Basta pronunciare la parola “Libia” e, come per magia, ecco spuntare Marco Minniti. Non importa se l’hai scritta in corpo otto nell’angolo più remoto di un giornale o mormorata distrattamente in un talk show di terza serata: lui arriva. Preciso, puntuale, con quell’aria da tecnico che spiega il mondo ai comuni mortali. L’ex ministro dell’Interno del governo Gentiloni – sostenuto dal PD, dai reduci di Alfano e da qualche rottame renziano – è diventato la cassandra ufficiale della geopolitica mediterranea, il profeta della “sicurezza nazionale”.
E infatti, mentre esplode il caso Almasri – il torturatore libico coccolato dal governo italiano, arrestato, liberato e sparito – Minniti si schiarisce la voce e, con la solennità di chi ha scoperto l’acqua calda, ammonisce: “Attaccare il governo è un errore, la questione è più ampia”. Poi passa all’illuminazione successiva: “La Libia è strategica”. Grazie, maestro. Seguono le solite perle: “La sicurezza nazionale si gioca fuori dai confini”, “l’Africa è il principale incubatore di terrorismo”, “la Libia è la base avanzata dei trafficanti di esseri umani”. Meloni prende appunti con gli occhi a cuoricino: stessa retorica, stessa ipocrisia, stesso cinismo, solo con una voce più autorevole a darle il crisma dell’“analisi lucida”.
D’altra parte, Minniti è quello che nel 2017 firmò il famigerato memorandum Italia-Libia, lo stesso che da otto anni alimenta il più sanguinoso business sulla pelle di migliaia di disperati trasformati in merce da esportazione, da scambiare, da torturare. L’Italia, grazie a lui, ha preso un intero popolo e l’ha consegnato nelle mani di bande di criminali, finanziati a suon di milioni, con l’alibi del “contrasto all’immigrazione clandestina”. Con la sua brillante intuizione, i lager libici sono diventati la dogana non ufficiale dell’Europa: lager riconosciuti, sovvenzionati e persino difesi nelle sedi internazionali come un “modello di contenimento”. Un genocidio a bassa intensità che si perpetua con la benedizione bipartisan di governi di destra e di sinistra.
E oggi, mentre l’inferno libico continua indisturbato, Minniti pontifica ancora sul fatto che “lo Stato non è una ONG” e che “dobbiamo abituarci alla guerra del bene contro il bene”. Traduzione: il governo italiano può tranquillamente finanziare torturatori e stupratori di migranti senza sentirsi in colpa, perché l’importante è il fine, non i mezzi. E lui, Minniti, resta lì a dispensare le sue lezioni, accolto come un oracolo da chi dovrebbe piuttosto interrogarsi su quale sia la vera emergenza di sicurezza nazionale.
Forse la questione di sicurezza nazionale non è la Libia. È Minniti. E noi, purtroppo, ce ne siamo dimenticati troppo in fretta.