La Casa Bianca Studios

di Francesca Vettori Eh, ma certo, perché uno pensa che l’America sia il Paese delle opportunità, il faro della democrazia, il laboratorio del futuro, e invece si ritrova in un...

di Francesca Vettori

Eh, ma certo, perché uno pensa che l’America sia il Paese delle opportunità, il faro della democrazia, il laboratorio del futuro, e invece si ritrova in un set cinematografico a metà strada tra Top Gun, Mad Max e Starship Troopers. E chi è la protagonista di questo blockbuster distopico? Kristi Noem, classe 1971, governatrice del South Dakota, ora assurta al ruolo di ministra della Sicurezza della Patria nell’armata trumpiana del secondo tempo. Un ruolo che non ha nulla a che vedere con la sicurezza nazionale, perché di nazionale in America è rimasto giusto il nome delle squadre sportive, visto che tutto il resto è privatizzato, smembrato, venduto al miglior offerente.

E allora, perché Kristi Noem conta? Perché non è solo una ministra, è un prodotto di questa nuova stagione della politica americana, quella che ha capito che il potere non passa più per le stanze ovali e le conferenze stampa, ma per il feed dei social, per il like compulsivo, per il video da trenta secondi che ti racconta una verità prefabbricata, pronta all’uso, servita calda sul piatto della pancia dell’elettorato. Chi sono i nemici? I messicani. Cosa fanno? Invadono. Chi li ferma? Lei, la cowgirl con lo stivale impolverato e la fondina carica, pronta a ricacciare oltre il confine orde di clandestini trasformati per magia retorica in “invasori”. E non è sola.

Nel cast stellare di questo colossal trumpiano c’è Peter Hegseth, ministro della Difesa, classe 1980, reduce delle guerre americane post-11 settembre, che non fa il ministro ma l’attore protagonista: lo vedi in elicottero, con la tuta mimetica e il cappellino MAGA, versione moderna del comandante supremo che guida i suoi soldati alla vittoria. Solo che qui non ci sono guerre reali, ci sono campagne mediatiche, ci sono immagini che devono rafforzare il mito di un’America assediata, che solo loro possono salvare. Non serve che sia vero, basta che sia virale.

E poi c’è la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, che parla come parla. No, non è una frase senza senso. È proprio così: parla come parla, con un linguaggio studiato per essere incomprensibile per chi è nato prima di Instagram, ma perfettamente digeribile per chi è stato svezzato a meme e TikTok. Lei e il direttore della comunicazione, Steven Cheung, non fanno informazione: fanno dominio a spettro completo. Non lo dico io, lo dicono loro. La Casa Bianca non si limita a rispondere ai giornalisti, li scavalca, li umilia, li cancella. Perché perdere tempo con CNN o il New York Times quando puoi parlare direttamente a milioni di follower su X e Truth Social?

Non c’è più il potere che usa la comunicazione. C’è la comunicazione che è il potere. Una macchina che lavora giorno e notte per sfornare contenuti correlati alle notizie, che non vuol dire raccontare i fatti, ma crearne di nuovi, che sembrino veri il tempo necessario per incastonarsi nella mente del pubblico, prima di essere sostituiti dalla successiva dose di adrenalina digitale.

E allora uno si chiede: qual è il limite? Dove finisce la propaganda e inizia la realtà? La risposta è che non c’è più distinzione. La politica di Trump non è una politica: è un set narrativo, con personaggi, colonna sonora e cliffhanger da stagione successiva. Il confine tra il mondo reale e quello immaginario è stato smantellato, pezzo per pezzo, in favore di una narrazione totale, in cui le parole contano solo se creano engagement, i fatti esistono solo se possono essere montati in un reel da 30 secondi, e il giornalismo, quello vero, è diventato un mestiere archeologico, da paleontologi del pensiero.

Potrei dirvi che tutto questo mi fa paura. Ed è vero. Potrei anche dirvi che mi affascina. Ed è altrettanto vero. Perché siamo davanti a qualcosa che non abbiamo mai visto prima: non una dittatura, non un regime autoritario, ma una forma di potere che non ha bisogno di repressione perché non ha opposizione. Perché chi controlla la realtà non ha bisogno di cambiarla: basta che la racconti. E se la racconta bene, la gente ci crede.

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