Alla fine, anche Donald Trump si è accorto che l’Ucraina è un pozzo senza fondo. Che la guerra per procura è un’impresa fallimentare. Che isolare la Russia a livello diplomatico è una strategia insostenibile. E quindi, voilà, rieccoci al “reset”. Il grande ritorno della vecchia diplomazia a stelle e strisce, quella che oggi ti dichiara nemico mortale e domani ti tende la mano in nome di un qualche nuovo “interesse vitale”.
Keith Kellogg, il suo emissario, lo ha detto senza troppi giri di parole: “La necessità di un reset nei rapporti con la Russia, per garantire gli interessi nazionali americani e per smettere di impantanarci in una guerra per procura senza fine”. Come se non fosse stato proprio Washington, con le sue politiche suicide e il suo assegno in bianco a Kiev, a infilarsi mani e piedi nel pantano. Ma ora, dopo miliardi di dollari bruciati, dopo le montagne di armi inviate e dopo il disastro strategico di una guerra che ha rafforzato Putin invece di indebolirlo, ecco che la Casa Bianca cambia spartito.
Non è un dietrofront da poco. Il messaggio di Trump è chiaro: basta fondi senza condizioni, basta guerra a oltranza, si passa alla fase della trattativa. Ma, attenzione, non con un bel ramoscello d’ulivo, bensì con la classica dinamica americana del bastone e della carota. “Useremo la leva del sequestro dei beni sovrani russi congelati per ricostruire e riarmare l’Ucraina”, dice Kellogg. Traduzione: continueremo a rapinare Mosca con l’alibi delle sanzioni e intanto useremo questi soldi per mettere pressione a Kiev. Un’idea geniale, se non fosse che il furto dei fondi russi è una violazione del diritto internazionale e rischia di essere il detonatore per una nuova escalation.
Eppure, la Casa Bianca ha fretta. Il disastroso incontro tra Trump e Zelensky a Washington ha segnato la rottura definitiva. Il tycoon non ha gradito l’atteggiamento dell’alleato ucraino, che si ostina a chiedere armi e aiuti senza offrire in cambio alcuna strategia realistica per una fine del conflitto. Secondo Marco Rubio, Segretario di Stato, Zelensky starebbe addirittura “sabotando” gli sforzi di pace americani. Un’accusa pesante, che suona tanto come il preludio a un bel calcio nel sedere all’attore diventato presidente.
Dall’altra parte del fronte, Putin osserva e aspetta. Per ora, la Russia ha incassato l’ennesima dimostrazione di quanto la coerenza strategica americana sia un concetto astratto. Prima la demonizzazione assoluta, poi l’apertura al dialogo. Prima il mantra dell’“Ucraina resisterà”, poi la realtà di un Occidente esausto, con Washington che inizia a tagliare i fondi e l’Europa che non sa più dove sbattere la testa.
Si torna al “reset”, insomma. Come nel 2009, quando Hillary Clinton regalò a Lavrov quel ridicolo bottone rosso con scritto sopra “reset” in russo. Peccato che, invece di “reset”, ci fosse scritto “sovraccarico”. Un errore simbolico che riassume perfettamente la politica americana: una diplomazia che parla di pace mentre semina guerra, che predica stabilità mentre alimenta caos. Oggi, il bottone di Trump si chiama “negoziati forzati”, con un’Ucraina sempre più sola e una Russia sempre più centrale. E chissà se, tra qualche anno, gli americani non si ritroveranno a scoprire, ancora una volta, che il loro “reset” era solo un altro sovraccarico.