Sono tre anni che faccio in modo di non essere in Italia per Natale. Lo faccio di proposito, con accanimento, disperato all’idea di non riuscirci; accettando magari di oberarmi di lavoro, di rinunciare a qualsiasi forma di vacanza, di interruzione, di sollievo.
Non ho la forza di spiegare esaurientemente al lettore di Tempo il perché. Ciò implicherebbe il dare la violenza della novità a vecchi sentimenti. Ossia una prova “stilistica” superabile solo attraverso l’ispirazione poetica. Che non viene quando si vuole. Essa è un genere di realtà che appartiene al vecchio mondo, al mondo dei Natali religiosi: e risponde ancora alla sua vecchia definizione.
Mi rendo ben conto che anche quand’ero bambino io, le feste natalizie erano una cosa idiota: una sfida della Produzione a Dio. Tuttavia, allora, io ero ancora completamente immerso nel mondo “contadino”, in qualche misterioso paese tra le Alpi e il mare, o in qualche piccola città di provincia (come Cremona, Scandiano). C’era un filo diretto con Gerusalemme. Il capitalismo non aveva ancora “coperto” del tutto il mondo contadino, da cui derivava il suo moralismo, del resto, e su cui fondava del resto, ancora, il suo ricatto: Dio, Patria, Famiglia. Tale ricatto era possibile perché corrispondeva, negativamente, come cinismo a una realtà: la realtà del mondo religioso sopravvivente.
Ora il nuovo capitalismo, non ha affatto bisogno di quel ricatto — se non ai suoi margini, o in isole sopravviventi, o nell’abitudine (che si va estinguendo). Per il nuovo capitalismo, che si creda in Dio, nella Patria o nella Famiglia, è indifferente. Esso ha infatti creato il suo nuovo mito autonomo: il Benessere. E il suo tipo umano non è l’uomo religioso o il galantuomo, ma il consumatore felice d’esser tale.
Quando ero bambino, dunque, il rapporto tra Capitale e Religione (nei giorni di Natale) era atroce ma reale. Ora tale rapporto non ha più ragione di essere. È puramente assurdo. È forse questa assurdità che mi angoscia e mi fa fuggire. (In Paesi maomettani). La Chiesa (in Italia, quando io ero bambino, sotto il fascismo) era asservita al Capitale: ne era strumentalizzata, ed essa si era resa strumento del potere. Aveva regalato alle grandi industrie un bambinello tra un asinello e una vaccherella. Del resto, non marciava sotto le bandiere di Mussolini, di Hitler, di Franco, di Salazar? Ora, però, la Chiesa mi pare, in un certo senso, ancora più asservita di prima al Capitale. Infatti prima, la Chiesa, si salvava in quel tanto di autentico che c’era nel mondo preindustriale e contadino (e in quel tanto di artigianale che permaneva nelle vecchie industrie): ora invece, essa non ha contropartita. Non può nemmeno dire di strumentalizzare a sua volta il Capitale: infatti il Capitale strumentalizza la Chiesa solo per abitudine, per evitare guerre religiose, per comodità. In realtà, la Chiesa non gli serve più. Se essa non ci fosse, esso ne potrebbe fare a meno. Ora, in casi del genere, la strumentalizzazione deve essere reciproca, perché serva a tutti e due. A questo punto la Chiesa dovrebbe perciò distinguere le proprie festività (se ancora, arcaicamente ci tiene) da quelle del Consumo. Dovrebbe distinguere, per dirla tutta, l’ostia dai panettoni. Questo embrassons-nous tra Religione e Produzione è atroce. E infatti quello che ne consegue è intollerabile alla vista e a tutti gli altri sensi.
