargli ascolto.
Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2024