Che l’elogio della guerra, e soprattutto del guerriero, me lo faccia Ernst Jünger mi sta anche bene: perché Jünger ha avuto la decenza di scappare di casa per arruolarsi nella Legione Straniera (con tanto di babbo che se lo va a riprendere e lo mette in collegio, così impara), di arruolarsi volontario il 1 agosto 1914, ossia il giorno in cui la Germania entra in guerra, di combattere dal 1914 al 1918 nelle truppe d’assalto, non in fureria, venendo ferito 14 volte e finendo il conflitto col grado di tenente, la Croce di ferro di prima classe e la “Pour le Mérite”, raramente concessa alla fanteria.
E intanto si dedicava all’entomologia, scriveva 15 volumi di diari di guerra, a guerra finita scriveva un attimo “In Stahlgewittern” e altre belle cose, litigava coi nazisti perché secondo lui erano troppo molli, si avvicinava al nazionalbolscevismo, veniva chiamato “rinnegato dei traditori ebrei” da Goebbels, perché l’antisemitismo e il discorso razziale non gli interessavano, rompeva definitivamente e pubblicamente coi nazisti strafregandosene delle conseguenze (figuriamoci uno che aveva fatto incursioni una notte sì e una notte no nelle trincee francesi per 4 anni, tranne le pause in ospedale, che paura poteva avere della Gestapo), torna in uniforme nel 1939 e dopo la campagna di Francia si piazza all’Hotel Raphael di Parigi facendo il dandy e trescando con la resistenza, tanto da venire alla fine congedato nel settembre 1944 come “indegno del servizio militare” ma ovviamente, perché abbiamo capito che tipo era, si rifiuta di presentarsi come antinazista alle commissioni alleate del dopoguerra, eccetera.
Dicevo, se l’elogio della guerra e del guerriero me lo fa Jünger, me lo tengo. Se me lo fa Scurati (articolo pubblicato oggi su Repubblica col bel titolo “Dove sono ormai i guerrieri d’Europa”), anche se certo non è proprio un elogio della guerra in senso stretto, più una nostalgia, un languore, un vulìo come dicono dalle mie parti, perché prima dici che è bello non far più guerre ma poi mi parli dei guerrieri europei del passato “feroci, formidabili, orgogliosi e vittoriosi”, e della guerra come “l’esperienza plenaria, l’accadimento fatidico, il momento della verità”, scimmiottando appunto Jünger che citi pure direttamente, un po’ ci resto male.
Francesco Dall’Aglio
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Dove sono ormai i guerrieri d’Europa?
Dopo aver plasmato per secoli il continente sui campi di battaglia, tra le macerie di due carneficine mondiali abbiamo costruito ottant’anni di pace, welfare, benessere.
Non siamo disposti a tornare indietro.
A meno che la nostra civiltà non sia a rischio.
di Antonio Scurati
Chi combatterà le nostre prossime guerre? Anzi, meglio: chi combatterà al nostro posto le nostre prossime guerre? L’interrogativo aleggiava su di noi da molto tempo – ignorato, respinto, rimosso – ma è diventato assillante dopo il tradimento di Donald Trump. Perché su questo punto non debbono esserci dubbi: il 47esimo Presidente degli Stati Uniti d’America è un traditore degli amici, degli alleati e, soprattutto, dei valori secolari della sua nazione.
Si discute oramai quotidianamente della necessità di una “difesa comune europea”, di aumentare gli investimenti in spese militari, perfino della possibilità che vengano schierati nostri soldati lungo il confine insanguinato tra Russia e Ucraina. Si dibattono i problemi che ostacolano il raggiungimento di un’autonomia, se non di una impossibile indipendenza, nella difesa militare dell’Europa da eventuali, future aggressioni, purtroppo sempre più verosimili (e già in atto). Gli ostacoli sono tanti, enormi e diversi: sono di natura militare-industriale, economica, tecnologica, di natura strategica, sono, soprattutto, di natura politica.
Questo dibattito, pur necessario, si ostina però a ignorare la principale carenza europea rispetto alla possibilità di combattere autonomamente una guerra difensiva: la mancanza di guerrieri. Come, purtroppo, le recenti carneficine ucraine (e mediorientali) hanno tragicamente dimostrato, anche le guerre tecnologicamente più evolute necessitano di guerrieri. E noi europei d’Occidente non li abbiamo, non lo siamo, non lo siamo più.
Non mi riferisco qui soltanto alla penuria di soldati operativi, pur grave: la difesa del confine ucraino richiederebbe il dispiegamento di 200 mila soldati, ma la Ue sarebbe in grado di schierarne soltanto 60 mila su tre turni da 20 mila. Mi riferisco alla svanita combattività di popoli da otto decenni pacificati, demograficamente invecchiati e profondamente gentrificati. Per fare la guerra, anche soltanto una guerra difensiva, c’è bisogno di armi adeguate ma resta, ostinato, intrattabile, terribile, anche il bisogno di giovani uomini (e di donne, se volete) capaci, pronti e disposti a usarle. Vale a dire di uomini risoluti a uccidere e a morire. Il dato utile a misurare la nostra inettitudine a questo compito non è quello degli organici nominali dei nostri eserciti. È il conto dei morti: stime attendibili calcolano che nei tre anni di conflitto in Ucraina siano caduti circa 300 mila combattenti e ne siano rimasti feriti, spesso gravemente, tre volte tanti. Quasi l’intera popolazione di Milano falciata dalla guerra.
