Professionisti dell’inganno: come il sistema digerisce i suoi oppositori

Gli "scappati di casa" del M5S, da dilettanti a leader competenti, hanno fatto meno danni dei veterani, ma la politica italiana resta prigioniera del suo eterno declino.

Riflessioni a margine dell’editoriale odierno di Marco Travaglio sulle dinamiche di potere e la crisi della politica italiana

di Alberto Piroddi

C’erano una volta gli “scappati di casa”. Era così che il sistema politico italiano si riferiva ai membri del Movimento 5 Stelle, quegli outsider senza raccomandazioni, senza scandali alle spalle, e dunque, per definizione, incompetenti. Eppure, mentre tutti li etichettavano come dilettanti allo sbaraglio, i grillini riuscirono a entrare nelle stanze del potere, e, sorprendentemente, lo fecero con un mix di audacia e competenza che nessuno si aspettava. Certo, all’inizio, molti di loro scontavano una certa inesperienza. Ma ciò che non avevano, in termini di malizia politica, lo compensavano con un’onestà che risultava sconcertante per il mondo delle istituzioni italiane.

Quando Luigi Di Maio nel 2018 radunò una squadra di tecnici e professionisti, vennero fuori nomi che non erano solo targati Movimento 5 Stelle, ma che rappresentavano competenza e integrità. Da quella lista spuntarono figure come il generale Sergio Costa, professori come Pasquale Tridico e Lorenzo Fioramonti, che si rivelarono capaci di amministrare senza scandali e ruberie. Quel momento segnò l’inizio di un governo che, contrariamente alle aspettative, riuscì a navigare in acque tempestose, tra dilemmi infrastrutturali, crisi economiche e la sfida di mantenere una coerenza ideologica.

Eppure, nonostante i risultati positivi, la narrativa dominante contro il Movimento rimaneva sempre la stessa: erano inesperti, inadatti, incapaci. Anche Virginia Raggi, bersaglio di attacchi feroci per la sua gestione di Roma, è oggi rimpianta da molti, se paragonata agli amministratori che l’hanno seguita, più abili forse nell’intreccio politico ma meno efficaci nel produrre risultati concreti. Il caso di Danilo Toninelli è emblematico: sotto la sua guida, il Ministero dei Trasporti riuscì a portare a termine la ricostruzione del ponte di Genova in tempi record, un’impresa che sembrava impossibile nella palude burocratica italiana. Eppure, Toninelli venne ricordato più per le sue gaffe mediatiche che per questo straordinario risultato.

In questo contesto, il ritorno in auge di Matteo Renzi con le sue critiche taglienti alla squadra di governo attuale, guidata da Giorgia Meloni, sembra quasi ironico. Renzi, che accusa il governo di essere “tecnicamente impresentabile”, dimentica forse la propria eredità. Non possiamo dimenticare che durante il suo mandato a Palazzo Chigi portò al potere persone che non avevano nulla da invidiare agli “scappati di casa” in termini di incompetenza e impresentabilità. Tra questi, spicca il nome di Antonella Manzione, ex capo dei vigili di Pietrasanta, promossa al Consiglio di Stato in violazione delle normative sull’età minima richiesta. Anche suo fratello Domenico venne collocato come sottosegretario. Era questo il “nuovo che avanza”?

La verità è che il sistema politico italiano ha sempre funzionato con logiche di cooptazione, in cui chi rimane fuori dal giro viene automaticamente bollato come incapace, mentre chi fa parte del cerchio magico viene promosso a ruoli di potere, indipendentemente dalla competenza effettiva. Il Movimento 5 Stelle, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, ha rappresentato per un momento un’alternativa a questo modello. È stato un esperimento di rottura, che ha tentato di portare avanti una politica diversa, più trasparente e meno incline ai soliti giochi di potere.

Eppure, come accade spesso in Italia, anche quell’esperienza si è logorata, cedendo il passo al compromesso e alla normalizzazione. Quando Grillo annunciò “È finita l’era del vaffa”, quel messaggio segnava non solo un cambio di tono, ma l’inizio della fine per la forza rivoluzionaria del movimento. Il M5S, nato come un’ondata di protesta e rifiuto del sistema, si ritrovò intrappolato nelle stesse logiche che aveva giurato di combattere. La disillusione iniziò a prendere piede tra gli elettori, e il movimento, pur cercando di mantenere la sua identità, si spaccò tra chi voleva continuare il percorso istituzionale e chi invece si rifiutava di cedere ai compromessi.

Il destino del M5S è forse uno dei grandi paradossi della politica italiana: una forza nata per ribaltare lo status quo che, una volta al potere, si è trovata costretta a misurarsi con i compromessi della realpolitik. E qui entra in gioco un altro elemento chiave: il ruolo della memoria collettiva. L’Italia sembra essere un paese che dimentica in fretta, che non impara dalle esperienze passate. Ogni volta che un nuovo governo si insedia, si riparte da capo, senza tener conto di ciò che è stato fatto – o non fatto – da chi è venuto prima. Gli elettori sembrano pesci rossi, che ad ogni elezione dimenticano gli errori del passato e si lasciano incantare dalle promesse del nuovo leader di turno.

Il governo Meloni, oggi al centro delle critiche, rappresenta l’ennesima dimostrazione di questo ciclo di illusioni e disillusioni. Dopo la grande promessa di “cambiamento” del Movimento 5 Stelle, gli italiani si ritrovano ora con una classe dirigente che non è diversa da quelle che l’hanno preceduta. Le polemiche sulle competenze tecniche dei ministri sono solo l’ultimo capitolo di una lunga storia in cui le capacità reali sembrano essere un criterio secondario rispetto alla fedeltà politica.

In questo panorama desolante, il vero fallimento non è tanto dei singoli leader, ma di un sistema che non permette mai un vero ricambio. La politica italiana si muove sempre all’interno di un perimetro ristretto, in cui anche le nuove forze finiscono per essere inglobate dalle stesse dinamiche che avevano giurato di combattere. Questo è il destino che ha travolto il M5S, che da forza rivoluzionaria è diventata parte del sistema, incapace di mantenere la sua promessa originaria di rottura.

Il vero dramma italiano, alla fine, non è tanto la presenza di dilettanti o di professionisti impresentabili. È l’incapacità collettiva di cambiare davvero, di uscire da un circolo vizioso in cui ogni tentativo di riforma viene neutralizzato prima ancora di poter dare frutti. E mentre il paese continua a ripetere gli stessi errori, chi dovrebbe costruire un futuro diverso si trova a fare i conti con le macerie di un passato che non passa mai davvero.

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