Certo, in realtà Natale è un’antica festa pagana (la nascita del sole) e come tale era originariamente allegra: può darsi che questa ancestrale allegria abbia ancora bisogno, stagionalmente, di esplodere in un uomo che sta per dissodare il Sahara con mostri meccanici. Ma allora, questa festa pagana ritorni pagana: la sostituzione della natura industriale alla natura naturale, sia completa, anche nelle feste. E la Chiesa se ne distingua. Essa non può più essere contadina e ignorante: non può più fingere di non sapere che la festa natalizia è appunto una antica festa celebrata in pagis, pagana, e che l’amalgama è arcaico e medioevale. La tradizione dei presepi e degli alberi di Natale, deve essere abolita da una Chiesa che voglia sopravvivere nel mondo moderno. E questo non devono saperlo solo dei preti eccentrici, progressisti e colti.
Come festa pagana-neocapitalistica il Natale sarà comunque sempre atroce. È un ersatz — con gli week-end, e le altre feste affini — della guerra. Nasce in questi giorni una psicosi che è decisamente bellica. L’aggressività individuale si moltiplica. Aumenta vertiginosamente il numero dei morti. È una vera strage. Si dice: molti Vietnam. Ma i molti Vietnam ci sono. Appunto, in queste occasioni festive: in cui la festa è l’interruzione di un’abitudine allo sfruttamento, all’alienazione, al codice, alla falsa idea di sé: tutte cose che nascono dal famoso lavoro, che è rimasto quello cui inneggiavano i cartelli nei campi di concentramento di Hitler. Da tale interruzione, nasce una falsa libertà, in cui esplode un arcaico istinto di affermazione. E ci si afferma, aggressivamente, attraverso una feroce concorrenza, facendo nel modo più medio le cose più medie. Sì, è una nota terribile al Natale, che ho fatto. E non ho nulla da concedere a niente. Niente bonarietà. Niente addolcimenti. Le cose stanno così. È inutile nasconderlo, anche poco.
Tempo, n. 1 a. XXXI, 4 gennaio 1969
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Altre riflessioni di Pasolini sul Natale
Sono gli ultimi giorni dell’anno. Il benessere
accende, verso sera, in tutti gli uomini
una specie di follia: la smania inespressa
di essere più felici di quanto siano …
È sempre una speranza che dà pietà: anche
il piccolo borghese più cieco ha ragione
di averla, di tremarne: c’è un istante
in cui anch’egli infine vive di passione.
E tutta la capitale di questo povero paese
è un solo ansito di macchine, una corsa
angosciata verso le antiche spese
di Natale, come a una necessità risorta.
Potente luce di Luglio, ritorna, oscura
questo debole crepuscolo di pace,
che non è pace, questo conforto ch’è paura:
ridà parole al dolore che tace.
Manda i cadaveri ancora insanguinati
dei ragazzi che hai illuminato potente:
che vengano qui, tra questi riconsolati
benpensanti, tra questa dimentica gente.
Vengano, con dietro il tuo chiarore di piazze
fatte campi di battaglia o cimiteri,
tra queste ciniche chiese dove la razza
dei servi torna alla sua viltà di ieri.
Vengano tra noi, a cui non è rimasta
che la speranza di una lotta che dispera:
non c’è più luce di Natale, o di Pasqua.
Tu, sei la luce, ormai, dell’Italia vera.
—Pier Paolo Pasolini
L’Unità n. 3 a. XVI, 21 gennaio 1961
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Le ragioni della pietà.
