di Alberto Piroddi
E allora rieccoci qui, Trump di nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Un déjà-vu che sa di incubo, un ritorno che non ha sorpreso nessuno tranne, ovviamente, l’elite illuminata di Hollywood, Wall Street e i media liberal, tutti impegnati fino all’ultimo respiro a pompare la candidatura di Kamala Harris, il volto sorridente del disastro democratico. Non c’è bisogno di fare finta di meravigliarsi: quando le pagine di Repubblica e il coro del politicamente corretto si uniscono in una sinfonia a senso unico, puoi star sicuro che l’elettorato farà di tutto per andare nella direzione opposta.
Cos’è successo? È successo che la Harris, presentata come la novella messia dei diritti civili, non ha convinto nessuno tranne i soliti noti. Quelli che vivono nei loft di New York e nelle ville di Los Angeles, lontani anni luce dalla realtà del cittadino medio americano. Quello che ancora si trova a fare i conti con l’inflazione, la crisi economica, i debiti studenteschi e una politica estera che in nome della democrazia continua a spandere bombe in Medio Oriente.
I democratici si sono fregati con le proprie mani, affidandosi a una vicepresidente che, oltre ai sorrisi di circostanza, non ha portato a casa nulla di concreto. Anzi, se dobbiamo essere sinceri, ha solo aggiunto confusione a una politica estera già disastrosa. Biden, Harris, Clinton, Obama: una lunga linea di “progressisti” che di progressista non hanno nemmeno l’ombra. Perché dietro la patina di correttezza politica, cosa resta? Guerre, interventi militari, finanziamenti al complesso militare-industriale, tutto condito con un tocco di ipocrisia hollywoodiana.
Il “complesso militare-industriale” di cui parlava Eisenhower* è vivo e vegeto, e oggi ha fatto il lifting: accanto ai generali e ai produttori di armi troviamo i colossi della Silicon Valley e i fondi d’investimento come BlackRock e Vanguard. Trump, piaccia o meno, è stato l’unico a dichiarare la guerra a questa casta. Certo, lo ha fatto con la sua solita rozzezza, ma almeno non ha nascosto dietro un finto sorriso la sua politica.
Durante il suo primo mandato, Trump ha sganciato meno bombe di Obama, il Premio Nobel per la Pace. Questo è un fatto, non un’opinione. Il caro vecchio Obama, idolatrato dalla stampa di tutto il mondo, ha passato più tempo a ordinare bombardamenti con i droni che a fare bei discorsi sull’uguaglianza. Ma, si sa, se sei un democratico, i tuoi crimini vengono presentati con un packaging di lusso: sei il campione della libertà, l’esportatore della democrazia, mentre i civili che hai fatto saltare in aria diventano un danno collaterale.
Quindi, eccoci qui. Trump è tornato. E no, non è perché gli americani sono tutti razzisti, sessisti e ignoranti, come piace dipingere i media liberal. È perché l’America di Biden e Harris non è l’America della middle class, è l’America delle élite, dei discorsi patinati e delle promesse mai mantenute. È l’America che fa affari con l’industria bellica mentre ti racconta che vuole salvare il mondo.
E parliamo di Gaza, dell’Ucraina, dei morti che non fanno notizia perché, evidentemente, non sono abbastanza bianchi o non vivono in città trendy. Biden e Harris hanno continuato a rifornire di armi Israele mentre in pubblico alzavano un sopracciglio disapprovando Netanyahu. “Fermatevi!”, urlavano dalle pagine dei giornali, ma intanto firmavano assegni miliardari per sostenere una guerra che ha lasciato centinaia di migliaia di vittime civili. Ma tranquilli, era per una buona causa.
E adesso arriva Trump. Sì, il solito clown che parla senza filtro, che insulta, che sbeffeggia. Ma, almeno, il suo cinismo è più onesto. Non si nasconde dietro finti discorsi sulla pace mentre pianifica il prossimo intervento militare. La Harris, invece, è riuscita nell’impresa impossibile di essere meno convincente persino di Hillary Clinton. È tutto dire.
La cosa più triste, però, è che l’America non impara mai. Ha la memoria corta. Si illude di poter risolvere i problemi con un cambio di faccia alla Casa Bianca. Ma i problemi non sono né Biden né Trump, sono i gruppi di potere che li manovrano. Sono i colossi finanziari che possiedono tutto, dalle fabbriche di armi ai social media, che decidono chi può parlare e chi no. Oggi ti bannano da Twitter se osi dire che forse, ma solo forse, il diritto internazionale dovrebbe valere anche per Israele.
La verità è che con Trump o con la Harris, la politica estera americana non cambierà di una virgola. Continueranno a finanziare guerre, a sostenere dittatori quando fa comodo, a parlare di diritti umani mentre bombardano l’ennesimo villaggio sperduto. Ma almeno, per i prossimi anni, ci risparmieremo la retorica nauseante dei democratici, quella che ti dice che stanno uccidendo persone per il tuo bene.
Trump è tornato. E sapete una cosa? Se l’alternativa è una Harris che parla di diritti mentre firma assegni ai produttori di armi, forse l’America ha scelto il male minore. Non un eroe, ma almeno uno che non ti prende per il culo mentre ti bombarda.
* * *
* Il presidente americano Dwight D. Eisenhower, nel suo discorso di addio alla nazione nel 1961, descrisse la stretta relazione tra il governo, i militari e l’industria della difesa degli Stati Uniti.
Eisenhower avvertì che questa alleanza tra il potere politico, i vertici militari e le grandi aziende produttrici di armi poteva diventare pericolosamente influente. Temette che l’enorme potere accumulato da queste istituzioni potesse distorcere le priorità nazionali, portando gli Stati Uniti a entrare in guerre non necessarie per alimentare i profitti delle industrie belliche.
In sostanza, il suo messaggio era chiaro: se il complesso militare-industriale avesse continuato a crescere senza controllo, avrebbe potuto mettere in pericolo la democrazia stessa, subordinando l’interesse pubblico agli interessi economici delle aziende legate al settore militare.