Giovanni Lilliu: La questione della lingua sarda

Lilliu denunciava la Sardegna come terra separata e oppressa, il sardo ridotto a folclore e la politica cieca. Serve un bilinguismo reale, non simbolico.

di Giovanni Lilliu

(Lezione tenuta il giorno 1 febbraio 1991)

Ringrazio il professor Marci per avermi invitato a tenere non dirò una lezione, per carità, ma una conversazione con voi.

Io sono vecchio e quindi sento ancora di più, molto più di prima, la necessità dei colloquio con i giovani e proprio il contatto che, fino a non molto tempo fa, ho avuto con i giovani, mi ha dato sicuramente qualche anno di vita in più. Anche in questo senso apprezzo il nostro incontro di oggi.

Io sono un archeologo, come dire?, anomalo perché ho sempre ritenuto nella mia vita, a cominciare dalla giovinezza, che l’attenzione di una persona e soprattutto di una persona che vive in una regione dotata di particolari caratteristiche fìsiche e antropiche, segnata dalle sue particolari sofferenze, l’attenzione di un archeologo, in particolare, non dovesse limitarsi esclusivamente ad una riflessione sulle cose delle antichità più remote. Da qui deriva l’interesse che ho avuto, e che ho tuttora, per la cultura sarda, per la lingua sarda, per questa fisionomia nazionale (intendiamoci: tra virgolette) della Sardegna.

Oggi cercherò di ripercorrere con voi una relazione che avevo fatto nel 1986, in un convegno indetto dalla Comunità europea e dalla Regione sarda e che si era tenuto a Nuoro, avendo come tema quello concernente le lingue delle minoranze di tutta Europa, le lingue dei popoli e delle terre di quell’Europa che si dice nascosta.

La Sardegna è intanto distinta, rispetto al resto del mondo, da un confine certo rappresentato dalle rive marine e si presenta, nell’aspetto fìsico e antropologico, quale autentica regione rimasta inalterata geograficamente da sempre; Il carattere regionale, connaturato con l’insularità (un’isola vasta che è “quasi un continente”, ha l’aspetto di un piccolo continente nei suoi 24.089 kmq), si esplica bene proprio nella diversità di questa terra.

La Sardegna, ha scritto David Herbert Lawrence nel lungo racconto di viaggio Sea and Sardinia, “non assomiglia ad alcun luogo”. “Non vi è in Italia ciò che vi è in Sardegna” affermava, riguardo fauna e flora dalle forme fortemente caratteristiche e arcaiche, il naturalista-settecentesco Francesco Cetti, e allo scrittore tedesco Pagenstecher, ancora all’inizio di questo secolo, l’isola nell’insieme appariva Italienfremde, cioè straniera all’Italia. Più di recente Giuseppe Dessì immaginava l’isola come un paese di luna, un paese completamente diverso, arido come la luna e che ha un’altra faccia che gli uomini non hanno mai vista: qui, aggiunge lo scrittore, “un altro senso del tempo, un ritmo diverso”. Ci sono dunque un odore e un colore particolari della Sardegna, un primitivo che ha il segno, ancora non espresso totalmente come probabilmente si esprimerà, di una energia vitale e originale. C’è un timbro quasi inafferrabile e pertanto irripetibile e diffìcile, comunque, da ridurre a modelli stereotipi esterni. Ciò fa sì che certe volte non veniamo compresi e che noi non comprendiamo, come si dovrebbe, l’esterno. Ciò ha fatto dire, proprio a Dessì, che alla Sardegna costa di più che ad altre regioni italiane “essere italiana”, in quanto deve passare da una sua cultura ad una cultura altra, da apprendere necessariamente e coscienziosamente possedere a causa di questa nostra lontana collocazione storica e direi anche territoriale.

Io questo l’ho sentito quando ero ragazzo perché sono passato dalla lingua sarda all’italiano.

A chi la vede per la prima volta o a chi la ricerca nel suo profondo, l’isola dà l’impressione di una strana periferia. Strana perché, come negli altri territori di frontiera, i caratteri del nostro Paese al quale la Sardegna appartiene politicamente non riescono a rapportarsi alla fisionomia locale al punto di evitare di considerarli stranieri, se non in tutto in parte. Proprietà e peculiarità connotano la realtà sarda nei vari aspetti nonostante i tanti apporti esterni, ed emergono nel quadro generale e complesso della realtà italiana, al di là dei livellamenti che produce la civiltà moderna anche attraverso i mezzi di informazione, ai quali, ovviamente, non si sottrae neppure la Sardegna.

