L’ipocrisia selettiva dell’indignazione democratica – È questo il cuore pulsante dell’articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano del 17 dicembre 2024, firmato da Pino Corrias e intitolato Miliardi di sangue: dittatori col malloppo e vie di fuga dorate. Un pezzo in cui, con il consueto tono da oracolo indignato, Corrias ci racconta la parabola dei tiranni in fuga, con casse di lingotti d’oro, mogli complici e folle esultanti che demoliscono statue di bronzo. La narrativa è semplice, netta e soprattutto comoda: ci sono i cattivi (Assad, Gheddafi, Saddam) e ci sono le vittime (il popolo oppresso che si ribella). Il tutto condito con il moralismo tipico del progressismo di facciata. Ma a guardare più da vicino, l’articolo non è altro che l’ennesima declinazione della doppia morale geopolitica: quella che condanna i dittatori scomodi e chiude entrambi gli occhi di fronte ai tiranni amici. Un sermone che, più che illuminare le coscienze, sembra ricalcare fedelmente i dettami della politica estera atlantista, mentre i veri “miliardi di sangue” continuano a scorrere nei forzieri di chi ha la fortuna di trovarsi dalla parte giusta del potere.
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Pino Corrias è uno di quei cronisti che, con penna affilata e linguaggio da giudice dell’apocalisse, sale sul pulpito per elencare i peccati capitali del mondo. Peccato che i suoi sermoni, pur traendo spunto da verità storiche, finiscano spesso per ricalcare il catechismo del Partito Democratico, aggiornato al capitolo “dittature maledette dall’Occidente”. L’articolo su Assad e i “dittatori col malloppo” potrebbe tranquillamente intitolarsi Il Vangelo Secondo l’Accidente, una parabola distorta dove il bene e il male dipendono da chi sta distribuendo l’incenso e chi sta ricevendo le ceneri. E soprattutto, chi sono gli amici e chi i nemici degli Stati Uniti e di Israele.
Vediamo un po’. La sceneggiatura è quella tipica: il tiranno spietato, l’eroica sollevazione del popolo oppresso, e infine l’inevitabile fuga con lingotti d’oro e mogli compiacenti al seguito. Corrias lo recita con la solita teatralità, ma a ben guardare, sembra più una versione aggiornata della Buona Novella targata Zuppa di Sinistra: gli amici dell’Occidente sono santi, i nemici sono carne da macello. E non importa quanta gente venga torturata nei sotterranei dorati degli alleati, purché il rituale della denuncia ipocrita sia rispettato.
Corrias, con tono da cantore del destino, elenca una lista di dittatori che finiscono male: Assad, Gheddafi, Saddam Hussein, Ben Ali. Tutti spazzati via dall’indignazione popolare e dalla mano armata della Storia. Ma guarda caso, sono tutti leader invisi all’Occidente o, più precisamente, al Dipartimento di Stato americano e ai suoi sponsor mediorientali.
Chi invece è rimasto al suo posto? Chi è osannato come baluardo di stabilità e progresso? Prendiamo gli amici di Israele e degli USA, come gli Al Saud in Arabia Saudita, con le loro esecuzioni pubbliche, il controllo totale della stampa, e una società che se potesse, si collocherebbe stabilmente nel XIII secolo. Per non parlare di quei simpaticoni degli Emirati Arabi Uniti, dove se osi parlare troppo, finisci a fare il giro turistico delle carceri segrete di Abu Dhabi. Ma guai a chiamarli dittatori: sono “alleati strategici”, “partner economici”, e in qualche caso, persino “riformatori illuminati”.
Il doppio standard è la regola aurea, l’incenso per gli amici e il fango per i nemici. Corrias si agita tanto nel denunciare Assad, ma sembra non avere lo stesso entusiasmo quando si tratta di puntare il dito contro le monarchie del Golfo, che di mattatoi e carceri segrete ne hanno a iosa. Forse perché denunciare un regime quando questo è seduto al tavolo degli amici significa rischiare l’invito alla prossima cena di gala?
Il grande crimine di Assad non è solo essere un dittatore spietato – e di certo lo è – ma essere l’alleato sbagliato. Se invece di legare il suo destino a Teheran avesse siglato accordi con Israele, oggi i giornali occidentali lo presenterebbero come un “difensore contro l’estremismo”. Come se per magia, le fosse comuni e le torture scomparissero grazie al tocco benedetto delle diplomazie giuste.
È una lezione che gli Al Saud hanno imparato a memoria: se stai dalla parte dell’Occidente, puoi permetterti di smembrare giornalisti nei consolati stranieri senza che l’indignazione mediatica duri più di una settimana. Se sei un tiranno amico dell’Occidente, il tuo paese può bombardare lo Yemen per anni, riducendo un’intera nazione alla fame, senza che nessuno organizzi una marcia per la pace. Ma se ti chiami Assad, Gheddafi o Saddam, ogni tuo peccato sarà scolpito nella pietra come monito eterno, e la tua caduta sarà celebrata come la vittoria della libertà.
Corrias si lamenta della “fuga dei tiranni”, come se fosse un rituale eterno di giustizia divina. Ma il rito è sempre lo stesso perché è pilotato, orchestrato con la precisione di un direttore d’orchestra che decide chi deve cadere e chi deve restare in piedi. Ogni dittatore detronizzato è un dito puntato per distrarre l’opinione pubblica dai veri burattinai del potere globale.
E mentre Corrias si scalda nel raccontare le fughe dei cattivi, le TV già provvedono a ripetere la litania ufficiale: il male ha perso, il bene ha trionfato, e l’Occidente può continuare a dormire sonni tranquilli. La sceneggiatura è sempre quella, eppure riesce ancora a incantare chi si accontenta delle favole.
Alla fine, quello che resta è l’immagine di un Corrias impegnato a declamare la solita messa laica dove i peccati sono selezionati con cura e le assoluzioni concesse solo ai fedeli del culto occidentale. Il sermone è sempre lo stesso: il mondo si divide in buoni e cattivi, e i cattivi sono quelli che non si piegano alla narrazione dominante.
Ma di fronte a questo rito stanco e ipocrita, è lecito chiedersi: davvero pensate che possiamo ancora bere questa minestra riscaldata? Davvero credete che possiamo applaudire alla caduta di Assad mentre fingiamo di non vedere le atrocità degli alleati “buoni”? Forse è ora di riscrivere questa sceneggiatura. E di lasciare Corrias e i suoi pari a recitare da soli, nel teatro delle loro indignazioni selettive.