Fascisti su Marte | di Marco Travaglio

La serie M – Il figlio del secolo è molto ben fatta. Ha un solo difetto: ci racconta un uomo che non è Benito Mussolini, ma la sua macchietta, e un movimento che non è il vero fascismo, ma la sua caricatura.

di Marco Travaglio

La serie M – Il figlio del secolo è molto ben fatta. Un po’ statica, noiosa e sconnessa, forse. Ma tecnicamente impeccabile per cast, interpretazioni, regia, ambientazioni, musiche, spettacolo. Ha un solo difetto: ci racconta un uomo che non è Benito Mussolini, ma la sua macchietta, e un movimento che non è il vero fascismo, ma la sua caricatura. Si dirà: inevitabile, è una fiction di intrattenimento, per giunta ispirata a un romanzo, quello di Antonio Scurati. Ma allora era meglio precisare che è roba di fantasia, chiamando il protagonista Bonito Napoloni come nel Grande dittatore di Chaplin, Ermanno Catenacci come il personaggio di Bracardi, Gaetano Maria Barbagli come quello di Guzzanti in Fascisti su Marte. Il rischio è che chi vede la serie pensi che il duce e i personaggi storici che gli ruotano attorno fossero davvero così: marionette, parodie e sagome da teatro dei pupi o del grottesco. E vada a cercare conferme, trovandole, nel romanzo di Scurati, anziché documentarsi sui veri libri di storia di studiosi come Renzo De Felice, Emilio Gentile, Denis Mack Smith, Nicola Tranfaglia, Gianni Oliva, Angelo D’Orsi e altri, o di divulgatori alla Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Arrigo Petacco.

Mai come in questo momento di amnesie e revisionismi, dove la boss di Afd si permette di dire a Musk senza tema di smentite che Hitler era un comunista (infatti ne sterminò a migliaia), servono precisione e profondità storica, non barzellette, scenette e banalizzazioni un tanto al chilo. Mussolini non era una macchietta, era un personaggio serio e tragico: non sporgeva il mento e la mascella quando teneva in braccio i suoi bambini, non passava tutto il tempo a trombare, a sproloquiare idee confuse e a far menare il prossimo, non faceva il dito medio in piena Camera, non diceva “Make Italy great again” perché non conosceva Trump (e, a scanso di equivoci: sua sorella si chiamava Edvige, non Arianna). Gabriele D’Annunzio a Fiume non aveva il tavolo lunghissimo di Putin per tenere le distanze da Benito al posto di Macron (purtroppo sconosciuti al Vate). Margherita Sarfatti non era solo l’amante infoiata che parla come la Vanoni, ma una intellettuale, artista e mecenate. Marinetti non era un pagliaccio vestito come Totò a Capri fra gli esistenzialisti, che siede in terra nel salotto della Sarfatti e declama Zang tumb tumb come un deficiente spiritato: è il fondatore di un’avanguardia artistico-culturale che segnò tutto il secolo e a cui tuttoggi si ispira la performance art e si dedicano studi e mostre (l’ultima a Londra). Re Vittorio Emanuele III non era il nanerottolo smarrito che si inerpica su un inesistente trono a Montecitorio con le gambette a penzoloni e parla come la Littizzetto.

È il portatore del disegno politico di cooptare i fascisti, nell’illusione di plasmarli ai suoi scopi e usarli contro le sinistre (dalla Russia arrivava il contagio di una cosetta come la Rivoluzione bolscevica): un protagonista che non firma lo stato d’assedio e non ferma la marcia su Roma (un mezzo flop), non una comparsa imbelle che subisce gli eventi. E attorno a Mussolini non c’erano solo i Dumini e i Volpi, criminali comuni e futuri assassini di Matteotti: c’erano pezzi dell’Italia profonda, magmatica e contraddittoria, delle masse uscite dalla Grande guerra che si sentivano per la prima volta protagoniste, facevano la fame per la crisi galoppante, premevano alle porte del palazzo pretendendo di votare e di contare, scuotevano le tarme dell’ancien régime notabilar-liberale anche menando le mani nella lunga e violenta guerra civile su tutti i fronti (socialisti/fascisti, agrari/braccianti, padroni/operai) o, se stava bene o benino, reclamando ordine dopo tanto caos. Ma quell’Italia, nella serie, non c’è. E, senza il senso di quella tragedia, le violenze fasciste esaltate e martellate fino allo splatter emozionano poco o nulla: arrivano a freddo, gratuite, fine a se stesse, inspiegabili perché inspiegate.

Quando si vedranno le folle oceaniche sotto il balcone di piazza Venezia, nessuno capirà perché 45 milioni di italiani fossero così entusiasticamente fascisti, più ridicoli della macchietta che li chiamava all’“Eja eja alalà”. Nessuno capirà come abbia fatto quel fenomeno da baraccone del Benito a durare 21 anni (più il truce post scriptum di Salò), ad affascinare non qualche canaglia da suburra, ma Churchill e Gandhi, a conquistare quasi tutto il meglio della futura intellighenzia, convertita all’antifascismo dopo il 25 luglio ‘43 o, per maggior sicurezza, dopo il 25 aprile ‘45 insieme agli stessi 45 milioni di italiani. Tant’è che il Duce al passo d’addio si lasciò sfuggire: “Come si fa a non diventare padroni in un Paese di servi?”. Già ora non si comprende perché, negli spot, il Mascellone ci dica “Seguitemi, anche voi diventerete fascisti” e, in lieve contraddizione, “Guardatevi intorno: siamo ancora tra voi”. Ma noi e voi chi? Già i fascisti su Marte di M non sono quelli di un secolo fa, figurarsi se somigliano a chi oggi davvero minaccia le democrazie: le big tech, i monopolisti dell’informazione, della censura e del pensiero unico, i governi tecnici e “migliori” che se ne fregano delle elezioni e, se non danno il risultato sperato dai “mercati”, le ribaltano o le annullano. L’unica, impressionante parentela sarebbe fra il Mussolini socialista che passa da neutralista a interventista e il partito della guerra dei nostri sinceri democratici atlantisti. Ma questi, siccome non indossano la camicia nera, sono bravi ragazzi.

Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2025

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