Tutti questi caratteri si racchiudono in quello più vistoso della separatezza della terra sarda, dovuto al suo involucro conservativo. Questa non è una mia riflessione: di “ile conservatole”, di isola di deposito, di isola di conservazione, ha parlato lo storico francese Lucien Febvre. Ugualmente Maurice Le Lannou dice di una cintura liquida del mare che ha spinto i sardi verso l’interno, altri parlano del distacco della Sardegna dall’Europa più di qualsiasi altra terra italiana. La separatezza ha impedito alla Sardegna di raggiungere una via di sviluppo felice quanto quella di popoli e genti a noi vicine. Però credo che questa separatezza, in fondo, abbia innervato nel popolo sardo un senso vivo e fiero di essere se stessi. Lo si sente soprattutto quando i sardi stanno fuori. Ho fatto conferenze tante volte all’estero nei circoli dei sardi ed ho potuto notare come sentano terribilmente questo senso di separatezza ma anche il senso dell’essere se stessi, con comportamenti abbastanza omogenei all’interno e differenziati verso l’esterno, con divaricazioni specifiche di umanità e di vita che si aggiungono alle proprietà e ai diritti naturali: elementi da considerarsi storicamente produttivi.

Si può parlare, a ragione, per la Sardegna di una sua speciale identità: oggi questo termine identità mi pare venga accolto quasi a livello di massa dai sardi, qualche anno fa era difficile introdurlo. Si tratta di un’identità di regione, prima di tutto, ed anche di un’identità di cultura seppure all’interno di una più vasta cultura, quella del nostro Paese e dell’Europa. Perciò io ritengo, tanti di noi ritengono, che questa identità debba essere salvata, promossa anche con i mezzi e i metodi utilizzati dall’informazione radiotelevisiva e, d’altra parte, riteniamo che alla stessa informazione la Sardegna possa dare un contributo specifico, nella diversificazione degli apporti che vengono da altri territori a cultura regionale e con minoranze linguistiche, mediterranei ed europei.

Va precisato che l’identità sarda non si fonda su contenuti di base d’un antico filone indigeno etnicamente isolato e irriducibile sempre all’altrui. Questo no: non è che ci sia stata una continuità che deriva soltanto da un etnos, per quanto si scorga una linea storico-etica, di comportamento sociale, che è, almeno a me questa appare come un’ipotesi accettabile, una linea costantemente antagonista e ribelle. Io feci a suo tempo un’ipotesi storiografica: quella della costante resistenziale sarda che in tempi passati non trovava ampi consensi mentre mi pare che oggi sia più condivisa.

L’identità risulta dalla eccezionale capacità che ha la Sardegna, questa pianta umana locale, di assumere, filtrandole e sardizzandolc, dal cumulo di esperienze ricevute e incrostatesi nell’isola come frutti di tante dominazioni più o meno traumatiche, quelle ritenute in qualche modo conformi a un obiettivo garante di un ruolo autonomo che il popolo sardo si è da tempo imposto come opzione fondamentale non ancora realizzata. La Sardegna ha titolo di nazionalità per un complesso di fattori oggettivi e soggettivi. Aspirare a trarne le conseguenze nei modi democratici e pacifici, nelle sedi dovute, e cioè nelle sedi istituzionali, appartiene alla nostra ragione: una ragione storica e, aggiungiamo, una ragione politica. Qui vale soffermarsi sulla ragione culturale dell’identità e, in particolare, sulla importante connotazione linguistica sarda. Va da se che ancora oggi l’unica lingua ufficiale in Sardegna, come nella massima parte del territorio dello Stato italiano, è la lingua italiana. Lo era già dalla costituzione del regno sardo-piemontese, sebbene l’unità linguistica fosse allora soltanto teorica. Ancora alla metà del secolo scorso, erano pochi i sardi che scrivessero in lingua italiana, non molti coloro che la parlavano, tanti che non la capivano nemmeno. Per altro il mezzo milione e più di abitanti di allora, usava come lingua parlata corrente il sardo nelle tre varietà. I dati li ho tratti da una pubblicazione di Girolamo Sotgiu: nella varietà campidanese parlavano 302.062 abitanti; in quella logudorese, comprendendo anche la nuorese, 208.210, nella variante gallurese 49.720. Questa era allora la situazione: c’erano poi circa settemila persone che si esprimevano in catalano (l’isola algherese in cui si parla un catalano molto antico, lo stesso catalano che parlano gli abitanti di Minorca e Maiorca, come ho potuto anche constatare di persona), in genovese-tabarchino (Calasetta, Carloforte), in corso (i maddalenini).