In Ucraina il numero di morti e feriti equivale agli abitanti di Milano. Per noi è inimmaginabile.
Riuscite a immaginarlo? No, non riusciamo nemmeno a immaginarlo. Va addirittura al di là della nostra immaginazione proprio perché non siamo più dei guerrieri. Che fine hanno fatto tutti quei soldati? Se lo chiedeva James Sheehan in un libro nel quale indagava la trasformazione dell’Europa da devastato campo di battaglia in società prospera e pacifica che ha dirottato tutte le sue risorse materiali e morali dal warfare al welfare. La formulazione più esatta della domanda suonerebbe, però, così: che fine hanno fatto tutti quei guerrieri?
Nella nostra millenaria vicenda, la guerra non è stata, infatti, soltanto un mestiere, una tragica costante, uno strumento di potere, è stata l’arte (il complesso di tecniche, metodi, invenzioni e talenti) che ha mosso la storia d’Europa e, all’unisono, la narrativa che ha definito l’identità degli europei. Nei secoli questa nostra terra è stato uno scoglio euroasiatico popolato di guerrieri feroci, formidabili, orgogliosi e vittoriosi. Di tutte le invenzioni europee che hanno plasmato il mondo moderno, quelle in campo bellico – tecnologiche, tattiche e culturali – sono state probabilmente le più efficaci e influenti.
Ma la guerra dei nostri antenati europei non è stata solo il dominio della forza, è stato anche il luogo di genesi del sé: da Maratona al Piave gli europei hanno combattuto (e vissuto) fedeli a come si aspettavano che la loro battaglia (e vita) sarebbe stata narrata. Da Omero a Ernst Jünger la nostra civiltà ha pensato il combattimento armato frontale, micidiale e decisivo addirittura come proprio fondamento perché nella guerra eroica ha trovato l’esperienza plenaria, l’accadimento fatidico, il momento della verità nel quale si sono generate le forme della politica, i valori della società, si sono decisi i destini individuali e collettivi.
Per i nostri antenati non è stato solo dominio militare, ma genesi del senso
L’apocalisse in due tempi delle guerre mondiali ha estirpato questa tradizione millenaria. La rottura con essa è stata a sua volta radicale e violenta. Già con l’annichilente esperienza delle trincee nella Grande Guerra, per la prima volta in millenni di storia, i concetti di gloria, onore, coraggio persero ogni significato quando l’uomo europeo giunse alla conclusione che non c’era niente al mondo per cui valesse la pena di morire. Improvvisamente, come scrisse Blaise Cendrars, «Dio era assente dai campi di battaglia».
Nacque allora il romanzo pacifista, una novità assoluta nel panorama delle creazioni umane. L’ecatombe della Seconda guerra mondiale, scatenata dal rigurgito bellicista dei fascismi, scavò ancora più in profondità e in modo definitivo questo fossato che ci divide dalla nostra storia atavica. Ne conseguì un mutamento addirittura antropologico, a livello profondo delle strutture dell’esperienza umana e dell’organizzazione sociale. La rivelazione ultima dell’insensatezza bellica impresse nella nostra coscienza il marchio di una riluttanza ironica, di un malinconico disincanto del mondo.
Non fu solo decadenza. Fu un balzo di civiltà. Le grandi conquiste europee, e solo europee, del secondo dopoguerra (il diritto alla salute e all’istruzione per tutti, il superamento di maschilismo e razzismo, lo sviluppo di una coscienza pacifista e ambientalista, solo per citarne alcune), scandiscono questo nostro avanzare regressivo verso forme di vita che estendano a ogni età le cure amorevoli riservate all’infanzia o, addirittura, i privilegi embrionali di protezione e nutrimento. Questa è la civiltà: il grande utero esterno. È così che si diventa umani: lasciando fuori la durezza ma mettendola di sentinella alla porta.
Ripudiando la guerra, non siamo solo diventati imbelli, siamo diventati migliori. Ce lo ricorda e conferma l’osceno spettacolo della spregevole brutalità esibito in queste ore in mondovisione dal Presidente degli Stati Uniti d’America. Al suo cospetto viviamo un momento di alta chiarificazione esistenziale, ritroviamo la fierezza di essere europei, di non essere come lui.
Resta il fatto che non siamo più dei guerrieri. Il pacifismo è stata una rivoluzione culturale, e va meditato, rispettato ma non potrà mai diventare una piattaforma politica. Per tutti questi motivi, l’imminente ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, acquisito una volta e per tutte il ripudio di ogni guerra aggressiva, nazionalista, imperialista, dovrebbe essere un passaggio cruciale affinché l’Europa ritrovi lo spirito combattivo e, con esso, il senso della lotta.
Fummo allora, noi europei d’Occidente, per l’ultima volta guerrieri. La Resistenza antifascista ci ricorda perché ripudiammo la guerra ma ci insegna anche le ragioni per prepararci, se necessario, a combatterla.
Repubblica, 4 marzo 2025