Lucio Corsi, il marziano che la musica italiana non sapeva di aspettare

Lucio Corsi incanta con talento e poesia, tra memoria, stupore e tecnica. Un alieno nella musica italiana, un artista vero di cui avevamo bisogno.

di Lorenzo Tosa

Ieri sera Lucio Corsi è andato a “Che tempo che fa” e ha dato una dimostrazione pratica e intellettuale del perché la sua canzone e il suo modo di intendere l’arte e la musica sono stati così amati.

E, che ci crediate o meno, non è per l’eccentricità e la retorica pigra del “genio e sregolatezza” fuori dal mondo che vorrebbero appiccicargli addosso. Anzi, semmai, il suo esatto contrario. Lucio Corsi ci ha dato una lezione molto più profonda e alla portata di tutti, in qualunque ambito: che anche il momento creativo più alto è fatto, come diceva Hemingway, all’1% di ispirazione e al 99% di traspirazione, cioè impegno, fatica, sacrifici, tecnica, metodo, che nel suo caso è un pianoforte.

C’è l’omaggio ai grandi che l’hanno preceduto, da Ivan Graziani a Dalla, a Paolo Conte. La paura come spinta all’arte. Lo stupore come slancio. La memoria delle cose inventate, da realismo magico. La timidezza con cui si schermisce davanti ai troppi complimenti.

E poi, dal nulla, perle di poesia come gli aironi “angeli custodi dei trattori”, e le televisioni del passato che erano spesse perché c’era più spazio per la fantasia.

In un tempo in cui siamo invasi da eghi strabordanti, violenza del gossip, faide per collane da 70mila euro, Lucio è un abbaglio improvviso, un alieno nella monocoltura musicale discografica italiana, un marziano umano troppo umano.

Facciamo che non passi con Sanremo, che ci ricorderemo di Lucio Corsi come artista, di cosa sia e cosa può essere davvero, ancora, un ARTISTA.

Di quanto ne avevamo bisogno, e non lo sapevamo.

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