La situazione attuale appare quantitativamente modificata nella proporzione delle lingue parlate che però rimangono sostanzialmente le stesse. La Sardegna è pertanto una regione-nazione plurilingue, unificata ufficialmente con la lingua dello Stato italiano, con una grande maggioranza di sardofoni. Qui le statistiche variano molto: alcuni dati indicano, forse troppo entusiasticamente, l’80%. Io penso che la percentuale sia minore.

C’è inoltre una piccola minoranza di alloglotti che non parla il sardo ma solamente l’italiano.

Alla tutela di questo terreno linguistico sardo e alloglotto sono oggi sollecitati l’interesse e l’impegno costituzionale delle istituzioni della Repubblica, al che non può non contribuire ogni modo e mezzo di impulso provenienti dalle organizzazioni della società civile e politica. Molto possono giocare in questo senso i mezzi di comunicazione di massa.

Se il progetto politico autonomistico della Sardegna porta a rivalutare i valori vitali della tradizione nel quadro della cultura moderna, il principale riferimento di attenzione per la sua promozione deve andare, da parte dei sardi, alla loro lingua. La questione della lingua sarda (forse tutti queste cose non le colgono) è un aspetto fondamentale della non ancora risolta questione sarda. L’uso, non soltanto casalingo, della lingua sarda, e l’elevazione della stessa a dignità pari della lingua ora ufficiale, consentiranno non solo di potenziare il valore aggregante in senso di popolo, come collante etnico nazionale, del fatto linguistico, ma anche di dare significato compiuto all’obiettivo di restituire ai sardi tutta la libertà che essi desiderano, che ancora viene loro negata da potenze politiche ed economiche esterne. Intanto va subito affermato con decisione e forza che quella sarda è una lingua, e non un dialetto dell’italiano come una parte capziosamente insinua giovandosi anche dell’aiuto propagandistico dei media. Scriveva in proposito il grande filologo tedesco Max Leopold Wagner già nel 1951, venti anni prima che nell’isola muovesse la rivendicazione linguistica nei confronti dello Stato italiano:

“ll sardo si deve considerare una lingua per il fatto stesso che la lingua sarda non è confondibile con nessun’altra e come tale viene ora considerata dai linguisti. Essa è un parlare romanzo arcaico e con proprie spiccate caratteristiche, che si rivelano in un vocabolario molto originale e una morfologia e sintassi assai differenti da quelle del dialetto italiano”.

Il suo uso scritto – aggiungo – appare già documentato nel secolo XII; e le cancellerie degli Stati giudicali continuarono ad adoperarla, la lingua sarda, sino al tramonto delle autonomie, ultimo il giudicato di Arborea, alla metà del secolo XVI. Nella consuetudine popolare, poi, nessun dominio (il bizantino, l’iberico, l’austriaco, il piemontese, lo Stato italiano) è riuscito a cancellarla. La lingua sarda ha superato proibizioni, rimozioni, declassamenti sino al dileggio, ed è rinvenuta, scossa ma viva, da tutte le tempeste interne ed esterne.

E su queste considerazioni e nell’onda della memoria storica e della rivendicazione etnico-culturale, che agli inizi degli anni Settanta, è stata posta la questione della lingua sarda. È stata posta non solo come promozione di un puro fatto filologico e d’una ricerca sociolinguistica, elementi che pure hanno il loro interesse scientifico e, come tali, vanno tenuti in conto. Ma la questione, la querelle, è stata collocata, con enfasi, all’interno di una presa di coscienza e d’una azione liberatoria generale, come quando, nello stesso tempo, lo stesso tema emergeva dentro i movimenti europei per la riappropriazione dei valori delle nazionalità sommerse e delle lingue tagliate, oggi si dice eufemisticamente: delle lingue meno diffuse. Mi pare che la Comunità europea preferisca questa definizione di lingue meno diffuse. Accettiamola: l’importante è che si vada avanti.

