Le scelte coreografiche della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi hanno suscitato critiche per la loro natura provocatoria e offensiva. La questione non è tanto la natura delle provocazioni, quanto il contesto in cui sono state presentate, mancando di rispetto verso le diverse culture e sensibilità globali. Tentare di educare attraverso provocazioni risulta controproducente, consolidando invece le resistenze culturali. La vera preoccupazione risiede nel decadimento culturale dell’Occidente, evidente nel contrasto con la maestosità delle cerimonie di apertura passate, come quella di Pechino 2008, che incarnavano una civiltà con una visione positiva del futuro. Oggi, invece, la cultura occidentale appare esaurita, incapace di produrre significato e destinata alla decadenza, simile a un adolescente ribelle ma privo di profondità.
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di Andrea Zhok
Intorno alle scelte coreografiche della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi si è già detto e scritto molto. E tuttavia ho l’impressione che il tema non sia stato inquadrato in maniera ben centrata.
L’argomento centrale che è stato sollevato dai critici mette in particolare rilievo l’aspetto offensivo, lesivo dei costumi morali e delle credenze religiose altrui. E non c’è dubbio che qui vi siano stati elementi degni di contestazione. Questo non tanto per la natura delle espressioni – pochi oggi si scioccano per provocazioni grottesche come la drag queen barbuta che si affaticava in divincolamenti vari per apparire sessualmente sfidante. Non la natura delle manifestazioni, ma il CONTESTO in cui sono state proposte, ha un carattere oggettivamente offensivo.
Trattandosi dell’inaugurazione di una manifestazione sportiva mondiale, che abbraccia paesi di ogni continente ed emisfero, di culture e sensibilità differenti, mettere in scena qualcosa il cui unico senso possibile – nella più benevola delle interpretazioni – era quello di una “provocazione culturale” era intrinsecamente inappropriato. E sarebbe dovuto risultare fuori luogo a chiunque, quali che fossero le proprie convinzioni, nel momento in cui avesse preso sul serio la dignità di culture diverse dalla propria. Anche ammettendo che quelle sceneggiate fossero “rappresentative della propria cultura”, non si capisce esattamente a che titolo un paese ospitante dell’evento olimpico debba sentirsi in diritto di impartire “provocazioni” per “educare gli altri all’emancipazione” (ammettendo che questa sia l’idea che abbia attraversato l’open space in cui risiede comodamente il cervello degli organizzatori.)
Peraltro, – continuando nella sforzo di un’interpretazione benevola – se l’idea fosse stata quella di “indurre ripensamenti nei paesi meno emancipati attraverso delle provocazioni”, francamente mi chiedo se qualcuno si sia posto il problema della “ricezione del messaggio”. Se, per dire, si voleva “stimolare un ripensamento” in qualcuno come la rappresentanza del Sudan (dove mi risulta esistere una legislazione intollerante nei confronti dell’omosessualità), esattamente chi è quel genio della comunicazione che ha pensato che promuovere in mondovisione provocazioni postribolari, tipo la simpatica drag queen barbuta, avrebbe fatto guadagnare punti presso il pubblico sudanese ad un atteggiamento di normalizzazione delle “disposizioni non ortodosse”? Non so, ma a me pare che l’unico risultato ottenibile attraverso quella provocazioni, può essere stato soltanto quello di consolidare nei paesi meno tolleranti le ragioni degli intolleranti; sbaglierò, ma temo che il sudanese medio, dopo aver visto le sceneggiate parigine sarà semmai un po’ più propenso di prima a rigettare tutto ciò che odora di libertarismo occidentale.
Quindi, sì, ci sono state buone ragioni per ritenere che quelle scelte coreografiche siano state offensive: non solo offensive nei confronti di credenze religiose altrui, ma più in generale offensive per l’atteggiamento di mancanza di rispetto che trasuda in chi vuole farti lezioncine morali a colpi di “provocazioni”.
E tuttavia non mi pare che sia questo il cuore problematico di ciò che abbiamo visto l’altro giorno a Parigi.
Nell’odierna atmosfera “politicamente corretta” le regole del gioco tendono in effetti ad incentivare l’atteggiamento di “offesa risentita”. È tutta una gara a chi si sente più offeso, più ferito nella propria sensibilità, e praticamente l’unico modo per legittimare un discorso pubblico è oramai quello di presentarsi come vittima vulnerabile di un attacco altrui.
È per questo motivo che si è spinto molto, sin dal primo momento, il tasto dell’offensività ai credenti rappresentata dalla “parodia dell’Ultima Cena”. Perché così si poteva giocare a carte invertite il gioco del politicamente corretto: “Ecco, questa volta è la mia sensibilità di credente ad essere toccata!”
