Perché votare PD non è più un atto di sinistra

La sinistra italiana appoggia guerre e neoliberismo, tradendo i lavoratori. L'opposizione è finta e la destra vince grazie al vuoto di credibilità.

di Alberto Piroddi

C’è un fenomeno curioso che si ripete in questo Paese: l’Italia continua a definirsi una democrazia, a invocare il valore del voto e a parlare di ideali di sinistra, mentre chi vota e sostiene certe forze politiche si rifiuta di vedere l’elefante nella stanza. Una sinistra che sostiene le guerre, che invia armi, che applaude gli imperialismi altrui, può essere definita tale? È forse più onesto chiamarla per quello che è: un’operazione di maquillage della vecchia, cara DC travestita da paladina dei diritti civili.

Perché di civiltà si può parlare finché si vuole, ma la realtà è un’altra. Se appoggi l’invio di armi in Ucraina, se spalleggi Israele mentre rade al suolo Gaza con la stessa delicatezza con cui un rullo compressore schiaccia le formiche, non sei di sinistra. Punto. Puoi urlare quanto vuoi, puoi citare Berlinguer, puoi aggrapparti al feticcio della Resistenza. Ma se il tuo partito si schiera con chi massacra civili, è inutile illudersi. Il tuo partito non è di sinistra. È solo un’altra declinazione del neoliberismo in doppiopetto, un altro tassello nella scacchiera delle élite finanziarie e delle strategie geopolitiche decise a Washington o Bruxelles.

Qualcuno dirà che è una semplificazione, che il mondo è complesso e non esistono più le categorie di una volta. Eppure è tutto chiaro per chi ha occhi per vedere. Non serve un’analisi geopolitica per capire che i partiti che votano per Raffaele Fitto in Europa non hanno nulla a che fare con il proletariato o con la difesa dei più deboli. Fitto è l’ennesimo soldato di ventura dei conservatori europei, ma questo non sembra turbare i sedicenti progressisti di casa nostra, pronti a digerire qualsiasi compromesso pur di non disturbare i padroni dell’austerità.

Inutile poi parlare della presenza dei renziani nelle fila di certi partiti. Ogni riferimento a Pina Picierno è tutt’altro che casuale. Il renzismo è l’apoteosi del trasformismo, un morbo che ha corrotto ogni residuo di ideologia e coerenza politica. I renziani sono i sacerdoti del mercato libero, della flessibilità, del jobs act. Sono i becchini dei diritti dei lavoratori, gli stessi che hanno reso possibile la svendita dell’Italia pezzo per pezzo, mentre i loro compari in Europa ci imponevano manovre lacrime e sangue. Eppure, eccoli ancora lì, imbullonati nei partiti che dovrebbero rappresentare la sinistra. Ma se il renzismo è ancora ben saldo nei gangli del potere, se sopravvive sotto mentite spoglie, allora è chiaro che quella sinistra non esiste più. È stata sostituita da una congrega di democristiani con l’elmetto, sempre pronti a guerreggiare in nome della libertà – degli altri, ovviamente.

Non si salva nessuno. Chiunque continui a credere nella favola di una sinistra che vince nei municipi o nelle regioni dovrebbe fermarsi un attimo e guardare il quadro generale. L’opposizione in questo Paese non è credibile perché è un’opposizione di facciata. Una recita malriuscita in cui gli attori fingono di scontrarsi, ma alla fine si siedono allo stesso tavolo per spartirsi la torta. La destra vince non perché è forte, ma perché dall’altra parte c’è il vuoto cosmico. La destra non ha bisogno di sforzarsi, le basta raccogliere i frutti dell’ipocrisia altrui.

Non c’è da sorprendersi se metà del Paese resta a casa il giorno delle elezioni. Gli astensionisti non sono una massa di ignoranti lobotomizzati dal Grande Fratello o dai giornali di regime. Sono persone che hanno capito l’inganno, che non si sentono rappresentate da nessuno. Perché dovrebbero andare a votare quando sanno che il risultato sarà lo stesso? Che vinca la destra o la sinistra, le politiche resteranno identiche: tagli alla spesa pubblica, precarizzazione del lavoro, obbedienza cieca alle direttive europee. E mentre i lavoratori vengono lasciati al loro destino, le multinazionali ringraziano e si preparano a incassare l’ennesimo regalo confezionato dal governo di turno.

Questa non è sinistra, è neoliberismo con una spolverata di retorica sociale. È il tradimento sistematico di chi un tempo rappresentava le fabbriche, i disoccupati, gli studenti. È una sinistra che parla di diritti civili mentre smantella i diritti sociali, che organizza manifestazioni contro il patriarcato ma non muove un dito per fermare lo sfruttamento nei campi di pomodori. Una sinistra che si commuove per Greta Thunberg ma poi vota per i gasdotti e per le trivelle. E quando qualcuno osa mettere in discussione questa narrazione, parte immediatamente la macchina del fango. Chi si permette di criticare viene etichettato come populista, sovranista, complottista. Ma la verità è un’altra: chi non si allinea, chi osa svelare l’inganno, viene semplicemente messo a tacere.

Il problema è che molti non hanno ancora capito che la politica non è un gioco. Non è un teatrino in cui tifare per la propria squadra. È una questione di vita o di morte per milioni di persone che non arrivano a fine mese, che vedono i propri diritti calpestati, che assistono impotenti al saccheggio delle risorse pubbliche. Per cambiare davvero questo Paese, bisogna smetterla di fare il tifo e iniziare a guardare la realtà per quella che è. E la realtà è che l’unica vera opposizione è quella che parte dal basso, dalle piazze, dalle comunità. Non dai salotti televisivi o dai convegni internazionali.

E forse è proprio questo il motivo per cui Alessandro Di Battista continua a essere una spina nel fianco del sistema. Perché è uno dei pochi che non ha mai smesso di stare tra la gente, di parlare con i cittadini, di denunciare l’ipocrisia dei partiti. Ma anche lui da solo non può bastare. Serve un movimento di giovani incazzati, di persone stanche di essere prese in giro, di cittadini disposti a lottare per un Paese diverso. Un Paese dove la sanità sia un diritto, non un lusso. Dove la casa sia garantita a tutti, non solo a chi può permettersi di pagare mutui esorbitanti. Dove chi evade le tasse venga perseguito, non premiato. Dove il lavoro sia dignitoso, non una condanna a vita.

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