I movimenti ai quali mi riferivo sono quelli catalani, baschi, delle Fiandre, della Bretagna, dell’Occitania e della Corsica; quest’ultima ha visto riconosciuto dall’Assemblca francese il diritto a chiamarsi popolo, cosa che la nostra Costituzione non ci consente di dire. Questi movimenti, tendevano a recuperare, anche col mezzo della lingua, la propria entità etnica, la specifica essenza culturale, il patrimonio morale di quell’Europa contestata dall’Europa ufficiale sino a minacciarne quasi la sopravvivenza.

Erano i tempi nei quali, d’altra parte il Consiglio d’Europa a Strasburgo raccomandava di evitare la dispersione del ricco patrimonio culturale europeo, costituito dalle lingue regionali e dagli stessi dialetti oppressi, perché anche i dialetti vanno tutelati. Conveniva alla stessa mira il passo dell’enciclica Populorum progressio, dove si stimolavano i poteri pubblici a sviluppare iniziative per la crescita delle minoranze etniche, specie in ciò che concerne la lingua, la cultura, i costumi, le risorse e le imprese economiche.

Anche in Sardegna, dunque, nacque allora la lotta per la lingua ed era vista come impegno, non solo culturale, indirizzato ad attivare un processo di decolonizzazione di natura politica ed economica. Più in generale nella riaffermazione linguistica si coglieva il significato di concorrere a decolonizzare la storia e la vita dei sardi (perché anche la nostra storia è, in un certo senso, una storia coloniale, una storia che non è uscita dal nostro guscio, che non si apprezza all’esterno della Sardegna).

Era un’utopia per una nuova Rinascita dell’isola, nascente dalla coscienza d’una situazione di bilinguismo. Questo concetto l’aveva illustrato Michelangelo Pira già prima degli anni Settanta: la Sardegna tra due lingue, i rapporti fra le due lingue, l’italiana superiore, a pieno livello di scrittura; la sarda, inferiore, fatta scendere dal dominio al semplice grado di espressione orale. Ciò poneva, come pone ancora oggi, problemi di portata generale, tali da investire l’assetto istituzionale nell’area di appartenenza, e non solo in quella. In questa cornice di movimento – di movimenti, per la verità, perché erano parecchi che si muovevano in questa direzione – della cultura sarda dei primi anni Settanta, si colloca, come importante stimolo, la pronunzia del Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Cagliari, in seduta del 19 febbraio 1971. Il Consiglio (notate che era formato da sardi e da docenti provenienti dalla penisola, tra i quali il professor Cirese) votò all’unanimità questa proposta con la quale, considerate le caratteristiche di vera lingua del sardo, coerente all’unità di popolo e di questo autentica espressione comunicativa, chiedeva alle autorità politiche dello Stato italiano e della Regione sarda l’insegnamento del sardo nelle scuole dell’obbligo. Chiedeva inoltre il riconoscimento della condizione di minoranza etnico-linguistica per la Sardegna e della lingua sarda come lingua nazionale della minoranza. Il pronunziamento ufficiale dell’organo accademico e scientifico intendeva dare avvio a un diverso modo di introdurre il problema della lingua sarda e di operare per la sua soluzione.

Il documento precedeva l’apertura, sulle colonne della stampa sarda e italiana, del discorso sulla “nazione sarda” che si collegava, e si collega, strettamente a quello della lingua sarda.

Il dibattito su Lingua e nazione si svolse, con particolare intensità e da differenti, talora opposte, posizioni, soprattutto negli anni 1974/1976, col risultato di avere risvegliato a livello alto, anche nella coscienza popolare, un tema che nella storia dell’autonomia sarda se non era stato proprio ignorato, non aveva però costituito oggetto di seria riflessione e, ancor meno, era stato riconosciuto motivo fondamentale nel disegno complessivo per il conseguimento dell’autodeterminazione mirata a soddisfare finalmente la sospirata libertà della terra e del popolo sardo.

Nel 1975/79, ancora su invito della Facoltà di Lettere dell’Ateneo cagliaritano, numerosi Consigli comunali e l’Amministrazione provinciale di Cagliari adottarono dclibere in favore dell’insegnamento del sardo nelle scuole dell’isola e, parimenti, si espressero circoli e gruppi spontanei di base. Allora fiorivano questi circoli in tanti paesi, aggregazioni che oggi, purtroppo, non ci sono più: da questo punto di vista c’è stata un’involuzione notevole, una diminuzione del fattore aggregante. Allora, invece, intellettuali e operatori della cultura portavano la questione della lingua al pubblico dibattito e venivano elaborati proposte e atti per la formazione di strutture organizzative di sostegno.

