Elezioni col botto in Groenlandia: il partito di centrodestra Demokraatit, mai stato al governo prima d’ora, ha sbancato le urne con una campagna elettorale incentrata sul rifiuto netto dell’ennesima pretesa di Donald Trump di mettere le mani sull’isola artica, ricca di minerali e strategicamente appetibile. L’uscente primo ministro Múte B. Egede è stato mandato a casa dagli elettori, che hanno scelto una formazione che ha puntato anche su temi interni come sanità, istruzione e lavoro, segno che i groenlandesi ne hanno abbastanza delle invasioni di campo internazionali e preferiscono pensare ai loro problemi.
Dietro ai Demokraatit si piazza Naleraq, il partito apertamente indipendentista il cui leader sogna l’addio definitivo alla Danimarca entro tre anni e un accordo di sicurezza con gli Stati Uniti, ma senza svendersi al miglior offerente. A dargli una spinta, nelle ultime settimane, due ingressi eccellenti: quello di una delle due rappresentanti groenlandesi nel Parlamento danese e del suo fidanzato, noto per aver fatto discutere dopo la sua presenza all’insediamento di Trump.
Risultati alla mano, Demokraatit ha ottenuto quasi il 30% dei voti e ora il suo leader, Jens Frederik Nielsen, dovrà costruire una coalizione per formare il nuovo governo. Per festeggiare, ha imbracciato la chitarra e cantato con i suoi sostenitori nella capitale Nuuk.
Il messaggio al tycoon di Mar-a-Lago è chiaro: “Qui non ci vendiamo al miglior offerente”. Trump, che non si arrende mai all’idea che ci sia qualcuno che non lo voglia, ha pensato bene di ribadire il suo interesse domenica scorsa con il solito tono magnanimo da piazzista: “Continueremo a proteggervi, come facciamo dalla Seconda guerra mondiale. Siamo pronti a investire miliardi di dollari per creare nuovi posti di lavoro e rendervi ricchi”. Tradotto: la Groenlandia diventi americana e i groenlandesi si accontentino di fare da comparse.
Il premier uscente Egede, che di solito è più incline a prendersela con la Danimarca e il suo passato coloniale, ha rintuzzato Trump senza troppi giri di parole: “Ci ha trattati con totale mancanza di rispetto sin dal suo insediamento”. Del resto, l’uscita di Trump sull’”acquisto” della Groenlandia è stata una delle più imbarazzanti del suo repertorio, tant’è che nel 2019, quando fece la sua prima offerta a Copenaghen, l’allora premier danese Mette Frederiksen lo liquidò con un secco “assurdo”.
Nella mente dei groenlandesi, il dilemma è sempre quello: indipendenza sì, ma a che prezzo? Tutti i partiti principali concordano sulla necessità di staccarsi dalla Danimarca, ma ognuno con tempi e modi diversi. L’unica certezza è che la Groenlandia non è in vendita, come ha ribadito più volte la classe politica locale. E se Trump pensava di poter scavalcare Copenaghen e trattare direttamente con Nuuk, si è trovato di fronte un muro.
L’autonomia della Groenlandia è una questione che si trascina da decenni. Colonia danese fino al 1953, l’isola ha ottenuto un primo grado di autogoverno nel 1979 e un’ulteriore espansione dei propri poteri nel 2009, mantenendo però la Danimarca responsabile per la politica estera e la difesa. Per ottenere l’indipendenza, serve un referendum che, per ora, i sondaggi danno per scontato: secondo un’indagine di Berlingske e del giornale groenlandese Sermitsiaq, l’84% dei groenlandesi la vuole, mentre solo il 9% la rifiuta. Peccato che il 45% sia disposto a votarla solo se non ne deriverà un peggioramento delle condizioni di vita e il 55% voglia che la Danimarca continui a sovvenzionare l’isola anche dopo la secessione.
E poi c’è il fattore Trump, che ha riportato a galla un tema mai risolto: il rischio che, fuori dal Commonwealth danese, la Groenlandia diventi terra di conquista per le superpotenze. Secondo l’analista politico Rasmus Leander Nielsen, “Le dichiarazioni di Trump sono state controproducenti e hanno spinto molti groenlandesi a tirare il freno”.
Non che il problema riguardi solo la Groenlandia: il pressing di Trump ha fatto alzare più di un sopracciglio in Europa e nella NATO. Ulrik Pram Gad, del Danish Institute for International Studies, ha messo il dito nella piaga: “Questa diplomazia basata sulle minacce è un boomerang per gli Stati Uniti. Gli alleati vogliono prendere le distanze perché sanno di non poter più fidarsi”.
E mentre i groenlandesi ballano e cantano per festeggiare la loro piccola rivoluzione elettorale, a Washington qualcuno deve aver già iniziato a riscrivere il copione per il prossimo tentativo di “acquisizione ostile”.