Ma si tratta di una difesa oramai molto fragile nel mondo occidentale. Dopo tutto chi crede che la Chiesa odierna possa percepirsi davvero offesa da alcunché sul piano rappresentativo? E in effetti il Vaticano ha borbottato una protesta a mezza bocca, perché dopo tutto sa benissimo di avere oggi, come “detentrice di un credo forte”, una credibilità bassina. Credenze annacquate in una cornice di costumi annacquati e con una tradizione sempre più incerta non possono recitare facilmente il ruolo della Dignità Spirituale Offesa.
Dunque, in generale, io non batterei il tasto sulla questione dell’Offesa alle Credenze Altrui, che pure visto il contesto ci sono state. E non credo che sia il caso di giocare a parti invertite lo stesso gioco del politicamente corretto, chiedendo sanzioni, censure, e simili. A me va benissimo che un creativo di regime sia libero di fare l’ennesima stanca parodia dell’Ultima Cena, purché gli si possa con altrettanta libertà dire che è, tecnicamente, un mentecatto.
A mio modesto e trascurabile avviso, ad essere particolarmente preoccupante è un’altra cosa. Non il tema di chi ha più o meno diritto a sentirsi offeso – per quanto la mancanza di rispetto culturale sia stata evidente. Ciò che io trovo tragico è che una tale grottesca rappresentazione sia stata escogitata, e poi anche difesa, come una legittima autorappresentazione culturale dell’Occidente. Non solo è parso ad un gruppo di persone, si presume colte, dell’establishment culturale francese pensare che una tale pila di spazzatura potesse essere un’operazione culturalmente commendevole, ma moltissimi altri rappresentanti della cultura francese ed europea hanno ritenuto che una cosa del genere fosse “una originale provocazione”, uno “stimolo a pensare”, una “espressione di libertà”, una “sfida al conservatorismo”, ecc. ecc.
Senza tante parole, basta mettere una accanto all’altra la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino 2008 con la cerimonia di Parigi 2024 per vedere plasticamente il contrasto tra una cultura in fase ascendente ed una in fase decadente.
Nella prima spettacolarità, grazia, cura, coralità, precisione, originalità, potenza si fondevano nell’autorappresentazione di una nazione che percepisce di avere un futuro ricco di possibilità davanti a sé. Nella seconda troviamo grottesche provocazioncelle da liceali e imprestiti dalla cultura pop più commerciale, che segnalano una cultura enervata, esaurita, che cerca di sollecitare artificialmente i propri nervi stanchi e ammanta la propria impotenza creativa di “libertà dai condizionamenti”.
Nelle ore in cui si svolgeva la cerimonia d’apertura a Parigi mi trovavo ad Orvieto, a visitarne il meraviglioso Duomo, costruito nell’arco di 3 secoli (1290-1591). Un progetto secolare non è né nel mondo antico, né nel Medioevo un caso isolato. Molto del nostro patrimonio architettonico storico è frutto di un lavoro secolare, che coinvolgeva in un’unità d’intenti generazioni di artisti, politici, mecenati. E chi ne esplora l’incredibile ricchezza, la straordinaria cura, l’attenzione al messaggio, la quasi soprannaturale capacità di esprimere e mantenere il gusto estetico, chi nota tutto questo vede i segni di una civiltà che era in grado di creare per i secoli, di preparare case e radici per le generazioni a venire, sentendosi intanto erede di un passato profondo.
Noi, abitanti dell’Occidente contemporaneo, abbiamo invece la patetica presunzione di guardare a quel passato dall’alto verso il basso, pensando che vivere in un mondo in cui c’è la penicillina ci renda automaticamente un’umanità migliore. L’atteggiamento culturale che si manifesta in eventi come la cerimonia di Parigi, è l’analogo dell’atteggiamento di un medio adolescente disagiato, che pensa che libertà sia qualcosa come “dire le parolacce” e ridacchiare di tutto ciò che non si capisce (cioè, più o meno, di tutto senza resti). Questa cultura e civiltà, che lo sappia o meno, è in caduta libera e destinata a sparire, per essere rimpiazzata da forme di vita più strutturate, probabilmente non autoctone. Ciò che ci resta – per chi ne è ancora capace – è forse solo fare come i monaci benedettini: dedicandosi a preservare il meglio di una civiltà – che pure ha prodotto cose importanti – per generazioni future capace di riesumarle e rivitalizzarle.