Nell autunno del 1975 nacque a Ozieri un Comitato provvisorio di coordinamento e di iniziativa per la lingua e la cultura sarda. A Cagliari, nel settembre 1976, il Convegno “sui rapporti tra cultura e scuola nell’identità del popolo sardo” portò alla costituzione di Sardegna cultura: Associazione per l’identità sarda diventata poi Movimento di Nazione sarda con l’omonimo mensile bilingue vissuto dal giugno 1977 al maggio del 1981. Altri convegni si limitarono a toccare il tema nel riguardo politico o nella pura riflessione scientifica: il Convegno sulle minoranze linguistiche e l’unità europea, celebrato a Oristano dal 28 febbraio al 2 marzo del 1976, e il XI Congresso internazionale della Società linguistica italiana che nel giugno del 1977 discusse a Cagliari l’argomento dei “dialctti e delle lingue di minoranza di fronte all’italiano”: qui l’attenzione più viva e convinta al problema della lingua sarda venne, purtroppo, più dagli scienziati continentali e stranieri che da parte dei linguisti locali.

In questo movimento generale, diffuso in tutta l’isola, non mancarono, per quanto cauti, accenni di pronunzia favorevole di partiti politici. Nel giugno del 1977 un consigliere regionale, durante il dibattito in aula su un progetto di legge riguardante la caccia, svolse in sardo la parte conclusiva del suo discorso. In seguito, però, i Presidenti dell’Assemblea, per ragioni di legge, non consentirono più interventi ufficiali in lingua.

Fu possibile invece collegare l’iniziativa per la cultura e la lingua sarda con simili iniziative di gruppi esterni all’isola. Così una delegazione di sardi partecipò al Convegno delle seconde giornate del Centro internazionale Escarré per le minoranze etniche e linguistiche” (CIEMEN), tenutesi a Cuixà (Prada) dal 16 al 22 di agosto del 1977. Eravamo ancora in tempi franchisti e noi lavoravamo nei Pirenei, in località di frontiera. L’Associazione Escarré faceva capo al famoso monastero di Montserrat che era un centro di battaglia antifranchista, tant’è vero che Escarré fu esiliato da Franco, venne in Italia e morì a Milano. Nella circostanza di quel convegno discutemmo, alla presenza di rappresentanti di nazione catalana, corsa, friulana, sarda e valdostana, la problematica storica, culturale, sociale, economica e politica delle isole occidentali del Mediterraneo: Baleari, Pitiuse, Corsica e Sardegna. Il documento finale, reso a rivendicare le aspirazioni sinceramente autonomistiche in fatto di cultura e lingua, e a prospettare la questione nazionale di queste minoranze mediterranee insulari, fu redatto anche in lingua sarda, nella variante campidanese essendo noi campidanesi in maggioranza. Più tardi i sardi non ignorarono simili attese portate alla Conferenza internazionale di Belgrado sull’applicazione degli accordi di Helsinki dal raggruppamento “Dèfense et promotion des langues de France” che lottava per i diritti culturali (tra cui l’insegnamento nelle scuole delle lingue regionali e l’uso delle stesse nei mezzi di comunicazione di massa) delle minoranze del cosiddetto“Esagono”: praticamente i paesi della lingua d’oc, della lingua d’oil, la Bretagna, etc.

Nell’autunno del 1977 dal movimento per le lingue e la cultura sarda veniva esplicita la richiesta di applicazione dell’articolo 6 della Costituzione italiana e del riconoscimento al sardo degli stessi diritti della lingua italiana. I vari gruppi di “Nazione sarda”, “Sa Sardigna”, “Sardegna Europa”, “Su populu sardu” (sostanzialmente si sono sciolti, non esistono più; alcuni movimenti convergevano verso il Partito sardo d’azione, altri, credo, sono passati al Partito comunista) e taluni settori di partito elaborarono una bozza di proposta di legge nazionale per la tutela della lingua sarda e delle varietà linguistiche tabarchina, sardo-corsa e sardo-algherese, e per il loro uso, insieme all’italiano, nelle scuole, dalla materna alla secondaria superiore, nei rapporti con gli organi e gli uffici della pubblica amministrazione situati nel territorio della Sardegna, e nelle adunanze degli organi collegiali della Regione, delle Province e degli altri enti locali.

