Com’era prevedibile, Donald Trump torna a giocare la carta dell’isolazionismo strategico, sventolando la minaccia di un ritiro degli Stati Uniti dalla NATO. Non che la cosa debba sorprendere nessuno: il tycoon ha sempre oscillato tra il nazionalismo economico da quattro soldi e la geopolitica degli affari, sfruttando l’eco mediatica delle sue uscite per rafforzare il proprio consenso interno. Ma il punto non è Trump. Il punto è l’ipocrisia della politica estera americana, la cui doppia morale si misura a colpi di bombe, embarghi selettivi e silenzi imbarazzati.
Prendiamo il caso di Israele. Mentre i giornaloni fanno le giravolte per non pronunciare la parola ‘genocidio’, Netanyahu prosegue indisturbato nel massacro della popolazione palestinese. L’ultima perla? Il blocco totale degli aiuti umanitari a Gaza, con la scusa che sarebbero ‘rubati dai banditi’. Tradotto: siccome l’IDF non riesce a controllare chi distribuisce acqua, cibo e medicine, tanto vale lasciar morire tutti. Un crimine di guerra, l’ennesimo, di fronte al quale Washington continua a fingersi cieca. Anzi, peggio: in tutta risposta, il Segretario di Stato Rubio ha appena firmato l’ennesimo pacchetto di aiuti militari a Israele, per la modica cifra di quattro miliardi di dollari.
E qui arriviamo al nodo della questione: gli Stati Uniti non sono un alleato di Israele, ne sono complici. Non c’è alcuna logica strategica nel sostegno incondizionato a Netanyahu, se non quella di garantire la sudditanza della politica americana all’industria bellica e ai potentati economici che foraggiano le campagne elettorali. Lo stesso Trump, che oggi finge di voler spezzare il cordone ombelicale con Tel Aviv, sa benissimo che la sua rielezione dipende anche dai miliardi che arrivano dai circoli filo-israeliani.
Il parallelo con l’Ucraina è illuminante. Zelensky, che fino a ieri godeva di un assegno in bianco da parte di Washington, oggi si trova improvvisamente senza fondi. Trump gli ha detto chiaro e tondo: ‘Vuoi continuare la guerra? Bene, fallo senza di noi’. Una posizione sensata? Dal punto di vista dell’interesse americano, sì. Dopo anni di spese folli, il conflitto si è trasformato in una palude senza via d’uscita, mentre l’Europa comincia a sentire il peso di una strategia fallimentare. Eppure, se lo stesso ragionamento fosse applicato a Israele, la Casa Bianca crollerebbe sotto il peso delle accuse di ‘tradimento’, ‘antisemitismo’ e ‘minaccia alla sicurezza nazionale’. La morale è sempre la stessa: gli amici di Washington sono amici finché servono.
Nel frattempo, l’Onu continua a ripetere come un disco rotto che serve una soluzione politica basata sui confini del 1967 e la coesistenza di due Stati. Il problema? Gli Stati Uniti, che bloccano qualsiasi risoluzione in tal senso con il loro solito veto. Eppure, nel mondo reale, il sostegno alla Palestina cresce ovunque: la maggior parte dei Paesi del G20, i BRICS, la Lega Araba e persino settori sempre più ampi dell’opinione pubblica occidentale chiedono una fine immediata della carneficina. Ma come sempre, la voce di miliardi di persone conta meno delle esigenze di Netanyahu e del suo governo di fanatici messianici.
In questo contesto, il ventilato ritiro dalla NATO suona come l’ennesimo bluff trumpiano. Perché se davvero il tycoon volesse mettere fine al sistema delle alleanze imposte dagli interessi americani, partirebbe da Israele, non dall’Europa. Ma non lo farà. Perché, al di là dei proclami, il sistema che alimenta guerre, destabilizzazioni e massacri è sempre lo stesso. E chiunque sieda nello Studio Ovale sa benissimo che certe carte non si possono cambiare, si possono solo rimescolare per ingannare il pubblico. E Trump, in questo, resta un maestro insuperabile.