Egregio signore, in questo giorno, di tanta gioia e tanta commozione per il cuore di ogni cristiano, non posso fare a meno di farle conoscere tutta l’amarezza, tutto il dolore e in un primo tempo lo sdegno, che un suo scritto suscitò nel mio animo. Io non sono colta, non sono iscritta a nessuna associazione. Sono una semplice donna, che vive la sua vita di lavoro, di preoccupazioni, di sofferenze: sempre serena perché, una grande fede, dà forza al mio animo e mi dice che la nostra vita, non finisce con la morte del corpo. Qualche mese fa, l’ortolano mi involse della verdura in una pagina di giornale. Non leggo mai nulla, perché non ne ho il tempo, ma quel giorno, posai gli occhi, sugli ultimi versi di una sua poesia: “Vengono tra noi, a cui non è rimasta che la speranza di una lotta che dispera: non c’è più luce di Natale, o di Pasqua. Tu, sei la luce, ormai, dell’ Italia vera.” Forse non avrò interpretato bene i suoi versi (e vorrei fosse così) perché è tanto grande la pena che lei mi fa. Ho un figlio di 22 anni e penso quanto sarebbe grande il mio dolore se egli avesse i suoi sentimenti. Proprio oggi mi sono ripetuta: Il Natale e La Resurrezione del Manzoni, poesie studiate quando ero quasi una bambina. Ho pianto di gioia e di commozione ringraziando il Signore, perché c’è ancora tanta gente che sente, tutta, la grandiosa potenza della luce di Natale e di Pasqua!
Lettera di una lettrice a P.P.Pasolini, aprile 1961.
La risposta di Pasolini:
Ognuno ha una sua luce, e, poiché questa luce è irrazionale, indistinta, mistica, senza limiti, cioè, psicologici e storici, ognuno tende a dare a questa luce una forma. Per lei, la forma della sua luce sono Natale e Pasqua, in quanto feste cristiane: per me non lo sono più. Io ho molto più tempo di lei per pensare a queste cose: anzi, pensare a queste cose è il mio mestiere. Anch’io da ragazzo ho letto Il Natale e La Risurrezione del Manzoni: ma poi ci ho pensato e ripensato. Se le rileggo non le trovo più uguali ad allora. Non sono quella che Proust chiama una intermittences du coeur. Il cattolicesimo del Manzoni è un fatto storico molto più complesso e profondo di quello che lei ingenuamente crede, esso è stato non è. Ogni cosa si muove col muoversi della storia. Non esistono delle cose immobili: neanche le poesie sono immobili, esse che sembrano superbamente collocarsi al di là del tempo …
Per il Manzoni il cattolicesimo era una ideologia che, nel suo particolare momento storico, nella sua particolare psicologia, era un elemento di equilibrio: e, nella sua componente liberale, era anche progressivo. Ora, coloro che insegnano a scuola ad amare il cattolicesimo del Manzoni e il cattolicesimo tout court non sono in nessun modo degli illuminati: sono dei reazionari. La luce che essi propongono ai loro fedeli sotto forma di rito religioso (Natale, Pasqua ecc.) è una luce che serve ad accecare. Non c’è più una scintilla sola dello spirito di Cristo nei Natali della operazione-panettoni e nelle Pasque della operazione-colombe. Il Monopolio e la Chiesa sono strettamente uniti. Ogni spirito religioso non può non sentirsene profondamente offeso. E quindi non cercare altrove la sua luce. Per me non c’è niente di più simile allo spirito evangelico dei morti di Luglio, e di tutti gli altri umili morti che hanno lottato per un più vero rapporto religioso fra gli uomini. Il Natale e la Pasqua sono state antiche feste religiose pagane (la nascita del sole e l’avvento della primavera) piene di rozzo, mitico spirito religioso: si sono poi trasfuse nelle feste cristiane portando la loro antica ingenuità nella nuova insegnata da Cristo. Ma dopo la Controriforma e nell’attuale momento storico, non c’è niente di più prosaico, ipocrita, conformista dello spirito impresso dal clero a simili occasioni d’amore.
Qui le scrivo in modo molto elementare: il problema è infinitamente più complesso. Ma voglio essere inteso in modo elementare. Se poi lei volesse conoscere le mie più interne ragioni, legga il mio libro di versi che deve uscire entro la primavera, e che si intitola appunto La religione del mio tempo: visto che il mio caso personale la interessa con tanta pietas. Ma lei intanto esamini e osservi bene questa sua pietas; forse, con un po’ di coraggio, potrà intravedere quanta viltà, quanta pigrizia e quanto narcisismo essa contiene: o almeno quanta retorica.