La proposta di legge nazionale di iniziativa popolare, definita meglio in base a suggerimenti venuti attraverso la consultazione popolare in incontri in Sardegna, nel Continente e all’estero nell’ambiente dell’emigrazione, fu presentata da “Su Comitati po sa limba sarda” costituito a Nuoro nell’inverno del 1977, al Consiglio regionale il 13 luglio 1978, accompagnandola con le 13.540 firme di elettori. Titolo della proposta: “Tutela della minoranza linguistica sarda in applicazione dell’articolo 6 della Costituzione”. In commissione la proposta ebbe un cammino travagliato sino a non avere il consenso. In aula venne discusso, in sua vece, e approvato il 9 aprile 1982, un provvedimento legislativo di iniziativa consiliare, affermante il principio della parità giuridica della lingua sarda rispetto, a quella italiana, con la richiesta ai rami del Parlamento del riconoscimento del sistema del bilinguismo. La legge proposta dal Consiglio regionale e presentata il 26 settembre 1983, col numero 535, a giudizio della stragrande maggioranza della prima commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati andrebbe oltre il concetto di tutela previsto dall’articolo 6 della Costituzione, né può quindi essere riconosciuta la parità giuridica tra le due lingue se non attraverso una riforma della norma costituzionale. Adesso si parla tanto di riforma della Costituzione: sarebbe da augurare che fra le cose da riformare ci fosse anche questa riguardante la modifica dell’articolo 6.

La proposta di legge sarda, comunque, è andata a confondersi con le altre proposte di legge (sono ben 11) venute da diverse parti politiche, relative alla tutela di diverse minoranze etniche e linguistiche del Paese, tutte confluite, rielaborate e modificate nelle posizioni forti, nel disegno di legge approvato dalla predetta commissione, recante “norme in materia delle minoranze linguistiche . È questa la cosiddetta legge Fortuna, un compromesso nel quale hanno prevalso sulle istanze provenienti dalle singole minoranze i quadri concettuali delle parti politiche, e dove la questione linguistica è stata in gran parte snaturata e piegata a fini più di schieramento che di contenuti programmatici capaci di realizzare i veri originali obiettivi. Tuttavia le rappresentanze delle Regioni interessate, compresa quella sarda, nell’impossibilità attuale di avere il meglio, avevano espresso un parere sostanzialmente positivo sul testo della commissione. Per adeguare le misure, in verità al momento assai limitate, insufficienti a soddisfare le esigenze delle minoranze, queste (dunque anche la minoranza sarda) produssero un forte movimento di opinione.

Avremmo dovuto esercitare una spinta, stimolare, in modo da sollecitare l’approvazione della legge. Io vedevo nell’articolo 3 (ed altri) una debolissima istanza di autonomia per quanto riguardava la lingua. Intanto, siamo come dicevo nel 1986, aspettavamo anche che per lo meno questa legge unificata andasse alla discussione in aula. Da allora ad oggi non mi pare si sia fatto niente.

Il Convegno del 1986 del quale vi ho lungamente riferito soprattutto auspicava che i mezzi di comunicazione di massa, la stampa e in modo particolare la televisione facessero loro questo tema. In realtà, allora e oggi ancora, il mezzo radiotelevisivo in Sardegna non è altro (credo di dire la verità) che il calco del mezzo radiotelevisivo nazionale, tende alla standardizzazione conformistica, estremizzante, così delle idee come delle pratiche, pensa a una sorta di universale omologante, di conseguenza è chiuso alla comprensione convinta dei fenomeni peculiari diversi che vengono dai territori regionali e dalle etnie, le cui stranezze sono vendute, al massimo, come merce di consumo folcloristica. Vedete, c’è quella televisione privata sarda dove ballano e cantano in sardo, però non capisco perché il presentatore non li presenti anche in sardo: sono manifestazioni di un folclorismo tutt’altro che sincero, piuttosto banale. Vorrei aggiungere anche questo: oggi c’è una caduta forte di tensioni non soltanto nel senso della lingua ma anche in quello della coscienza sincera, convinta, dell’autonomia, sia da parte dei politici, sia da parte degli intellettuali. E ciò riguarda non solo la questione della lingua ma la questione sarda nell’intero, ossia la cultura dell’autonomia intesa come ideale e anche intesa nelle compiute realizzazioni. Allora c’è una necessità di una conversione dei mezzi radiotelevisivi e giornalistici ad aprirsi e a considerare queste aspirazioni.

Termino proponendovi una considerazione dell’eurodeputato Gaetano Arfè che compare nella relazione per le proposte di risoluzione su una carta delle minoranze etniche e linguistiche:

“Ma forse soltanto dentro una dimensione europea per i popoli delle regioni sommerse e delle lingue tagliate sarà più facile affrontare ed avviare a soluzione problemi generalmente ereditati da una storia tormentata, intessuta di guerre, di persecuzioni, di sopraffazioni e che, pur appartenendo ad un passato ormai irrevocabilmente concluso, hanno lasciato sedimenti di rancore, di diffidenza, superabili perché superate sono le situazioni storiche che li hanno prodotti, ma nei fatti ancora in larga misura da superare”.

Che cosa è successo dopo il 1986? È successo che nel 1989, se non erro, fu presentato all’Assemblea regionale della Sardegna un testo di tutela e valorizzazione della lingua sarda. Purtroppo fu portato all’Assemblea all’ultimo momento prima della fine della legislatura e questa proposta di legge, che pure in commissione aveva avuto l’approvazione della maggioranza, non fu accolta dal Consiglio. È stato un grande scacco. Ora c’è nuovamente una proposta di legge di Giunta e proposte da parte di vari partiti politici perché almeno si soddisfi l’esigenza, che a me pare giusta e legittima, dell’insegnamento della lingua sarda nella scuola dell’obbligo.

Che cosa poi si possa fare in Europa, io non lo so. Si tratta di vedere a quale tipo di comunità noi andremo, se a una comunità europea esclusivamente di Stati o anche di nazioni-stati o di una comunità europea nella quale abbiano voce e parte anche le nazionalità. Preferisco pensare ad una Europa diversa e democratica. Se questa Europa verrà colonizzata dalle grandi nazioni-stato dell’Europa centrale, Germania, Francia, e se questa comunità europea si dimenticherà che ha anche al suo interno una larga fetta di comunità mediterranee c’è il rischio che si interrompa il rapporto fra il mondo europeo del sud, la Sardegna per quanto ci riguarda, e l’Europa del nord. C’è il rischio che non vengano adeguatamente considerate le necessità di colloquio con la sfera del mediterraneo meridionale: alludo al medio-oriente, alludo al Magreb. Personalmente mi auguro che da questo tormento che tutti noi stiamo attraversando, superata questa crisi che ha portato perfino alla guerra, nasca veramente – è questo il vero problema – un nuovo accordo tra la nostra civiltà europea e la grande civiltà islamica che insieme con la nostra ha contribuito alla prosperità di questa terra mediterranea.

Tornando alle cose della nostra terra vedo oggi, in sede politica, una qualche ripresa delle tematiche: vengono agitate ipotesi federative, anche all’interno dei partiti, come di recente ha fatto il Partito comunista. Spero che in tutto ciò ci sia sincerità. Sono ipotesi, anche interessanti, ma al momento solo ipotesi. La realtà è che in tutti questi lunghi anni non si è venuto a capo di un’istanza, di un’esigenza che, come dicevo prima, ritengo giusta e legittima. Un po’ questa mia insoddisfazione, questo tono dimesso dipendono anche dal fatto che sono figlio di una generazione che ha conosciuto tante guerre e ha avuto tante sconfitte, in battaglie anche politiche e culturali. I vecchi declinano, quindi tendono al pessimismo; però hanno sempre una certa saggezza per riflessioni e osservazioni: ritengo comunque che la speranza possa essere riposta nei movimenti, nella forza di questa gioventù che sta diventando nuovamente molto riflessiva. La gioventù dovrà rendersi conto che esiste anche questo problema, assieme agli altri: quello dell’emigrazione dei paesi africani e quindi, nuovamente, dell’Europa che si va facendo.

Problemi nuovi per la Sardegna e in buona misura per l’Italia: spero che i giovani facciano propri questi temi e queste esigenze e li uniscano agli altri dei quali abbiamo parlato, concernenti la lingua, la tutela delle minoranze, la difesa dei mondi oppressi ed afflitti. Anche da tali dicotomie nascono le guerre che deprechiamo e che vogliamo evitare, dalla tremenda separazione tra i paesi cosiddetti sviluppati e quelli che vorrebbero svilupparsi ma ne sono impediti proprio dall’Europa.

Fonte: Giuseppe Marci, Romanzieri sardi contemporanei, CUEC editrice, 1991

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